Lectio divina Abbazia di Santa Maria di Pulsano (FG)
(28 dicembre 2020)
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ANNO B - II Domenica dopo Natale
DOMENICA «DEL VERBO DIO INCARNATO»
Siracide 24,1-2.8-12, NV 24,1-4.12-16 • Salmo 147 • Efesini 1,3-6.15-18 • Giovanni 1,1-18
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Il Verbo, fra gli uomini è presente nel mondo e il mondo non lo conosce. Non è una luce che abbaglia. È «la luce vera». Quando gli uomini si incrociano, di notte, sui loro bolidi che sfrecciano via con tutti i fari accesi, si accecano senza illuminarsi. La luce vera, invece, è capace di attenuarsi. Non abbaglia, ma penetra nel cuore degli uomini, illumina le loro gioie e le loro pene, il loro lavoro e le loro giornate. Gli uomini hanno bisogno di vedersi rivelati dalla luce vera dell'amore. Soltanto allora, anche se nati dalla carne e dal sangue, dal volere di una creatura di carne, possono rinascere da Dio, possono diventare figli di Dio. Dalla sua pienezza tutto abbiamo ricevuto, per dire al mondo, a nostra volta, la parola che fa vivere.
«Io sono uscita dalla bocca dell'Altissimo e ho ricoperto come nube la terra... Prima dei secoli, fin dal principio, egli mi creò... ho posto le radici in mezzo a un popolo glorioso...». La prima lettura di questa domenica costituisce uno dei grandi elogi della Sapienza divina: essa si identifica da una parte con la Parola di Dio personificata, dall'altra con lo Spirito divino che si librava sulle acque primordiali.
Il prologo di Giovanni ha un andamento molto simile: Gesù è chiamato la Parola, il Verbo, in quanto rivelazione definitiva del Padre. E la Parola, per Giovanni, evoca precisamente il ricordo della Parola divina dell'Antico Testamento, Parola che trova la sua perfezione in Gesù: egli è la Parola di Dio fattasi carne per la vita del mondo.
La seconda lettura è costituita dall'inno con cui Paolo inizia la lettera ai cristiani di Efeso. Dio ci ha predestinati ad essere suoi figli per opera di Gesù. Dobbiamo chiedergli «uno spirito di sapienza e di rivelazione per una più profonda conoscenza di lui».
Ci troviamo di fronte ad un grande trittico scritturistico: con toni solenni celebriamo l'intervento di Dio Padre nella storia degli uomini nella persona annunciata nell'Antico Testamento; il Verbo è la Parola di Dio che si è fatta carne e ha piantato la sua tenda fra noi; in lui Dio «ci ha benedetti con ogni benedizione...».
Per molti oggi questa "Parola" cade nel vuoto. Dio non fa più parte delle nostre abitudini. Oggi la sua esistenza è messa in discussione. L'ateismo non è più soltanto il problema di pochi: esso investe un numero sempre maggiore di uomini, tanto da diventare un cosiddetto fenomeno di civiltà. «Dio non serve a niente», è l'obiezione più facile. In effetti Dio non esiste per «servire» a qualche cosa, come molti ancora pensano; Dio non è il medico dei casi disperati, né un'agenzia di assicurazioni su pegni di giaculatorie o pellegrinaggi, né un alibi per spiegare quello che l'uomo non capisce o ancora non riesce a fare. Il Dio di Gesù Cristo non è una specie di tiranno, benevolo o irritato, secondo i casi, che interviene arbitrariamente nel corso degli avvenimenti per arrestarne alcuni o modificarne altri. Credere in un Dio così, è sedere nell'anticamera dell'ateismo. Non è semplice fare un'analisi del complesso problema dell'irreligiosità moderna poiché non si presenta come un tutto omogeneo e anche le sue radici affondano spesso nell'inafferrabilità della coscienza individuale. Non sono pochi coloro che danno la responsabilità di tutto questo a larghe sfere della cristianità stessa che con atteggiamenti sbagliati e con un certo assenteismo ne avrebbero favorito il dilagare. Alla base del fenomeno dell'ateismo e dello scetticismo religioso attuali c'è spesso l'ignoranza dell'autentico messaggio cristiano. Per questo la Chiesa ha teso la mano agli atei per un incontro leale ed un dialogo sincero. Ci si dimentica che l'uomo in tutto il suo essere spirituale, cioè nelle sue supreme facoltà di conoscere e di amare, è correlativo a Dio, è fatto per Lui; e ogni conquista dello spirito umano accresce in lui l'inquietudine, e accende il desiderio di andare oltre, di arrivare all'oceano dell'essere e della vita, alla piena verità che sola dà la beatitudine. Togliere Dio come termine della ricerca, a cui l'uomo è per natura sua rivolto, significa mortificare l'uomo stesso. La così detta «morte di Dio» si risolve nella morte dell'uomo. E allora un primo dovere ci coglie: quello di godere della conoscenza di Dio; e un secondo: quello di cercarlo di cercarlo appassionatamente, dove, come e quando egli si lascia incontrare.
Dall'eucologia:
I Colletta
Dio onnipotente ed eterno,
luce dei credenti,
riempi della tua gloria il mondo intero,
e rivelati a tutti i popoli
nello splendore della tua verità.
Per il nostro Signore...
Così la I colletta ci fa pregare in questa II Domenica dopo Natale; ma già la liturgia sta producendo i suoi effetti:
Antifona d'Ingresso Sap 18,14-15
Nel quieto silenzio che avvolgeva ogni cosa,
mentre la notte giungeva a metà del suo corso,
il tuo Verbo onnipotente, o Signore,
è sceso dal cielo, dal trono regale.
La divina liturgia inizia con il canto di Sap 18,14-15, che è la scena grandiosa della divina Parola, che nella notte tenebrosa destinata a passare, discende dal Trono regale fino agli uomini, inaugurando il Giorno della giustizia. Prosegue poi con il canto all'Evangelo:
Canto all'Evangelo cf. 1 Tm 3,16
Alleluia, alleluia.
Gloria a te, o Cristo, annunziato a tutte le genti;
gloria a te, o Cristo, creduto nel mondo.
Alleluia.
1Tim 3,16, adattato [Nota: «Dobbiamo confessare che grande è il mistero della pietà: Egli si manifestò nella carne, fu giustificato nello Spirito, apparve agli angeli, fu annunziato ai pagani, fu creduto nel mondo, fu assunto nella gloria».], è l'«inno battesimale» tripartito, con 6 parallelismi, che proclamano il Mistero del Signore glorioso, qui limitato alla predicazione apostolica alle nazioni, e alla fede che ha suscitato.
Questa Domenica dunque è tutta un canto a Cristo, la Parola eterna del Padre, che ha posto la sua dimora fra gli uomini; continua la contemplazione del grande mistero dell'incarnazione come ci è presentato nel prologo del quarto Evangelo.
Il celebre Prologo di Giovanni si legge nei Rito bizantino nella grande Veglia del Sabato Santo; facendo chiasmo teologico (corrispondenza mirabile!) il medesimo testo celebra Cristo nella sua Resurrezione in Oriente, nel suo Natale in Occidente.
Analizzare il Prologo qui è impossibile ma possiamo dare un avvio valido di lettura. Lo schema che ci aiuterà, parte dall'ultimo versetto della nostra pericope; non meravigliamoci è la nota legge della «lettura Omega»: leggere a partire dalla fine.
La Resurrezione del Figlio di Dio, operata dallo Spirito Santo (At 2,32-33) è l'evento centrale della storia degli uomini. Chi non sta con la mente fissa alla Resurrezione, sta fuori del centro della vita di fede. La Resurrezione è l'evento onnipervadente della vita cristiana, non solo passata e presente, ma anche futura ed eterna: noi siamo destinati alla resurrezione e alla divinizzazione!
Occorre ripetere tutto questo come un ritornello implacabile, fatto che purtroppo non avviene spesso (mai!) nelle omelie o negli incontri di formazione. La Chiesa creata dallo Spirito Santo a Pentecoste è il frutto primario della Resurrezione; la Parola divina e la stessa storia vanno lette a partire dalla Resurrezione. La Resurrezione come «punto Omega» proietta luce sull'Alfa della redenzione, che è l'A.T., il quale solo così svela i suoi immani Tesori della lunga preparazione: esso per intero parla di Cristo (Rm 1,1-4; Gv 5,46). La Scrittura si legge dalla Resurrezione, altrimenti resta una lettura vuota, fuori centro se non addirittura deviante.
Ecco ora il nostro schema:
- Il Figlio Monogenito sussiste in etemo in relazione indicibile con il Seno del Padre (Gv 1,18), che non abbandona mai. Esso anzi è la Cattedra divina dalla quale il Figlio insegna la Dottrina del Padre agli uomini.
- Questo Figlio sussisteva come Principio divino: questi è il Verbo, il quale sussisteva in eterno presso Dio, ed era Egli stesso il Dio eterno (Gv 1,1-2). Egli, certo con il Padre e con lo Spirito Santo, è il divino Creatore di tutto, e nulla esistette senza Lui. In tutto quello che venne all'esistenza, il Verbo Dio Creatore fu la Vita (Gv 1,3). Ma la Vita si manifesta come la Luce vivificante per gli uomini (Gv 1,4), che dirada le tenebre, anche se queste non l'accolgono (Gv 1,5). Questa era l'unica Luce vera, che venendo nel mondo illumina, ossia dona la vita agli uomini (Gv 1,9), nel mondo creato dal Verbo Dio Luce Vita, benché non sia accolto (Gv 1,10-11).
- Per dare la Vita agli uomini, il Verbo si fece carne e pose le sue tende tra di essi. In modo così reale, che gli uomini videro la sua Gloria, la Croce, propria del Monogenito inviato dal Padre (vedi 3,16), unica Fonte della Grazia dello Spirito Santo e della Verità che è Lui stesso (Gv 1,14).
Ed eccone gli effetti:
- Egli donò il suo Pneuma, la Pienezza che è lo Spirito Santo, a tutti i suoi credenti, nella forma progressiva in crescendo della "Grazia per Grazia": anzitutto la Grazia della Legge di Mosè, poi la Grazia e la Verità di Gesù Cristo, il Messia divino d'Israele (Gv 1,16-17);
- a quanti Lo accolsero, e credono nella sua Divinità e Umanità, "il Nome" unico, Egli donò la capacità di "diventare figli di Dio" per Grazia, non veramente nati secondo l'umanità peccaminosa, bensì realmente "nati da Dio" (Gv 1,12-13).
- Questa è la divinizzazione portata dal Verbo Dio. L'Antifona di comunione ci ricorda che per noi credenti questa rivelazione è l'attuazione del Mistero di oggi, che si percepisce per la partecipazione all'Altare. Il mondo, ma soprattutto i fedeli "qui oggi", fino ai confini della terra vedono come si attua il Mistero del Signore, il Dio dell'alleanza, "nostro", poiché noi siamo popolo "suo".
Questo avviene perché con irresistibile progressione, la sua Pienezza, lo Spirito Santo, dona «grazia su grazia», ogni Grazia, tutta la Grazia (cf Ef 1,23; 3,19; 4,13; Col 1,19; 2,9; Gv 3,34).
Questa è «l'esegesi» del Padre con il suo Disegno, svolta dal Dio Monogenito in cui il Padre stesso si rende finalmente visibile (cf Gv 14,9) per tutti i fedeli del Figlio. La Resurrezione è la fonte unica inesauribile di tanta Grazia Luce Vita.
«La prima pagina del Quarto Evangelo è dunque uno dei passi più densi del Nuovo Testamento, una sintesi della cristologia e della teologia dell'autore dell'Evangelo. Si sono fatti molti tentativi per discernere la struttura letteraria di questo antico inno cristiano. La maggior parte seguono un andamento temporale:
- dalla preesistenza (vv. 1-2)
- alla creazione (vv. 3-5),
- procedendo attraverso la storia della condizione umana
- fino a raggiungere il punto culminante dell'incarnazione (vv. 6-14).
- La parte finale dell'inno tratta della successiva accoglienza del Logos incarnato (vv. 15-18) (cf ad esempio, Lagrange 2-34).
Questo inno cristiano tuttavia può anche rispecchiare qualche ben noto schema della poesia biblica, in particolare l'uso del parallelismo. Un indizio che si possa trattare appunto di questo si trova nel doppio riferimento a Giovanni Battista (vv. 6-8.15), che ostacola la maggior parte dei tentativi di trovare una formale struttura letteraria per Giovanni 1,1-18. Questi passi che parlano del Battista indicano che l'inno è diviso in tre parti:
- Il Verbo di Dio diventa la luce del mondo (vv. 1-5)
- L'incarnazione del Verbo (vv. 6-14)
- Il rivelatore: l'unico Figlio rivolto verso [«che è in seno a»] il Padre (vv. 15-18).
Antifona alla Comunione Gv 1,12
A tutti quelli che lo hanno accolto
il Verbo incarnato
ha dato il potere di diventare figli di Dio.
ESAMINIAMO IL BRANO DELL'EVANGELO
v. 1 «In principio era il Verbo», in gr. En archē ēn ho logos: Le prime parole del Prologo, stabiliscono un parallelo tra l'inizio dell'Evangelo e la descrizione biblica dell'inizio della storia dell'umanità in Gen 1,1. Prima dell'archè di Gen 1,1 esistevano soltanto Dio, le acque del caos e le tenebre, ma l'autore del Quarto Evangelo annuncia che anche allora il Verbo «era» (en). L'uso del tempo imperfetto del verbo «essere» mette il Verbo al di fuori dei limiti di tempo e di luogo, nessuno dei quali esisteva en archē (Gen 1,1). Il Verbo preesiste alla storia umana, e il Verbo non preesiste in proprio ma in un rapporto con Dio (pròs tòn theón). La preposizione pròs significa qualcosa di più dello statico «con». Ha un senso di movimento verso la persona o la cosa che segue. Perciò Moloney traduce: «Il Verbo era rivolto verso Dio». C'è un dinamismo nel rapporto che in qualche modo deve essere espresso. Ma c'è di più. L'autore ha scelto l'espressione greca ho logos per insinuare, fin dall'inizio, che dall'intimità di Dio verrà pronunciata una parola. La parola esiste per esprimere qualcosa, e così la rivelazione, uno dei temi dominanti dell'Evangelo, compare già nel primo versetto. Questo versetto conclude con una descrizione degli effetti di questa intensa intimità tra il Verbo e Dio.
«ciò che era Dio lo era anche il Verbo»: La traduzione tradizionale è «e il Verbo era Dio», ma questa traduzione potrebbe indurre il lettore contemporaneo a fare del Verbo e di Dio un tutt'uno: sono entrambi Dio. L'autore si è dato un gran da fare a indicare che l'identificazione tra il Verbo e Dio deve essere evitata. La frase greca (kai theos en ho logos) mette il complemento (theos: Dio) prima del verbo «essere» e non usa l'articolo. È estremamente difficile cogliere questa sottigliezza in traduzione; comunque, l'autore evita di dire che il Verbo e Dio sono la stessa identica cosa. La traduzione «ciò che era Dio lo era anche il Verbo» indica che il Verbo e Dio mantengono la propria identità nonostante l'unità che fluisce dalla loro intimità.
v. 2 - «Egli era in principio con Dio»: Il versetto sostanzialmente ripete ciò che è già stato detto, ma «il Verbo» (v. 1) è indicato con un pronome personale: «egli» (houtos = «questo uomo»). Il pronome guarda all'indietro al termine maschile logos e anche in avanti a una figura con una storia umana. Chi potrà essere «questo uomo»? Molto è stato affermato in questi primi versetti: la preesistenza del Verbo, il suo intimo rapporto con Dio e il primo accenno a una successiva rivelazione che si verificherà nella storia umana per mezzo della storia narrata dal Verbo. Questa descrizione insistente del Verbo da parte dell'evangelista Giovanni sembra rivelare che tutto l'Evangelo debba essere letto alla luce di questo versetto. Le azioni e le parole di Gesù sono le azioni e le parole di Dio; se questo non è vero il libro è inutile, anzi blasfemo.
vv. 3-4: Questi versetti sono stati la fonte di molti problemi per gli studiosi, problemi legati per la maggior parte all'interpretazione teologica che l'esegeta dà di questo passo. L'uso dell'aoristo e il repentino passaggio dall'uso regolare dell'imperfetto del verbo «essere» guarda indietro al passato a un punto nel tempo in cui ogni cosa (panta) è stata fatta (egeneto) per mezzo del Verbo e niente (oudé) di ciò che esiste nel creato è stato fatto senza la sua presenza mediatrice. C'è stato un momento nel passato quando l'atto rivelatore della creazione ha avuto luogo (egeneto) per mezzo del Verbo (di'autou). Il tempo del verbo cambia di nuovo quando una nuova frase inizia con ho gegonen. Un passaggio dall'aoristo del v. 3ab al passato prossimo del v. 3c indica che un evento ha avuto luogo in passato, ma l'effetto di tale evento continua al presente (gegonen). Nei vv. 3c-4 troviamo il primo accenno che l'Evangelo fa dell'incarnazione. Il Verbo è entrato nella storia umana e ha fatto della vita una possibilità permanente. La comparsa del Verbo di vita ha portato la luce. La vita che è luce è entrata nella storia umana in un evento che ha avuto luogo in passato, ma il cui effetto fa ancora parte della storia presente. Il Verbo parla per effetto dell'intimità con Dio (vv. 1-2), e in tal modo manifesta Dio, sia nel creato (v. 3ab) che nella presenza dello stesso Verbo nella storia umana (vv. 3c-4). Questa conoscenza assicura la vita verso la quale aspira l'umanità, una vita che dà senso e direzione: la luce.
v. 5: C'è uno stretto legame tra il v. 4 e il v. 5, ma mentre il primo annuncia che il Verbo è la luce del mondo, il secondo indica che questa luce continua ad essere presente nonostante l'accoglienza ostile che le è riservata.
vv. 6-14: La sublime poesia dei vv. 1-5 scompare momentaneamente mentre i vv. 6-8 danno una descrizione più narrativa della figura e del ruolo di Giovanni Battista. Da molti considerati un'aggiunta secondaria al Prologo, questi versetti sono in realtà essenziali per la presente struttura e messaggio del Prologo. Gli accenni al coinvolgimento del Verbo negli eventi della storia che troviamo nei vv. 3c-5 continuano con l'entrata nella storia (egeneto) di una figura storica dal nome appropriato di «Giovanni». Giovanni non era un uomo qualsiasi, poiché egli era mandato da Dio (v. 6). Questa affermazione è importante, poiché di nessun altro nel racconto giovanneo all'infuori di Gesù è detto che è stato mandato da Dio. Giovanni faceva parte di un piano divino: egli è venuto a dare testimonianza alla luce, perché altri potessero essere indotti a credere per mezzo della presenza vivificante della luce. Il tema del Verbo come luce riprende dai vv. 4b-5. Giovanni non era la luce; il suo ruolo era quello di rendere testimonianza alla luce. Non deve esserci confusione. Giovanni Battista era una grande figura, ma non era lui la luce. La sua comparsa nei vv. 6-8 apre tuttavia la seconda parte del Prologo (vv. 6-14) con una descrizione del Verbo come luce, colui per mezzo del quale l'uomo può giungere alla fede che dà la vita. Il Prologo ora è saldamente ancorato nella storia e, come i vv. 1-5, la sua seconda parte (vv. 6-14) si apre con una descrizione del Verbo e con una accurata separazione del ruolo del Battista dal ruolo del Verbo.
v. 9 – «la luce vera», in gr to phós to alèthinon: La sola e l'unica autentica luce che dà la luce vera ad ogni uomo «sta venendo nel mondo». Gli accenni all'incarnazione già presenti nei vv. 3c-4 adesso vengono esposti apertamente. Il riferimento alla venuta del Verbo nel mondo non può essere rinviato fino al v. 14. Era già stato accennato nella prima parte del Prologo (vv. 1-5) ed è ripetuto nel v. 9. Il Verbo era nel mondo che deve la propria esistenza a lui (v. 10b; cf v. 3ab) ma il mondo non lo ha riconosciuto. Da questa affermazione generica l'autore passa a una più specifica individuazione del luogo e della gente che non l'hanno accolto.
v. 11 - «venne fra la sua gente ma i suoi non l'hanno accolto»: Lett. venne nella propria casa (eis ta idia) e fra la sua gente (hoi idioi). I documenti gnostici parlano del luogo agognato dall'anima, la sua vera dimora, definendolo ta idia (cf. Odi Sal. 7,12; 26,1; Liturgia Mandea 114,4-5). Questo linguaggio poteva essere ben noto a molti dei primi lettori del Quarto Evangelo, ma il suo significato è stato radicalmente trasformato. Per il Quarto Vangelo ta idia non è un qualche luogo celeste di esistenza ideale come pensavano gli gnostici. Il Verbo si è calato in una storia umana per essere respinto dalla sua stessa gente. Alcuni in Israele non hanno accolto (ou parélabon) il Verbo. Compare ancora una forma del verbo lambanein per descrivere il primo momento della risposta dell'umanità. A differenza del v. 5 dove questo messaggio di una risposta negativa si trova per la prima volta, la risposta negativa da parte di quelli ai quali il Verbo si è presentato (v. 11) è controbilanciata dalla descrizione della risposta positiva da parte di altri e dei risultati di tale risposta (vv. 12-13).
v. 12 - «quanti lo hanno accolto… quelli che credono nel suo nome… il potere di diventare figli di Dio»: I verbi «accogliere» (lambanein) e «credere» (pisteuein) sono messi in parallelo: «A quelli che lo hanno accolto» (hosoi de elabon autori) «a quelli che credono nel suo nome» (tois pisteuousin eis to onoma autou). Accogliere il Verbo significa credere nel suo nome. Nel v. 5 e nel v. 11 il rifiuto del Verbo era stato descritto con la forma negativa del verbo «accogliere». Esiste un modo giusto e un modo sbagliato di «accogliere» il Verbo. Il modo giusto di «accoglierlo» è di «credere» nel suo nome. Per quanto riguarda il Prologo stesso, il Verbo non ha ancora un nome, nessun ruolo nella storia umana. Ciò nonostante, i risultati della credenza nel nome del Verbo sono descritti con un tempo al passato: ha dato loro (aoristo: edóken autois) il potere di diventare figli di Dio. Il potere conferito non è una promessa ma un fatto compiuto per quanti lo accolgono e credono nel suo nome. È stata abbozzata per la prima volta una visione giovannea della vita e della vita eterna: non è necessario aspettare fino alla fine dei tempi per diventare figli di Dio. La scelta dell'aoristo infinito «diventare» (genesthai) indica che la fede giovannea e la cosiddetta «escatologia realizzata» richiedono un impegno continuativo. In una escatologia tradizionale il credente aspetta la risurrezione e la fine dei tempi per avere il dono finale della vita e della vita eterna. Nel Quarto Evangelo questi doni sono dati in anticipo. Sono a disposizione del credente adesso, e pertanto sono «realizzati». Si diventa figli di Dio attraverso un processo di crescita, e tuttavia tale figliolanza non può essere spiegata con l'esperienza o con la comprensione umana perché non è il risultato di un'iniziativa umana (v. 13).
v. 13 - « i quali, non da sangue né da volere di carne né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati»: Gli antichi vedevano nella generazione di un bambino il risultato della coagulazione meccanica del sangue della donna che si mescolava con il seme maschile. Ma i figli di Dio non nascono «dal sangue». I figli vengono inoltre generati per effetto della concupiscenza umana, ma i figli di Dio non nascono «dalla carne». Ci sono momenti in cui i genitori decidono che vogliono avere un bambino e si comportano di conseguenza, ma i figli di Dio non nascono «dal volere di uomo». I figli di Dio sono generati da Dio (ek theou egennèthesan).
v. 14 - «E il Verbo si è fatto carne ed è venuto ad abitare in mezzo a noi…»: L'indicazione che il Verbo veniva nel mondo si trova già nei vv. 3c-4 e nel v. 9. Il fatto della venuta nel mondo è già stato assodato. Questo adesso viene ribadito (v. 14a), ma l'idea centrale del v. 14 è quella di descrivere colui nel cui nome si deve credere: l'unico Figlio del Padre (v. 14bcd). Come il Battista è entrato nella storia umana (cf v. 6: egeneto anthrópos) così anche il Verbo entra nella storia umana (sarx egeneto). Il Verbo preesistente, così intimamente associato a Dio (vv. 1-2), ora incarnato, può essere la comunicazione e la rivelazione di Dio nella situazione umana, nella quale adesso egli abita (v 14b). Questa seconda affermazione, che il Verbo è venuto ad abitare in mezzo a noi, fa entrare nell'inno il mondo del lettore. Il verbo scelto per parlare dell'abitare del Verbo in mezzo a noi (eskēnōsen) può significare «abitare» oppure «vivere» e può essere legato all'abitare della Sapienza in Israele descritta in Sir 24,8: «il mio Creatore scelse il posto per la mia tenda e mi disse: "Fissa la tua dimora (kataskènóson) in Giacobbe, e prendi la tua eredità in Israele"» (cf anche 24,10). Il verbo greco skenein può anche essere legato al verbo ebraico shàkan usato per l'abitazione di YHWH in Israele (Es 25,8; 29,46; Zc 2,14) e radice di un'importante parola nel giudaismo rabbinico per parlare della presenza della gloria (kàbód) di YHWH sopra il tabernacolo (cf Es 25,8; 40,35). Il suo abitare «in mezzo a noi» guarda all'esperienza di una comunità credente che può ulteriormente vantarsi di avere contemplato la sua gloria (ten doxan autou). Durante l'esistenza storica del Verbo i credenti rappresentati dall'autore dell'Evangelo hanno visto la doxa. L'Antico Testamento ha parlato spesso della manifestazione di YHWH visibile al popolo usando la parola ebraica kàbód che i LXX hanno reso con doxa (cf. ad esempio, Es 33,22; Dt 5,21; 1 Re 8,11; Is 10,1; Ab 2,14). Vista l'intimità del rapporto esistente tra il Verbo e Dio da prima del tempo (cf vv. 1-2), l'autore può dichiarare che contemplare l'incarnazione del Verbo equivale al vedere la rivelazione del divino nella storia umana.
vv. 15-18: La storia entra di nuovo nell'inno con il Battista che pronuncia le sue prime parole di testimonianza. La prima descrizione del Verbo (vv. 1-2) è ripresa in forma di discorso diretto quando il Battista proclama che colui che viene (erchomenos: participio presente: «il veniente») segue Giovanni in termini di sequenza temporale degli eventi. Tuttavia, in termini del suo posto nel piano di Dio egli esisteva (gegonen: perfetto di ginomai) prima di lui. Usando di nuovo l'imperfetto del verbo «essere» del v. 1, Giovanni spiega come ciò possa essere: «perché era prima di me (hoti prō̂tos mou èn)».
v. 16 - «grazia su grazia»: Per il Quarto Vangelo i credenti ricevono da questa pienezza nel contesto dell'esistenza umana un dono che perfeziona, e quindi porta a termine, un dono precedente. Tradizionalmente il termine greco charis è stato tradotto con «grazia», e i critici sono stati perplessi circa il significato della preposizione che unisce i due diversi usi del termine nell'espressione chárin antì cháritos è difficile capire, se si prende l'espressione nel senso teologico cristiano, come una «grazia» possa essere contrapposta a un'altra «grazia», ma possono invece esserci due «doni» dei quali uno perfeziona l'altro. Questi due doni, e il loro rapporto, sono immediatamente spiegati dal v. 17.
Nella storia umana ci sono stati due speciali doni di Dio. In primo luogo Dio ha dato la Legge per mezzo di Mosè (dià Mōÿséōs edóthē). Adesso invece abbiamo un altro dono, già accennato nel v. 14 («la pienezza del dono che è la verità») e nel v. 16 («un dono al posto di un dono»): il dono che è la verità (v. 17b: hē cháris kaì hē alḗtheia). I due sostantivi del v. 14 compaiono di nuovo, questa volta con un articolo definitivo, ancora uniti da un kai esplicativo.
Il dono che è la verità sorpassa e perfeziona il precedente dono dato per mezzo di Mosè (cf v. 17a) ed è stato dato («ha avuto luogo»: egeneto) per mezzo di Gesù Cristo (dià Iēsoû Christoû). Questa non è una valutazione negativa del precedente dono; è una visione cristiana che rispetta il dono di Dio dato per mezzo di Mosé, ma insiste che il dono precedente adesso è perfezionato o tramutato nel dono della verità che si è realizzato nell'evento e grazie all'evento di Gesù Cristo.
Conclusione di 1,1-18. Il Prologo del Quarto Evangelo è uno dei passi più noti del Nuovo Testamento. Il simbolo giovanneo dell'aquila trae origine da questo. Ancora più importante, il Prologo esprime i principali principi cristologici del cristianesimo: il Verbo esisteva con Dio prima della creazione; la creazione è stata fatta per mezzo del Verbo; per i credenti è possibile l'affiliazione divina; Gesù Cristo è l'incarnazione di Dio, il Verbo diventato carne; il Verbo condivide la divinità con Dio pur essendosi addossato pienamente la condizione umana; Gesù è l'unica e irripetibile rivelazione di Dio nella storia umana; il perfezionamento del precedente dono di Dio della Legge di Mosè si realizza in Gesù Cristo e per mezzo di Gesù Cristo. Nonostante il marcato accento cristologico che ha contraddistinto l'uso del Prologo nel corso dei secoli, al centro di questo passo si trova una teologia. Ciò che il Prologo dice riguardo a Gesù dipende interamente da ciò che l'autore vuole dire riguardo alla rivelazione di Dio in e per mezzo di Gesù Cristo.
II Colletta
Padre di eterna gloria,
che nel tuo unico Figlio ci hai scelti
e amati prima della creazione del mondo
e in lui, sapienza incarnata,
sei venuto a piantare in mezzo a noi la tua tenda,
illuminaci con il tuo Spirito,
perché accogliendo il mistero del tuo amore,
pregustiamo la gioia che ci attende,
come figli ed eredi del regno.
Per il nostro Signore Gesù Cristo
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