Il diaconato in Italia n° 202
(gennaio/febbraio 2017)
FOCUS
Ascoltare e accogliere la Parola
di Giovanni Chifari
Ascoltare ed accogliere, un tutt'uno nella Scrittura, appaiono due realtà oggi profondamente in crisi. Una deriva forse più evidente sul piano antropologico, sociologico ed etico, che nasce probabilmente da un problema di fede, dunque spirituale, da una reiterata e progressiva tendenza che non consente allo Spirito di agire e partecipare alla trasformazione della vita degli uomini, delle chiese e dei popoli. Itinerario di graduale desertificazione delle coscienze che, illuse dai miraggi del benessere materiale, sono divenute attente e sensibili al fascino delle mode e dei successi, anche pastorali, ma anestetizzate al richiamo dell'Evangelo. Una Parola non attesa e non desiderata è ancora spada che giunge fino alle profondità dell'animo?
La Costituzione dogmatica Dei Verbum così apriva il suo proemio il 18 novembre del 1965: «In religioso ascolto della parola di Dio» (DV 1). Eredità spirituale, forse disattesa, che può aiutarci a interpretare alcune domande dell'oggi. La questione del diaconato femminile, per esempio, viene dalla Parola e dallo Spirito o da altro? È questa la priorità ecclesiologica o, come ricordava Dossetti a Martini, la questione del diaconato può rappresentare «il punto terminale della inserzione dei carismi sacramentali nel tessuto concreto della comunità cristiana»? Un diaconato dunque "molto largo", "irraggiato", "decentrato", possibilità di una "localizzazione della grazia sacramentale"?
Interrogativi che richiedono studio e preghiera, e che qui dunque possono essere solo abbozzati. Intanto c'è da capire verso dove va il rapporto tra ascolto e accoglienza, silenzio e parola.
L'ascolto ha ceduto il passo alla visione, e le sensazioni di tipo tattile hanno sostituito l'educazione alle percezioni interiori. In questo modo si è ristretto, se non del tutto saturato, lo spazio di ascolto e accoglienza della Parola, venendo meno un discernimento sereno degli eventi della storia. Un disorientamento evidente nelle drammatiche vicende di migranti, rifugiati, esuli, o semplicemente emigranti che interpellano Europa e America.
In questo clima, i nostri giovani, nativo digitali e poi rapidamente generazione di adolescenti iperconnessi, si trovano dinanzi a molteplici possibilità di comunicazione ma minori opportunità di relazione. Spesso assorti dinanzi a quell'irresistibile interlocutore rappresentato dallo schermo dei loro smartphone, sembrano ripresentare, anche sul piano della gestione del proprio corpo, l'atto paradigmatico del narcisismo. La distanza fra gli occhi e lo smartphone disegna, infatti, una curva parabolica che rivolge o ritorce la persona su se stessa. Similmente accade con i più adulti. È triste osservare genitori che aspettano l'uscita da scuola dei propri figli, tutti assorti da ipnosi da cellulare, e quasi certamente non sull'app di I-breviary o Bibbia Cei 2008. Sta di fatto che una volta riflettere, quando era ancora una libera operazione intellettuale, significava "flettersi" due volte, e richiamava il dinamismo interiore della nostra coscienza.
Oggi, indebolendosi ogni dimensione simbolico rappresentativa, visto che per esempio anche la musica si "vede", essendo accompagnata da un video che ti suggerisce cosa devi pensare quando senti una canzone, la riflessione si risolve in una ricerca di tecniche per un rinnovato e ricercato protagonismo del soggetto. Una passeggiata sui social come Facebook o Twitter è utile per verificare come ognuno, anche tanti uomini di chiesa, sia divenuto buon venditore di se stesso e del proprio prodotto. Non intendo qui demonizzare, ma dire che forse si può fare un uso più coerentemente cristiano di questi preziosi strumenti.
Con la debacle dell'ascolto, anche la stessa parola umana è divenuta debole, inflazionata e non in grado di creare relazione. E se si dice la parola la si dice per se stessi. La recente "sbornia" social natalizia e di fine anno, nella quale siamo stati invasi da messaggi di auguri di ogni genere, ci ha segnalato una nuova deriva. Se, infatti, in passato il messaggio, anche se banale e ripetitivo, veniva scritto, adesso non si scrive più. Giungono direttamente solo le immagini o immagini con parole. Questo significa che accogliere la Parola nell'immaginario collettivo e nella formazione dei nostri giovani può apparire come un'azione priva di novità, di meraviglia e di stupore. Per molti significherà accogliere il nulla, l'evanescente, il provvisorio, il liquido.
Quest'analisi, sempre provvisoria, può essere utile per accennare brevemente, e in una prospettiva pedagogico educativa, al tema del servizio della diaconia ministeriale come luogo di mediazione sacramentale della Parola. L'esegesi colta e più raffinata ha già svelato che diaconia non significa solo servire ma anche annunciare la Parola. Compito ecclesiale ma anche singolare possibilità di apporto del diacono, chiamato a saper declinare Silenzio, Ascolto e Parola.
Non c'è vera accoglienza senza ascolto e non può esserci ascolto senza quella disponibilità interiore ad accogliere la parola dell'altro. Solo così, da questo silenzio e in queto silenzio, può giungere, come pioggia sulla terra arida, la Parola. Ma quando la Parola di Dio diviene rara (1Sam 3,1) e la profezia rimane in silenzio si eleva ancora il grido del credente (Sal 28,1)? Deficit di Parola che nel sacerdote Eli si manifesta nel fallimento educativo e nell'impossibilità di correggere i propri figli (1Sam 3,13), tuttavia Parola che nel Verbo è stata largamente e abbondantemente data, portando frutto in chi l'ascolta e l'accoglie, aprendosi alla conversione (Mc 4,20).
Percorsi di educazione e correzione che nel libro dei Proverbi il padre/maestro offre come possibilità di ricerca della Sapienza al figlio/discepolo (Pr 1-9), lasciando risuonare più volte l'invito: «Ascolta», e poi «Se tu accoglierai le mie parole». Nel tempo dell'evaporazione del padre, così direbbe Massimo Recalcati, c'è bisogno di chi interpreti la figura paterna come testimonianza di autenticità e credibilità, seppur intrisa di debolezza, come l'Apostolo stesso confessa (1Cor).
Accogliere e ascoltare la Parola e quindi accogliere e farsi prossimo dell'altro, per i diaconi, specialmente per gli aspiranti, significherà confrontarsi ad intra con una non facile prova educativa: «Siano capaci di guidare bene i figli e le proprie famiglie» (2Tm 3,12). Operazione possibile non a professionisti del servizio ma ad ascoltatori, ricettori e custodi della Parola (Gv 6,60; Gv 15,7; Mt 10,40). Senza dimenticare che non c'è un salto dalla Parola al servizio, ma è la Parola che si fa eucarestia a divenire diaconia.
La Costituzione dogmatica Dei Verbum così apriva il suo proemio il 18 novembre del 1965: «In religioso ascolto della parola di Dio» (DV 1). Eredità spirituale, forse disattesa, che può aiutarci a interpretare alcune domande dell'oggi. La questione del diaconato femminile, per esempio, viene dalla Parola e dallo Spirito o da altro? È questa la priorità ecclesiologica o, come ricordava Dossetti a Martini, la questione del diaconato può rappresentare «il punto terminale della inserzione dei carismi sacramentali nel tessuto concreto della comunità cristiana»? Un diaconato dunque "molto largo", "irraggiato", "decentrato", possibilità di una "localizzazione della grazia sacramentale"?
Interrogativi che richiedono studio e preghiera, e che qui dunque possono essere solo abbozzati. Intanto c'è da capire verso dove va il rapporto tra ascolto e accoglienza, silenzio e parola.
L'ascolto ha ceduto il passo alla visione, e le sensazioni di tipo tattile hanno sostituito l'educazione alle percezioni interiori. In questo modo si è ristretto, se non del tutto saturato, lo spazio di ascolto e accoglienza della Parola, venendo meno un discernimento sereno degli eventi della storia. Un disorientamento evidente nelle drammatiche vicende di migranti, rifugiati, esuli, o semplicemente emigranti che interpellano Europa e America.
In questo clima, i nostri giovani, nativo digitali e poi rapidamente generazione di adolescenti iperconnessi, si trovano dinanzi a molteplici possibilità di comunicazione ma minori opportunità di relazione. Spesso assorti dinanzi a quell'irresistibile interlocutore rappresentato dallo schermo dei loro smartphone, sembrano ripresentare, anche sul piano della gestione del proprio corpo, l'atto paradigmatico del narcisismo. La distanza fra gli occhi e lo smartphone disegna, infatti, una curva parabolica che rivolge o ritorce la persona su se stessa. Similmente accade con i più adulti. È triste osservare genitori che aspettano l'uscita da scuola dei propri figli, tutti assorti da ipnosi da cellulare, e quasi certamente non sull'app di I-breviary o Bibbia Cei 2008. Sta di fatto che una volta riflettere, quando era ancora una libera operazione intellettuale, significava "flettersi" due volte, e richiamava il dinamismo interiore della nostra coscienza.
Oggi, indebolendosi ogni dimensione simbolico rappresentativa, visto che per esempio anche la musica si "vede", essendo accompagnata da un video che ti suggerisce cosa devi pensare quando senti una canzone, la riflessione si risolve in una ricerca di tecniche per un rinnovato e ricercato protagonismo del soggetto. Una passeggiata sui social come Facebook o Twitter è utile per verificare come ognuno, anche tanti uomini di chiesa, sia divenuto buon venditore di se stesso e del proprio prodotto. Non intendo qui demonizzare, ma dire che forse si può fare un uso più coerentemente cristiano di questi preziosi strumenti.
Con la debacle dell'ascolto, anche la stessa parola umana è divenuta debole, inflazionata e non in grado di creare relazione. E se si dice la parola la si dice per se stessi. La recente "sbornia" social natalizia e di fine anno, nella quale siamo stati invasi da messaggi di auguri di ogni genere, ci ha segnalato una nuova deriva. Se, infatti, in passato il messaggio, anche se banale e ripetitivo, veniva scritto, adesso non si scrive più. Giungono direttamente solo le immagini o immagini con parole. Questo significa che accogliere la Parola nell'immaginario collettivo e nella formazione dei nostri giovani può apparire come un'azione priva di novità, di meraviglia e di stupore. Per molti significherà accogliere il nulla, l'evanescente, il provvisorio, il liquido.
Quest'analisi, sempre provvisoria, può essere utile per accennare brevemente, e in una prospettiva pedagogico educativa, al tema del servizio della diaconia ministeriale come luogo di mediazione sacramentale della Parola. L'esegesi colta e più raffinata ha già svelato che diaconia non significa solo servire ma anche annunciare la Parola. Compito ecclesiale ma anche singolare possibilità di apporto del diacono, chiamato a saper declinare Silenzio, Ascolto e Parola.
Non c'è vera accoglienza senza ascolto e non può esserci ascolto senza quella disponibilità interiore ad accogliere la parola dell'altro. Solo così, da questo silenzio e in queto silenzio, può giungere, come pioggia sulla terra arida, la Parola. Ma quando la Parola di Dio diviene rara (1Sam 3,1) e la profezia rimane in silenzio si eleva ancora il grido del credente (Sal 28,1)? Deficit di Parola che nel sacerdote Eli si manifesta nel fallimento educativo e nell'impossibilità di correggere i propri figli (1Sam 3,13), tuttavia Parola che nel Verbo è stata largamente e abbondantemente data, portando frutto in chi l'ascolta e l'accoglie, aprendosi alla conversione (Mc 4,20).
Percorsi di educazione e correzione che nel libro dei Proverbi il padre/maestro offre come possibilità di ricerca della Sapienza al figlio/discepolo (Pr 1-9), lasciando risuonare più volte l'invito: «Ascolta», e poi «Se tu accoglierai le mie parole». Nel tempo dell'evaporazione del padre, così direbbe Massimo Recalcati, c'è bisogno di chi interpreti la figura paterna come testimonianza di autenticità e credibilità, seppur intrisa di debolezza, come l'Apostolo stesso confessa (1Cor).
Accogliere e ascoltare la Parola e quindi accogliere e farsi prossimo dell'altro, per i diaconi, specialmente per gli aspiranti, significherà confrontarsi ad intra con una non facile prova educativa: «Siano capaci di guidare bene i figli e le proprie famiglie» (2Tm 3,12). Operazione possibile non a professionisti del servizio ma ad ascoltatori, ricettori e custodi della Parola (Gv 6,60; Gv 15,7; Mt 10,40). Senza dimenticare che non c'è un salto dalla Parola al servizio, ma è la Parola che si fa eucarestia a divenire diaconia.
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