XV Domenica del Tempo ordinario (A)

La Parola
Commento di Cettina Militello
Vita Pastorale (n. 5/2017)



ANNO A – 16 luglio 2017
XV Domenica del Tempo ordinario

Is 55,10-11
Rm 8,18-23
Mt 13,1-23
(Visualizza i brani delle Letture)


ASCOLTARE
LA PARLA CHE SALVA

«Colui che ascolta la Parola e la comprende; questi dà frutto...». Siamo chiamati quest'oggi a confrontarci con la parola di Dio, a comprenderne la ricchezza e l'efficacia, a misurarci con essa. Questa sfida è veicolata dalla lettura veterotestamentaria e dalla lettura evangelica. La lettera ai Romani, sempre al capitolo 8, ci mette dinanzi a quanto lì si proclama, senza tematizzare la dinamica della Parola come tale.

Il testo di Isaia testimonia l'efficacia della Parola. Dio stesso parla e si avvale dalla metafora della pioggia e della neve. Pur in un contesto prescientifico Israele conosce la dinamica della pioggia e della neve, il loro discendere sul terreno per irrigarlo, così poi da evaporare ritornando al luogo da cui sono partite. Proprio il fecondare il terreno, il metterlo nelle condizioni di far germogliare il seme, così da offrire a un tempo cibo e sementi, è assimilato alla parola di Dio che non ritorna a lui senza aver prodotto ciò per cui egli l'ha inviata. La Parola, infatti, è efficace. Lo è già antropologicamente. Nessun nostro dire è neutro. Raggiunge sempre l'interlocutore e suscita in lui una risposta.
In senso stretto non ci sono parole oziose. Possono essercene invece di dannose. La parola di Dio, nella dinamica comunicativa che le è propria, a maggior ragione è efficace. Is 55 si colloca nel contesto dell'invito finale. Dopo la visione della nuova Gerusalemme (Is 54), a prevalere è l'esortazione: venite, ascoltatemi. Il tutto nel contesto di un'alleanza eterna. In un crescendo che puntualizza ciò che è proprio degli esseri umani e ciò che è proprio di Dio, stanno i versetti oggi proclamati: la parola di Dio non tornerà a lui senza aver operato ciò che lui desidera, senza aver compiuto ciò per cui l'ha mandata.

Il testo vibrante di Rm 8,18-23 in tanto si approssima all'oracolo di Isaia in quanto chiama in causa la creazione, la stessa in cui operano pioggia e neve. In un contesto antropologicamente segnato dalla novità dello Spirito, anche la creazione appare protesa verso la sua "liberazione". Ed ecco un unico gemito parte dalla creazione e dai credenti stessi che pure possiedono le primizie dello Spirito. Paolo parla di "doglie", espressione efficacissima. L'universo è in divenire. E, metafora o no, indubitabilmente emerge il suo limite, lo stesso vissuto dai credenti nell'attesa della definitiva loro redenzione.

Dal vangelo di Matteo, dal "discorso in parabole" che si estende a tutto il capitolo 13, ascoltiamo la parabola del seminatore. Vale la pena leggerla nella sua forma lunga, tra l'altro perché la forma breve lascia spazio solo alla sua interpretazione. Gesù, lo sappiamo, ricorre spesso ed efficacemente alle parabole. Il loro genere letterario raggiunge immediatamente l'uditore, tanto più che il pretesto narrativo è tratto dal suo vivere d'ogni giorno. Le nostre tecniche avanzate hanno spazzato via la figura del seminatore. Esso non va più di buon mattino a spargere con gesto ampio il seme nel terreno, lottando con gli uccelli, e correndo il rischio di non orientare bene il seme che può dunque cadere in parti infruttuose. Non so se Gesù avrebbe oggi usato questa parabola, tanto preciso è il meccanismo dell'arare e seminare demandato alla macchina e non più all'agricoltore. Comunque sia, questa volta gli ascoltatori non capiscono, tant'è che gli stessi discepoli lo incalzano circa il suo parlare con parabole.
Il testo, sicuramente polemico, traccia una linea disgiuntiva tra coloro, i suoi, a cui è dato conoscere i misteri del Regno e gli altri, l'Israele incredulo, incapace di comprendere. Dinanzi alla resistenza opposta alle sue parole, Gesù rincara la dose e fa appello alla parola profetica, la stessa che sottolinea l'incapacità di udire e di vedere del popolo così sottratto alla conversione (cf Is 6,9-10). Ai suoi Gesù confida il compiersi dei tempi messianici e li dice beati di ciò che ascoltano e vedono, ben ricordando che altri, profeti e giusti, hanno desiderato di essere nella loro condizione. Ciò detto, passa alla spiegazione della parabola. Il seme è la parola di Dio. Non ascoltarla, non comprenderla equivale al seme sparso lungo la strada.

Analogamente e insieme diversamente, il seme gettato sul terreno sassoso fiorisce subito ma poi muore, indice di un ascolto non abbastanza coltivato così che la parola metta radici profonde. Analogamente la parola seminata tra i rovi è quella di chi, concentrato su altre cose, la lascia soffocare. Il terreno buono indica invece la condizione di chi veramente ascolta la Parola e la comprende. Costui dà frutto al trenta, al sessanta, al cento per cento. Se le parole di Isaia hanno sottolineato la potenza efficace della parola, la parabola ora ascoltata avverte circa la responsabilità di ciascuno verso la parola di Dio.
La ascoltiamo almeno ogni domenica; siamo invitati ad averla compagna sempre; la leggiamo nei gruppi di approfondimento e di preghiera. Eppure il nostro cuore può restare insensibile e sordo. Possiamo avere occhi e non vedere, avere orecchie e non sentire. La parola di Dio è il centro della nostra vita. Ignorarla, relativizzarla, disprezzarla mette in forse la nostra salvezza, ci esclude dalla gioia del Regno, da quella intimità e comunione propria dei discepoli. Capire con la mente e con il cuore che senza di essa siamo sterili e stolti.


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