IV Domenica del Tempo ordinario (A)

La Parola
Commento di Cettina Militello
Vita Pastorale (n. 11/2016)



ANNO A – 29 gennaio 2017
IV Domenica del Tempo ordinario

Sof 2,3;3,12-13
1Cor 1,26-31
Mt 5,1-12a
(Visualizza i brani delle Letture)


GESÙ ANNUNCIA
LE ESIGENZE DEL REGNO

La profezia relativa a un "popolo umile e povero" costituisce oggi il tema unificante. Essa appartiene innanzitutto alla prima lettura tratta da Sofonia. Il profeta esorta nella prospettiva del giorno del Signore a cercarlo, a eseguirne gli ordini, a cercare la giustizia e l'umiltà. Al versetto 2,3, la liturgia affianca i versetti 12-13 del capitolo 3 in cui viene delineato il tratto costitutivo di questo popolo: non commetterà iniquità, non dirà menzogne, non userà un linguaggio fraudolento; potrà pascolare e riposare senza che alcuno lo molesti.
Il contesto politico religioso suggerisce al profeta, dopo una prima attenzione al "giorno del Signore", parole di promessa e di speranza. Biblicamente il "giorno del Signore" è quello del manifestarsi potente di Dio che sottopone a giudizio il suo popolo. Presente nei profeti è insieme giorno di ripartenza e di rinascita, esemplificato nel "resto d'Israele", ossia nel piccolo gruppo scampato alla catastrofe a ragione della sua fedeltà. L'appello è a farsi trovare, in quel giorno, in una condizione segnata dalla giustizia, dal consapevole riconoscimento del proprio limite. Per questo resto, per questo popolo umile e povero, che finalmente pone la sua fiducia nel Signore, la promessa di un futuro di pace. Sicuramente umiltà e povertà non sono aspettative ottimizzanti nella comune considerazione. Dicono una contrapposizione tra ciò che conta agli occhi di Dio e ciò che conta nel nostro giudizio.

In qualche modo questa polarità viene riproposta nel brano oggi proclamato dalla Prima lettera ai Corinzi, tratto dai versetti finali del capitolo primo. Paolo parte dalla condizione dei Corinzi che socialmente e umanamente non sono né sapienti, né potenti, né nobili. Ma appunto diverso è il criterio di Dio che ha scelto lo stolto per confondere i sapienti, il debole per confondere i forti... Il criterio posto in atto da Dio tende a far sì che nessuno possa vantarsi o accampare diritti davanti a lui. È così che un gruppo eterogeneo e umanamente non vincente è stato chiamato ad essere in Cristo Gesù, il quale, aggiunge Paolo, è diventato per noi sapienza, giustizia, santificazione e redenzione. Dunque un ribalta mento totale delle aspettative umane, un far spazio a un'attitudine di fiducia le abbandono alla grazia che il Padre ci ha elargito nel Figlio.
Queste letture ci preparano al brano evangelico. Matteo che stiamo leggendo, dopo il vangelo dell'infanzia, ci ha descritto il rapporto tra Gesù e Giovanni (la predicazione di quest'ultimo, il suo incontro con Gesù al Giordano, la teofania dopo il battesimo, le tentazioni messianiche, l'arresto di Giovanni e l'inizio della predicazione di Gesù, la chiamata dei primi discepoli). Entriamo ora nel vivo dell'azione di Gesù. L'evangelista ne ha già indicato il rapporto con le folle, chiudendo così il capitolo quarto. La nuova sezione, che va dal capitolo quinto al capitolo settimo costituisce un grande discorso, detto comunemente "Discorso della montagna". In verità si tratta di cinque scansioni che non sono sic et simpliciter riconducibili al genere "discorso" e che costituiscono la prima solenne e autorevole presentazione da parte di Gesù del suo messaggio.
Quali siano le fonti cui Matteo attinge, quale sia il rapporto con i testi similari di Luca, resta il problema dello spessore operativo del discorso di Gesù, se esso sia elitario e utopico o se, viceversa, indichi un percorso generale e obbligato per concretizzare i valori del Regno. Personalmente propendo per quest'ultima tesi. Farne un discorso utopico o elitario fa diventare opzionale quanto Gesù afferma. A me pare che non ci siano ragioni per minimizzarne la portata salvifica e insieme etico-sociale.
I versetti da 1 a 12a del capitolo quinto, la proclamazione delle beatitudini, propongono il parlare di Gesù secondo il genere letterario del "macarismo", ossia della proclamazione/riconoscimento di felicità/beatitudine relativo a soggetti e a situazioni umane. Nell'Antico Testamento i macarismi più frequenti sono d'indole liturgico-religiosa; ma ne troviamo anche di sapienziali diretti a insegnare ed esortare come pure di carattere escatologico e apocalittico. Le dichiarazioni di beatitudine fatte da Gesù sono precedute da un versetto redazionale che sottolinea il rapporto di Gesù con i discepoli e le folle che ormai lo seguono. Egli si propone come maestro autorevole che offre il suo insegnamento e con ciò disegna le esigenze del regno di Dio che egli annunzia.

I soggetti che egli dice "beati" - il macarismo prevede l'enunciazione della beatitudine, la descrizione del destinatario, il perché sia beato - sono tutti in condizioni di tipo liminare, se non propriamente emarginati o perseguitati. Proprio il perché della beatitudine, il più delle volte contrario alla condizione descritta, dice il paradosso, la novità che Gesù è venuto a inaugurare.
Diventano così segnaletica del regno di Dio, qui e ora, i poveri in spirito, quelli che piangono, i miti, quelli che hanno fame e sete di giustizia, i misericordiosi, i puri di cuore, gli operatori di pace, i perseguitati a ragione della giustizia. Cioè, l'insegnamento di Gesù ci interpella, a partire dal grande tema della "povertà umile" che sicuramente è attitudine filiale, riconoscimento della signoria di Dio, ma è pure condizione sociale di emarginazione e disprezzo da rimuovere alacremente, denunciandone le cause e ponendo in atto quelle azioni che possano sconfiggerle.


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