La diaconia segno profetico della misericordia


Il diaconato in Italia n° 197/198
(marzo/giugno 2016)

EDITORIALE


La diaconia segno profetico della misericordia
di Giuseppe Bellia

Il 29 maggio è stata una data davvero speciale per i diaconi, perché il papa ha desiderato incontrarli in occasione dell'anno giubilare e confermarli nel loro ministero. In questo numero presentiamo questo evento raccogliendo la testimonianza di papa Francesco e i lavori di preparazione dei diaconi che hanno condiviso con gioia questa forte esperienza comunitaria. Le parole che il papa ha consegnato ai diaconi per il loro pellegrinaggio a Roma nell'anno giubilare, risuonano con un timbro di parresia e di freschezza evangelica: «i diaconi sono volto della Chiesa nella vita quotidiana, di una comunità che vive e cammina in mezzo alla gente e dove non è grande chi comanda, ma chi serve». E ancora: «Chi serve, docile di cuore, è disponibile al non programmato: pronto per il fratello e aperto all'imprevisto, che non manca mai e spesso è la sorpresa quotidiana di Dio». Tuttavia come non riconoscere che il diaconato permanente in questi anni ha incontrato molte resistenze? Risuonano ancora le parole inequivocabili e accorate che papa Francesco, il 16 aprile del 2013, rivolse a tutta la chiesa. «Dopo cinquant'anni, abbiamo fatto tutto quello che ci ha detto lo Spirito Santo nel Concilio? No ... Non vogliamo cambiare. Di più: ci sono voci che vogliono andare indietro. Questo si chiama essere testardi, questo si chiama voler addomesticare lo Spirito Santo, questo si chiama diventare stolti e lenti di cuore».
La revisione del CCC (n. 1591) e la susseguente modifica nel 2009 dei canoni 1008-1009 non indicano forse un arretramento sostanziale rispetto al Vaticano II? La vicenda di una probabile apertura del diaconato alle donne, che come un'onda sussultoria ha per un po' agitato alcuni ambienti ecclesiali, ha lasciato nell'ombra la questione del ridimensionamento della natura sacramentale del terzo grado dell'ordine che ipotizza un diacono conformato a "Cristo servo" e non più a "Cristo capo". Anche la profezia ministeriale, come una moneta svalutata, è diventata una parola sorda e "inservibile". È divenuta una di quelle parole di facile consumo che le mode religiose e i luoghi comuni di una pastorale di maniera dispensano a piene mani. In questo modo la profezia sembra legata alla sagacia di argomentazioni teologiche inappuntabili o all'eccezionalità di eventi e personaggi fuori dal comune. Non si coglie l'aspetto storico, concreto e, soprattutto, relazionale della profezia biblica che i credenti e i cristiani sono chiamati a offrire al mondo come testimonianza. Ancor meno si coglie il segno profetico operato dall'azione congiunta della grazia e del ministero nel servizio ecclesiale e nella diaconia ordinata in specie. Per ricomprendere il legame che unisce il servizio sacramentale alla profezia, è necessario riprendere alcune linee teologiche e ricordare le figure profetiche di ministri ordinati. Si può iniziare costatando che nella storia della salvezza e nel suo annuncio, una funzione importante e inevitabile è svolta dall'esperienza oggettiva della risposta che l'uomo è sollecitato a dare all'incontro con Dio. È invitato a instaurare una relazionalità che all'ascolto replica con la fede, accogliendo la gratuita iniziativa divina. È un'opera dello Spirito che suscita sia la parola sia l'accoglienza ospitale. Giustamente si ricorda che Gesù fece breccia nel cuore di pietra di Zaccheo con un inatteso e perentorio autoinvito, subito accolto, e non con un ragionamento persuasivo e stringente.
Le parole profetiche, infatti, non sono da ricercare nelle espressioni ingegnose o nelle formule a effetto ma nella trasparenza della diurna ordinarietà, perché coincidono con le parole comuni della vita, con le parole che sgorgano dalla consapevole conoscenza che il credente sperimenta della misericordia divina. In quest'anno giubilare, viene allora spontaneo fare memoria dei ministri che nel nostro tempo sono stati testimoni e, quindi, profeti della concreta misericordia divina. Tornano in mente gli esempi e le parole di martiri come il vescovo Romero o come padre Puglisi. Un mirabile intreccio di misericordia sperimentata e di esigenza di povertà evangelica sembra collegare, come un filo rosso, la testimonianza di questi ministri al magistero di papa Francesco. Il Concilio aveva dotato la chiesa, a metà del secolo breve, di una rinnovata comprensione del misterioso e fecondo legame che unisce l'efficacia dell'evangelizzazione alla povertà materiale delle istituzioni ecclesiastiche, specialmente in terre di missione. La riproposizione del diaconato in forma permanente, come si è visto più volte, rientrava in questa rinnovata visione rigeneratrice dell'azione della grazia assecondata da una docile e sapiente imitazione di colui che per noi «da ricco si è fatto povero». Per il vescovo martire, che sull'altare unì il sacrificio della sua vita a quello di Cristo, quest'accordo tra povertà ed evangelizzazione era ben chiaro: «dire che "Dio è amore" significa che Dio vuole il bene dell'uomo. Il destinatario di questo amore è l'uomo in quanto povero e in quanto peccatore. Dio ama l'uomo nella sua povertà e dona all'uomo ciò di cui di volta in volta ha bisogno. Dio ama l'uomo in quanto peccatore, perduto, per restituirgli nel proprio spirito la capacità di compiere il bene.
Nella bibbia è importante tutto ciò che può far vivere l'uomo. Dio non cerca la propria gloria, o meglio la propria gloria è «che il povero viva». Parole profetiche conosciute e riproposte anche da don Milani, da Madre Teresa di Calcutta, da mons. Tonino Bello, da Pino Puglisi e altri ancora, che hanno illuminato intere generazioni e che, come si legge nell'enciclica Lumen fidei (14), hanno spinto le coscienza dei credenti ad «affidarsi a un amore misericordioso che sempre accoglie e perdona, che sostiene e orienta l'esistenza, che si mostra potente nella sua capacità di raddrizzare le storture della nostra storia». La povertà accolta come grazia dal mediatore è imprescindibile per incidere nelle vicende del proprio tempo, per avere quel discernimento storico, quella sensibilità antropologica e quella progettualità culturale che sono elementi caratterizzanti l'opera di evangelizzazione secondo lo Spirito e non soltanto un sussidio strumentale e accessorio per ottenere quello che il proprio cuore, in un senso o nell'altro, paventa o desidera. Non sono richieste particolari doti d'intelligenza e d'intraprendenza per riconoscere il volere di Dio ma peculiari e continui atti di fiducioso abbandono alla divina alla provvidenza. Era l'atteggiamento profetico vissuto in solitudine da don Tonino Bello, il vescovo che nel 1992 scriveva: «Oggi, dopo il lampo di Hiroshima, non è più possibile difendersi con la guerra». Il suo convincimento era che dopo l'esplosione del tragico fungo nucleare «era finita per sempre l'illusione della guerra "giusta". Nulla può più essere come prima. Ogni guerra è divenuta iniqua. La difesa armata, perciò, risponde a una logica preatomica che tutto può partorire fuorché pace e giustizia». Il vescovo non era un ingenuo idealista, aveva ben chiaro il legame della nonviolenza attiva con la bella testimonianza di Gesù.
La forza di questa scelta è accompagnata dalla consapevolezza della propria inadeguatezza e debolezza, nel pieno solco della più solida esperienza profetica. È ciò che sperimenta Tonino Bello, il15 dicembre del 1992, quando di ritorno dal suo viaggio di pace insieme a molti giovani e uomini di buona volontà nella martoriata Sarajevo, scrive: «Poi rimango solo, e sento per la prima volta una gran voglia di piangere. Tenerezza, rimorso o percezione del poco che si è potuto seminare o della lunga strada che rimane da compiere? Attecchirà davvero la semente della nonviolenza? Sarà davvero questa la strategia di domani?». Papa Francesco, in molti modi, insiste nel far comprendere che il riconoscimento dell'amore misericordioso di Dio costituisce il cuore stesso dell'atto di fede. Senza questa conversione del cuore di pietra in cuore di carne, ogni impegno e servizio di ordine kerygmatico, liturgico, catechetico e caritativo e la stessa missione evangelizzatrice non produrranno quella necessaria trasfigurazione di cui ha bisogno la chiesa per essere più credibile e "leggera". Per inoltrarsi in questo cammino «serve una Chiesa capace di riscoprire le viscere materne della misericordia. Senza la misericordia c'è poco da fare oggi per inserirsi in un mondo di "feriti", che hanno bisogno di comprensione, di perdono, di amore» (Discorso all'Episcopato brasiliano, 27 luglio 2013). I diaconi, amici e servi dei poveri, sanno e sperimentano, ricordava il cardinale Stella, che aprirsi alla Misericordia dona gioia a Dio. E invitava i diaconi ad acquisire un diverso modo di pensare e di servire: «Lo abbiamo mai pensato, quando preghiamo, quando ci comunichiamo, quando riceviamo il perdono del Signore, che gli doniamo la gioia?».


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