«Tutti i credenti stavano insieme»



Il diaconato in Italia n° 192
(maggio/giugno 2015)

TESTIMIONIANZE


«Tutti i credenti stavano insieme»
di Dario Gellera

Mi è difficile parlare dell'esperienza di vita comunitaria che insieme con la famiglia vivo ormai da 19 anni senza partire da uno dei riassunti che descrivono le prime comunità cristiane. Negli anni ho letto e sentito commenti di teologi, presbiteri, vescovi, fedeli laici e laici non fedeli intorno a quei pochi versetti e ciò che mi ha sempre stupito, profondamente stupito purtroppo in senso negativo, è il tentativo da parte di molti di evitare di commentare, o al più commentarlo come qualcosa di utopico, proprio il versetto che dà il titolo a questa pagina: «Avevano ogni cosa in comune». Non mi è chiaro il motivo reale di questa dimenticanza, ma mi sono chiari, molto chiari, gli effetti: vedo comunità cristiane che pregano insieme, talvolta seguono gli insegnamenti dei successori degli apostoli, mangiano insieme ma custodiscono gelosamente ognuno le proprie cose, i propri beni. Un bellissimo dipinto, un'opera d'arte incredibilmente bella squarciata e sfregiata.
Invece il motivo che mi ha spinto a provare a vivere l'esperienza di vita comunitaria con altre famiglie è stato proprio l'invito a mettere ogni cosa in comune. E questo invito trova oggi concretezza nella cassa comune, nel non possesso di molti beni, nel decidere insieme l'utilizzo di parte delle risorse economiche. Tutte le entrate cadono in un'unica cassa comune, un unico conto in banca comune a tutte le famiglie e da lì escono per ciascuna famiglia che decide come utilizzare la sua parte, secondo i propri bisogni, diversi da famiglia a famiglia.
Ma per far funzionare questo meccanismo, per non ricadere nella logica del "questo è mio", per tentare, sottolineo tentare, di vivere il più sobriamente possibile è importante imparare a mangiare insieme, pregare insieme, creare relazioni profonde. Chi legge non si impressioni: noi non facciamo tutto insieme, ci mancherebbe. Ma curiamo, con le nostre capacità e i nostri limiti, le relazioni dentro e fuori della comunità familiare. Cerchiamo ogni giorno di essere inseriti nella rete di relazioni sociali, amicali, ecclesiali del paese in cui viviamo. In mezzo agli altri, credenti e non, con la nostra specificità.
Ed uno dei frutti del mettere in comune i beni è l'apertura verso chi ha bisogno. In particolare minori ma non solo. Nel corso di questi primi 19 anni sono state diverse le persone che sono entrate nelle nostre case perché ne avevano bisogno; chi per poche ore, chi per anni, chi è ancora qui con noi. Un altro frutto del mettere in comune i beni è la collaborazione nata ormai oltre 10 anni fa con la Cooperativa Sociale Comin che si occupa di minori e famiglie, che ha dato vita alla "Girandola", un luogo di vita a cui abbiamo dato questo nome, che vede affacciarsi sullo stesso cortile la comunità familiare (a cui abbiamo dato il nome di Sguardi), una comunità educativa con minori ed educatori, appartamenti per l'accoglienza di persone che vivono bisogni abitativi. Abbiamo tentato di mettere insieme professionalità e familiarità.
Un altro frutto del mettere in comune i beni è che nessuno di noi è povero! Se ci confrontiamo con i dati Istat ogni famiglia della comunità familiare vive a ridosso della soglia di povertà, ma a nessuno di noi manca il necessario, neanche in quei periodi in cui a qualcuno è mancato il lavoro: tutti un po' meno ma per tutti il minimo.
Un altro frutto del mettere in comune i beni è l'educazione dei figli: c'è chi apprezza e chi critica questo nostro stile di vita (credo sia normale qualunque sia la scelta genitoriale) ma a nessun figlio abbiamo dovuto "spiegare" che ci sono persone fragili che hanno bisogno del nostro aiuto perché ogni figlio ha "vissuto" la relazione con loro; talvolta difficile, talvolta serena, sempre formativa! Mi sento e ci sentiamo persone assolutamente normali che non fanno niente di speciale. Proprio per questo spero e prego che ci siano sempre più credenti che inventino strade per mettere in comune le risorse. Solo perché così si vive meglio e i frutti sono abbondanti!

(D. Gellera è diacono della dioc. di Milano)



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