La prima lettura è tratta dal libro dell'Esodo e contiene i dieci comandamenti. Si osserva subito il tono dialogico del brano, non si tratta di regole da imparare, ma i comandamenti si fondano su una relazione: io sono il Signore tuo Dio. Non un rapporto teorico, ma concreto perché riconoscibile in vicende precise, riassunte in quella fondamentale dell'uscita dall'Egitto. L'altro aspetto che Dio manifesta è quello della gelosia, geloso perché ha salvato il suo popolo, solo lui lo ha salvato. L'evocazione della punizione che si allarga alle generazioni, in caso di negazione della relazione con Dio, ha, al di là della formulazione minacciosa, l'effetto di aprire al futuro. La relazione con Dio non ha riguardato solo il popolo nel deserto, ma riguarda tutte le generazioni future che la dovranno vivere con impegno. I dieci comandamenti sono una strada per rendere stabile per sempre l'esperienza della liberazione. L'inizio del decalogo contiene i doveri verso Dio, la fine quelli verso il prossimo; l'alleanza non si vive in forme intimistiche, ma si allarga alle relazioni all'interno del popolo. Tutto si giustifica per una relazione che esiste e tutto ha senso per dare futuro a questa relazione. VITA PASTORALE N. 2/2015
III Domenica di Quaresima
Es 20,1-17
1Cor 1,22-25
Gv 2,12-25
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È IL CUORE DELL'UOMO
È una verità molto semplice quella che offre questa pagina, dove le regole non hanno altro significato che rendere vera una relazione, e il loro rispetto manifesta che ci si fida di chi le stabilisce non solo perché ha il diritto di farlo, ma perché ha liberato, ha salvato. Osservare per ricordare è importante, ma presto o tardi i ricordi sbiadiscono; questa pagina dell'Esodo suggerisce che osservare i comandamenti è speranza di futuro, ricerca di come per ogni generazione la Parola che dice che Dio è colui che fa uscire dall'Egitto, non abbia solo un significato archeologico. Di conseguenza nemmeno i comandamenti lo avranno.
San Paolo mette in primo piano la croce e la chiama sapienza, si rende perfettamente conto che la croce non è sapiente né dal punto di vista della religione per la quale è scandaloso pensare a un Dio così debole e né dal punto di vista della sapienza filosofica, della cultura in genere, che mentre cerca la deificazione dell'uomo, non sa immaginare una così profonda umanizzazione di Dio. Non c'è biasimo nelle parole di Paolo, ma la consapevolezza che per passare a comprendere la croce ci vuole la potenza e la sapienza di Dio, addirittura una sua chiamata, per uscire dagli schemi della normalità.
Bisogna sempre rendersi conto che quella della croce è una sapienza strana che interrompe la normalità, intendendo per normalità la ripetizione rassicurante degli schemi. Si ha sempre paura della croce, dal punto di vista religioso perché costringe a pensare alla debolezza come a un valore e a rinunciare al pensiero della verità che si impone a tutti, per arrivare a quello dell'amore che si manifesta a ciascuno; l'unico segno potente è quello del dono, ma è anche quello più debole. Dal punto di vista culturale perché la croce mette in discussione i ragionamenti senza coinvolgimento. Soprattutto oggi che si è abituati a non considerare le conseguenze delle proprie conclusioni, in qualunque campo, soprattutto in scientifico ed economico, la croce suggerisce che la persona umana è più di un ragionamento e tenerne conto, qualche volta, sembra una pazzia.
L'episodio di Gesù che scaccia i venditori dal tempio ha una grande importanza nel vangelo di Giovanni. Inizia il racconto con il riferimento alla festa di Pasqua e lo pone all'inizio della vita pubblica di Gesù. In questo contesto l'episodio è centrato sulla persona di Gesù. L'evangelista insiste sulla presenza di animali all'interno del tempio, che servivano ai sacrifici; scacciarli significa indicare un rapporto con Dio, una relazione che non ha bisogno di sacrifici.
Nel dialogo con i giudei il discorso si centra sul tempio, con un gioco di malintesi che serve al lettore a capire di che cosa stia parlando Gesù cioè del tempio come presenza di Dio, che essi rischiano di distruggere con i loro comportamenti. Se anche lo faranno, la presenza di Dio non può essere eliminata. Gesù indica sé stesso come presenza, il nuovo tempio, quello escatologico. Tutte queste cose i giudei le potevano capire, per questo ridicolizzano le parole di Gesù, riferendosi esclusivamente al tempio come edificio. I discepoli sono testimoni silenziosi, che interpretano con la Scrittura le parole e i gesti di Gesù. Il commento finale è testimonianza della fede dopo la Pasqua.
È una catechesi sulla presenza di Dio, straordinariamente legata all'opera umana, simboleggiata dal tempio. Gesù non disprezza il tempio, lo ama e lo riconosce come luogo della Presenza. Le opere degli uomini contengono la presenza di Dio, manifestano il disegno della creazione, incoraggiano, soccorrono, migliorano la vita. La civiltà e il progresso sono tempio di Dio. Non è, però, la presenza esclusiva; gli uomini sono capaci di distruggere oltre che di costruire, ma non sono in grado di eliminare la presenza di Dio; in Cristo si realizza la presenza definitiva che dà un senso all'opera dell'uomo. Chi ama una persona, si trova a difenderla da sé stessa, dalla sfiducia che mette nelle sue opere; Cristo è difesa contro la tendenza a riempire il cortile del tempio, il cuore dell'uomo, di cose che non c'entrano niente, come la sfiducia e lo scoraggiamento.
(commento di Luigi Vari, biblista)
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III Domenica di Quaresima (B)
ANNO B - 8 marzo 2015
IL TEMPIO DI DIO