Queste letture della seconda domenica dopo Natale vanno seguite sulla corda della contemplazione del mistero dell'incarnazione. Ci si ferma ancora di fronte al presepe, senza stancarsi, cercando di leggere ancora e di più. La prima lettura è una scoperta del lettore della Bibbia che trova come sia possibile applicare a quel bambino le parole dell'elogio della sapienza, contenute nel libro del Siracide. Quello dell'incarnazione è un grande viaggio che ha Dio come punto di partenza e il suo popolo come punto di arrivo. La sapienza è quel bambino nella culla, ma quel bambino è la stessa sapienza di Dio; non è un superuomo, che noi travestiamo da Dio, ma è Dio. VITA PASTORALE N. 1/2015
II Domenica dopo Natale
Sir 24,1-2.8-12
Ef 1,3-6,15-18
Gv 1,1-18
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DI ACCOGLIERE DIO
C'è spesso voglia di dire tante cose che riguardano il bambino Gesù, bisogna imparare a lasciarlo parlare perché ha da dire una cosa importante e unica che lui è Dio, che mette le radici nell'umanità per ridare quello che questa aveva perduto, la vita. Non è un superuomo risoluto re di problemi e di conflitti, ma è Dio che restituisce quello che con il peccato si era perduto, cioè il gusto della vita. Il capitolo da cui il brano è tratto racconta che l'effetto della sapienza che si radica nel mondo è che questo diventa un giardino, pieno di alberi e di frutti; cioè la creazione ritrova il filo che la sapienza di Dio aveva pensato fin dal giorno della creazione.
Paolo, nell'inno della lettera agli Efesini, contempla il disegno di Dio e fa sue le parole di benedizione. Questa preghiera di benedizione nasce dall'aver fatto esperienza della presenza di un disegno di Dio per il mondo, e saperlo come un disegno d'amore. Questo è un brano che racchiude molti problemi d'interpretazione, ma se si colloca in un ambiente liturgico, si può cogliere nel suo senso profondo. È un inno che inizia con la triplice ripetizione della parola benedizione: benedetto Dio che ci ha benedetti con ogni benedizione. È l'ambiente della benedizione in cui si entra pronunciando queste parole, e per tutto l'inno si racconta il motivo di quelle parole, e non si finisce più di trovare motivi, tanto che qualche esegeta trova sovraccarico il testo. Più semplice è la parte finale della lettura presentata dalla liturgia odierna che potrebbe essere letta come una conseguenza della benedizione; la vita del cristiano deve essere un racconto di benedizione, una vita benedetta.
Non è comune trovare nella nostra cultura la dimensione della benedizione legata all'esperienza umana; spesso si parla in termini di maledizione, magari confondendo benedizione e maledizione con fortuna e sfortuna. Molto di più si pensa alla vita come una maledizione perché non ha un significato o un valore particolare; perché se ne coglie l'insensata durezza, senza sapere come difendersi. Un cristiano non può pensare così. Egli sa che, oltre le esperienze dure, la sua vita è sostenuta dalla volontà di Dio, da sempre, e che questo la rende benedetta. Dio illumini, dice Paolo, gli occhi del cuore per farvi comprendere a quale speranza vi ha chiamati. Una vita benedetta crede e cerca la speranza.
Il prologo di Giovanni, riproposto nella seconda domenica dopo Natale, trova nuova luce dalle letture che lo hanno preceduto. C'è un collegamento chiaro fra la sapienza e il Logos, ma del Logos si dice qualcosa di più, cioè che è Dio. Dio Logos, Parola, significa relazione. Cristo, Parola del Padre, è Dio che si comunica, che entra in relazione con l'uomo. Bisogna richiamare la funzione complessa del linguaggio, che raggiunge la sua pienezza quando chi parla comunica sé stesso a chi ascolta. Cristo Logos è Dio che comunica sé stesso, dunque comunica vita, trasmette luce. In un crescendo inatteso si afferma che questa comunicazione è capace di trasformare chi la accoglie in un Figlio di Dio.
Se nel giorno di Natale ci si è fermati di fronte al presepe per riconoscere l'identità vera di quel bambino e per riconoscerlo Dio; ora, mentre potrebbe nascere la tentazione di allontanarsi dal mistero come chi ha visto una cosa bella, con la consapevolezza che, però, la vita è un'altra cosa, è altrove, si è coinvolti in un'altra domanda che riguarda chi guarda e contempla il mistero.
Credere che quel bambino è Dio che si comunica, non è un'operazione indifferente, ma è sentirsi coinvolti in una relazione che cambia gli orizzonti dell'esistenza umana, non più bui e incerti, ma luminosi perché Dio comunica sempre luce. Il buio più profondo di tutti, quello della morte, è sconfitto dalla comunicazione della vita. La condizione di fragilità, che Giovanni fa intravvedere parlando di carne e sangue, che tanto limita il cammino e rende rassegnati alla provvisorietà, è superata dalla notizia che Dio si comunica per trasmettere la condizione di figli.
Contemplando il bambino Gesù, si contempla la gloria di Dio, cioè Dio stesso, ma non è una contemplazione fine a sé stessa, perché in quella gloria uno vede la propria. Inoltre se Cristo è Parola rivolta all'uomo, bisogna che questi risponda. La risposta è la fede, qui descritta come accoglienza nella propria vita di quanto Dio vuole trasmettere: la luce, la vita, la condizione di figli. Pensare al proprio cammino come a un cammino di gloria, non è una cosa teorica che non ha conseguenze, ma significa vedere la propria esistenza con gli occhi di Dio e riconoscerla preziosa e straordinaria.
(commento di Luigi Vari, biblista)
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II Domenica dopo Natale (B)
ANNO B – 4 gennaio 2015
LA SCELTA