Tratta dalla terza parte del libro del profeta Isaia, la lettura di oggi parla della missione del profeta, che Gesù attribuisce a sé stesso nel discorso che tiene nella sinagoga di Nazaret, provocando la dura reazione dei presenti. Ciò che rende tale un profeta è essere inviato e il servizio della Parola, entrambe le condizioni sono presenti in Is 61,1. Soprattutto è chiaro che i destinatari della profezia sono quelli che sono ai margini, per motivi diversi e tutti elencati, della vita. Evocando l'anno di grazia, il profeta vuole sottolineare che il male non è una condizione definitiva. Il brano letto nella liturgia riprende in 61,10, che fa inclusione con 61,1, riprendendo la prima persona. Il profeta scoppia di gioia e si presenta a Gerusalemme con la luce festosa di uno sposo che incontra la sua sposa, bella e splendente. Tutto parla di vita in quest'immagine di Gerusalemme sposa, descritta immersa in un giardino, dove il profumo della giustizia e della lode ha sostituito il cattivo odore della prevaricazione e del lamento del tempo della deportazione. VITA PASTORALE N. 11/2014
III Domenica di Avvento
Is 61,1-2.10-11
1Ts 5,16-24
Gv 1,6-8.19-28
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GRIDA NEL DESERTO
C'è gente che non legge più un giornale o non vede le news perché ha l'impressione di essere sommersa da un fiume di amarezza; c'è gente che ha sempre la veste del lutto e alza le spalle se assiste a qualche sfumatura di vita. Sembra che non si è più capaci di apprezzare e stimare la vita; tutti portatori di grembi sterili. La lettura di Isaia dice a ognuno che c'è uno sposo che richiama alla fecondità e che cerca la bellezza, donando la di nuovo; la presenza di Dio nella vita delle persone elimina dalle esperienze più dure la sensazione del fallimento e il cattivo odore dell'amarezza della sconfitta e spinge a rialzarsi, a profumarsi di nuovo, alla bellezza.
È questo il Magnificat della vita. È la letizia che Paolo considera come caratteristica dei suoi discepoli, non una gioia stordita di chi non vede le cose, ma come condizione di chi è in comunione con Dio e vive credendo nella gioia. Dio non vuole la tristezza, lo scoraggiamento che prende chi pensa che l'ultima parola sia riservata alla morte e a tutto il suo corteo. Paolo dice che la gioia si costruisce e si sceglie ed è la testimonianza più forte della forza di Dio; non può gioire la persona che non ha speranza, che si lascia dominare dal male e che non ha fiducia. C'è una guida nel cammino della gioia ed è lo Spirito, a condizione di lasciarlo parlare e agire.
Veramente non è comune il pensiero che la gioia sia la testimonianza più efficace che un cristiano può dare e che sia il segno di una libertà da tutti i condizionamenti dell'esistenza. La gioia è il segno distintivo della comunione con Dio e il segno che lo Spirito guida la vita di chi la vive. Un modo di essere cristiani, un po' arrabbiato e in guerra perenne con il sorriso e l'ottimismo, forse è più debitore della fedeltà a qualche schema mentale, idea o organizzazione, che alla volontà di Dio che spinge, pure se in un mondo pieno di contraddizioni, a vivere con fiducia, gioiosamente.
Il brano del Vangelo anticipa già il Natale, è infatti tratto dal prologo che si legge nella messa del giorno della solennità natalizia. È sempre il Battista a essere il protagonista, l'immagine riproposta del precursore aumenta l'attesa per colui che deve venire. L'evangelista, per parlare del Battista, interrompe il ritmo poetico, dà l'impressione di voler passare dalle affermazioni di principio, alla concretezza della storia. Giovanni è l'intermediario fra Dio e l'umanità di tutti i tempi, evocata dalla frase che finalizza la sua testimonianza: «Perché tutti credessero per mezzo di lui». Giovanni prepara la presenza di Cristo, spingendo alla fede quelli che attendono, in ogni luogo e tempo. Arrivando ai vv. 19-28, si assiste a un'inchiesta condotta dai Giudei sull'identità del Battista, che è, però, come svela bruscamente il Battista stesso, un'indagine sul Messia: «Non sono io il Cristo».
Nel dialogo fra Giovanni e i Giudei è possibile indagare sulle attese messianiche molto vive in quel tempo. Soprattutto è importante, oltre la discussione sul battesimo e altre importanti questioni, il modo che Giovanni sceglie per definire sé stesso, quello di voce di uno che grida nel deserto. Si nota come il grande predicatore e trascinato re di folle, qui si mette come di lato, applicando a sé la profezia di Isaia, e collocandosi nel ruolo di chi manifesta una presenza, ma non è la presenza stessa. La differenza che esiste fra evocazione e realtà è la distanza fra Gesù e Giovanni; sarebbe ingiusto confondere voce e parola, suono e presenza.
Non sempre è chiara la distanza fra i due poli, non sempre è facile mettersi da un lato per permettere a Cristo di farsi presente nella vita di chi lo attende, a volte anche senza saperlo. In qualche maniera l'inchiesta fatta a Giovanni, la subisce ogni cristiano quando deve parlare della sua fede, quando si trova a dare ragione delle proprie scelte. A tutti capita di potersi sentire chiedere: «Tu chi sei?». Mettersi di lato per far posto a Cristo, rinunciando a rispondere con le proprie idee e conclusioni; fare spazio a Cristo, aiutando a credere, e nella consapevolezza di non essere né luce, né parola, né sostanza.
È la voce che annunzia liete notizie a Gerusalemme, quella con la quale la persona amata si fa riconoscere. È straordinario che Dio, per visitare il suo popolo, scelga di rendersi presente con la voce di chi ha fede in lui.
(commento di Luigi Vari, biblista)
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III Domenica di Avvento (B)
ANNO B - 14 dicembre 2014
VOCE DI UNO CHE