Il diaconato in Italia n° 182/183
(settembre/dicembre 2013)
Atti del XXIV Convegno Nazionale
Napoli 21-24 Agosto 2014
Il diaconato a 50 anni dal Concilio Vaticano II
di Enzo Petrolino
Era una mattina piovosa quella di 50 anni fa, quando la lunga processione di 2.500 vescovi e cardinali da tutto il mondo varcò il portone di bronzo per attraversare una piazza san Pietro non troppo affollata (per i blocchi stradali di sicurezza e per la pioggia, secondo le cronache di allora) e dirigersi verso la basilica, trasformata per l'occasione nell'aula di un insolito "Parlamento": l'assise della Chiesa mondiale più numerosa della storia. In fondo alla processione, Giovanni XXIII, benedicente sulla sedia gestatoria. Quella stessa sera ci sarebbe stato l'indimenticato "Discorso della luna" di papa Roncalli, di fronte a una folla immensa di fedeli assiepati, con le torce accese, sotto la sua finestra.
Iniziava così il Concilio Vaticano II, annunciato appena tre anni prima da Giovanni XXIII ad un gruppo di cardinali attoniti, riuniti nella basilica di san Paolo fuori le mura. Tre anni di preparazione, con il partito della Curia - guidato dal capo dell'ex sant'Uffizio, il cardinale Alfredo Ottaviani - timoroso che il Concilio potesse sfuggire di mano e portare a discussioni che avrebbero mostrato al mondo una Chiesa divisa. Sull'altro fronte si schierava, invece, il partito riformatore - guidato dalle Chiese francesi e tedesche - deciso a cogliere i fermenti di un mondo nuovo che stava nascendo e con il quale i cattolici dovevano imparare a dialogare. Sulla scia di queste intuizioni profetiche di novità si ponevano alcune spinte che potremmo definire, ma solo per chiarirne la portata in termini di maturazione, "dal basso": il "movimento liturgico", che chiedeva una riforma dei riti riconducibili ancora al Concilio di Trento del XVI secolo; il "movimento biblico", che puntava a ridare fiduciosamente la Bibbia in mano ai fedeli per uno studio serio e una riscoperta personale; il "movimento ecumenico", che premeva per un'apertura e un dialogo con i fratelli delle Chiese separate. Tutti fermenti trasversali, che attraversavano le Chiese locali senza essere, per questo, estranei al vertice della Curia.
Giovanni XXIII, che nel frattempo aveva già scoperto di essere gravemente malato e sapeva che difficilmente avrebbe visto la fine del Concilio, preparò un discorso inaugurale (Gaudet Mater Ecclesia) che segnò uno dei momenti più alti del suo pontificato e, probabilmente, della Chiesa del Novecento. Il Papa rinunciava a fissare un predefinito ordine del giorno del Concilio, ma decideva di affidarlo totalmente alle mani dei padri conciliari. Non rinunciava a dare, però, delle preziose indicazioni di metodo, in perfetto "stile conciliare", che sarebbero rimaste una sintesi mirabile tra le istanze più conservatrici, legate al rispetto della tradizione della Chiesa (cui si sentiva più vicino lo stesso Roncalli), e le esigenze più riformatrici o "progressiste" già accennate sopra. Il "Papa buono" (capace di coniugare mirabilmente la semplicità delle origini contadine con sorprendenti qualità di diplomatico e di pastore) anzitutto condannava i profeti di sventura. L'incipit dell'allocuzione inaugurale fu scelto con cura: «Gaudet Mater Ecclesia» - «Gioisce la Madre Chiesa» - perché la Provvidenza l'aveva guidata verso l'evento, tanto atteso e desiderato, dell'apertura di un nuovo Concilio Ecumenico, il Vaticano II.
Il Pontefice volle che l'assemblea si aprisse nel segno della gioia, non in quello della paura e della preoccupazione, nonostante quelli fossero giorni di trepidazione per l'incubo nucleare che gravava, ormai in maniera sempre più angosciosa, sull'umanità intera. L'incipit rinviava ad uno dei passaggi centrali dell'allocuzione, che avrebbe colpito molto l'attenzione dei mass media e dell'opinione pubblica per il suo slancio di positività e speranza: il Papa criticava i «profeti di sventura», cioè coloro che «annunziano sempre il peggio, quasi incombesse la fine del mondo». Sono quelli - dice Papa Giovanni - che «nelle attuali condizioni della società umana non sono capaci di vedere altro che rovine e guai; vanno dicendo che i nostri tempi, se si confrontano con i secoli passati, risultano del tutto peggiori; e arrivano fino al punto di comportarsi come se non avessero nulla da imparare dalla storia, che è maestra di vita».
Ho voluto citare letteralmente le parole del Papa per la forza con la quale esse risuonano, ancora oggi, per tanti cristiani - anche noi, forse - che appaiono come vinti dalla sconfitta e ripiegati sulla stessa tristezza dei discepoli di Emmaus che, prima di riconoscere il Signore, lamentavano: "Noi speravamo... ". Ma torniamo agli intendimenti di Giovanni XXIII. Sgombrato così il campo da dubbi o timori ingiustificati, egli annuncia che il Vaticano II non sarà - come molti potevano aspettarsi - un Concilio di condanna del Comunismo o di altre ideologie del mondo contemporaneo, ma si connoterà come un Concilio pastorale con tutte le conseguenze che una tale caratterizzazione implica per la vita ecclesiale, e dovrà saper coniugare il necessario rinnovamento della Chiesa con il rispetto della Tradizione.
Si aprono così tre anni intensi (quattro sessioni di lavori) con in mezzo la straordinaria enciclica Pacem in terris del Papa (a pochi mesi dalla sua morte), il conclave per l'elezione di Paolo VI, il viaggio del nuovo Papa in Palestina e l'abbraccio con il patriarca ortodosso Atenagora, seguito dalla visita a New York e dal Discorso alle Nazioni Unite. Anni segnati da un'escalation nella guerra fredda, che aveva portato lo stesso Roncalli a dover intervenire a fine ottobre 1962 (appena iniziato il Concilio) per sventare la crisi dei missili a Cuba. I padri conciliari approveranno in tutto quattro Costituzioni apostoliche (i documenti più importanti sulla Liturgia, la Chiesa, la Bibbia e il rapporto con il mondo), nove Decreti e tre Dichiarazioni.
Non viene solo modificata la liturgia (anche se la riforma vera e propria dei riti, con il definitivo passaggio alla lingua "volgare" al posto del latino sarà opera di papa Paolo VI con il liturgista Annibale Bugnini), ma anche il concetto di Chiesa e di gerarchia, il ruolo dei laici, la collegialità episcopale, l'approccio alla libertà religiosa, l'apertura al dialogo ecumenico, il rapporto con gli Ebrei e, lo cito per ultimo ma lo ritengo ovviamente importante al pari di altre innovazioni, il ripristino del diaconato nella forma permanente. E prima di inoltrarmi nella riflessione sul rapporto tra sviluppo del diaconato e dettato conciliare a 50 anni dal Concilio stesso, credo sia opportuno sottolineare che, se si vuole non solo commemorarlo, ma renderlo vitale e presente nella vita della Chiesa, occorre in primo luogo leggerne i testi. È un atto necessario, soprattutto a distanza di mezzo secolo, per poterne comprendere il significato, riscoprire il valore, verificare quali indicazioni siano state attuate e quali, invece, siano rimaste appena abbozzate o - in qualche caso - del tutto disattese.
Abbiamo tutti consapevolezza, d'altra parte, di come molti temi restino ancora in sospeso e siano oggetto di discussione dentro la comunità dei credenti così come fuori di essa: il celibato dei preti, il ruolo dei divorziati nella Chiesa, il ricorso alla contraccezione e il controllo delle nascite, il ruolo della donna. Tutti temi che Papa Francesco ha fatto presente durante l'intervista che i giornalisti hanno realizzato con lui sull'aereo di ritorno dal Brasile. Riprendere "la bussola del Concilio", come affermava Benedetto XVI, deve essere per noi cristiani l'atto coraggioso e insieme consolante per orientarci nel mare agitato del mondo di oggi.
Con Papa Francesco, tutti dovremmo domandarci se «dopo cinquant'anni, abbiamo fatto tutto quello che ci ha detto lo Spirito Santo nel Concilio», ponendoci a livello sia individuale che comunitario «in quella continuità della crescita della Chiesa» inaugurata dalla primavera dell'evento conciliare. E dalla risposta che il Papa stesso dà dobbiamo sentirci tutti interpellati, visto che la non piena attuazione del Concilio dipende in modo evidente dalla nostra «resistenza» al rinnovamento: «Per dirlo chiaramente - ha affermato il Santo Padre - lo Spirito Santo ci dà fastidio. Perché ci muove, ci fa camminare, spinge la Chiesa ad andare avanti. ... Non vogliamo cambiare. Di più: ci sono voci che vogliono andare indietro. Questo si chiama essere testardi, questo si chiama voler addomesticare lo Spirito Santo, questo si chiama diventare stolti e lenti di cuore».
La situazione oggi
Provo a descrivere gli aspetti che ritengo costituiscano, oggi, la questione del diaconato. Vorrei evidenziare anzitutto alcuni punti critici, per poi indicare anche le ragioni della speranza. È in primo luogo indispensabile ed urgente interrogarci sul servizio che, come diaconi, abbiamo offerto alla comunità cristiana e al mondo in questi anni postconciliari: questo ci consentirà di capire in che misura abbiamo contribuito ad allargare l'orizzonte della diaconia di Cristo all'intera vita e missione della Chiesa in questo nostro tempo.
Capire, cioè, se attraverso il nostro agire è maturata nelle nostre comunità una "coscienza diaconale", ovvero la consapevolezza di quella comunionalità - inaugurata e fortemente voluta dal Concilio - che si traduce nella partecipazione e nella corresponsabilità a tutti i livelli e nelle sue diverse forme. Certamente una manifestazione visibile e concreta della Chiesa come comunione - la più alta e autentica - è la celebrazione eucaristica. Lì la Chiesa viene compresa (o almeno così dovrebbe essere, ma non è sempre scontato) non come privilegio né come potere, ma come una sfida e un compito. È una sfida ad essere sacramento di comunione nel nostro mondo così frammentato e diviso. Tutti siamo chiamati al servizio nella comunione. Nella fraterna «koinonìa» - ecco dove sta il compito - si apprende e si esercita la «diakonìa» cristiana, in quel servizio della carità che nella Chiesa occupa sempre e da sempre il primo posto. Questa prospettiva apre la strada a varie ipotesi di servizio, a partire dal diacono promotore della carità orientato verso i più poveri, sia che si tratti di povertà economica, morale o spirituale. Tale orientamento implica, però, una scelta impegnativa per l'intera vita del diacono, una scelta preferenziale che si deve tradurre in scelta di "povertà effettiva".
Su questa frontiera - difficile, ma ineludibile - si consuma, oggi, per noi diaconi la sfida della missione, e si tratta di un programma di vita "costoso" in termini di responsabilità da assumere, di percorsi da intraprendere, conseguenze da affrontare: per servire il Vangelo e i poveri, dobbiamo infatti "uscire dal tempio" e diventare uomini della strada che vanno da Gerusalemme a Gerico, ovvero da Gerusalemme ad Emmaus, per farei buon Samaritano, compagni di viaggio di chi è tormentato dal dubbio, dall'insicurezza del futuro, dalla difficoltà a trovare lavoro, dalla paura di perderlo e di non poter provvedere alla propria famiglia, dall'arroganza della minaccia mafiosa di fronte alla quale si resta il più delle volte soli... dai molti interrogativi riguardanti la verità di Dio operante nella storia dell'uomo attraverso segni visibili e scelte concrete, e il senso di un presente da migliorare e di un futuro da progettare e costruire insieme.
La caratteristica del Cristianesimo - lo sappiamo - è l'incarnazione e l'incarnazione è un «mistero di solidarietà, di compagnia, di comunione». È questa una forte provocazione per evitare, come dicevo prima, che il diacono si chiuda nel recinto del sacro, ed aiutarlo - al contrario - a farsi ministro di una Chiesa che è chiamata, come amava ripetere Giovanni Paolo II, a trovare se stessa "fuori" di se stessa. Questa dovuta e necessaria conversione verso i poveri collocherà i diaconi nel loro giusto contesto ecclesiale e ministeriale, rendendo finalmente visibile lo stretto legame della mensa del corpo di Cristo con la mensa dei poveri, e dell'eucaristia con la carità.
Questa assimilazione sacramentale a Cristo non è un fatto soggettivo e impalpabile che accade nel vuoto della storia, ma un evento che si compie nella realtà concreta di una determinata Chiesa locale, e in assenza di questo respiro ecclesiale, le opere di carità rischiano di ridursi ad espedienti organizzativi rivolti a lenire i bisogni solo materiali e, comunque, momentanei dei poveri. È un aspetto, questo, che ci deve costantemente interpellare e trovare vigilanti sul nostro stesso operare, perché, senza crescita ecclesiale, il nostro servizio di diaconi rischia di essere frainteso diventando un sorta di impegno "su commissione" destinato a risolvere, seguendo scelte ispirate o dettate dall'urgenza, i bisogni contingenti e i problemi occasionali e logistici delle singole Chiese. Come, purtroppo, spesse volte, è accaduto. La diaconia secondo il modello conciliare, invece, è una riproposizione del "comandamento nuovo" consegnato da Cristo ai suoi discepoli, e in tale contesto la testimonianza del servizio diaconale è destinata a diventare il segno storico, profezia e, insieme, impegno concreto. Se per i laici l'impegno nel mondo è un campo d'azione oltre che possibile anche doveroso, più articolata e complessa si presenta la questione per i diaconi, i quali - come segno dell'amore di Cristo soprattutto per i poveri e i bisognosi - sono costantemente chiamati a preoccuparsi del senso della vita dell'uomo, in qualsiasi condizione egli venga a trovarsi.
La dimensione sociale della vocazione diaconale
Credo si possa affermare che la dimensione secolare della vocazione dei diaconi è vissuta in modo ancora troppo debole. Tale vocazione, cioè, sembra essere giocata troppo sulla dimensione pastorale e molto meno su quella secolare, che risulta troppe volte poco vissuta, poco capita, poco valorizzata. Non appare ancora sufficientemente chiaro, infatti, che la presenza dei diaconi nella famiglia, nella scuola, nelle professioni, nella politica, nella cultura, non si limita a una questione privata, giocando solo sulla coerenza della testimonianza personale, ma costituisce un modo peculiare di contribuire alla missione della Chiesa. Questa comprensione del valore missionario della vocazione diaconale vissuta nel mondo forse è troppo poco presente nella coscienza delle nostre comunità e nella stessa coscienza dei diaconi. Proviamo a puntualizzare meglio la problematica di questa dimensione:
1. Chiediamoci quanto conta, ad esempio, per le nostre comunità il fatto che dei diaconi cerchino di vivere intensamente la loro vocazione nella "dispersione" della vita quotidiana, portandovi però la rilevanza ecclesiale della loro testimonianza di ministri ordinati.
2. I diaconi non impegnati nella pastorale rischiano di essere invisibili, sono percepiti come presenze non decisive per la realizzazione della vita nella comunità. Chiaramente questo dipende anche dal fatto che il rapporto della Chiesa con il mondo - di cui la Chiesa è parte - è troppo debole.
3. Nelle nostre comunità, soprattutto per i diaconi non coinvolti nella vita pastorale, sono scarse o non esistono le opportunità per esprimersi, per portare i propri problemi, le proprie domande, ma anche semplicemente il racconto del proprio vissuto.
4. Ancora, capita sovente che i diaconi non riescano a sperimentare percorsi di spiritualità che diano valore alla vita quotidiana, dalla quale evidentemente nessuno può estraniarsi o sentirsi disincarnato. Dobbiamo chiederei in proposito: fino a quando la spiritualità, anziché essere espressione originale di un cammino di fede che tenga insieme Vangelo e vita quotidiana, si accontenterà di indirizzarsi a segmenti parziali della persona (del diacono), quasi pensando che per essere fedeli al Vangelo bisogna necessariamente "uscire" dalla vita stessa?
Ma oltre a questi interrogativi, pur rilevanti per lo sviluppo del diaconato ai giorni nostri e nel prossimo futuro, ritengo importante nel contesto di questa riflessione individuarne altri che ci portino al cuore della questione in esame. Perché, dopo cinquant'anni, dobbiamo ancora interrogarci sulla presenza e sul ruolo ecclesiale e pastorale del diaconato? E ancora. Perché, come sembra, questa battuta d'arresto nel processo di crescita di consapevolezza di soggettività che aveva, invece, caratterizzato gli anni successivi al Concilio? Proviamo a rispondere sulla base dei dati che ci vengono da un'analisi attenta della realtà ecclesiale e dei mutamenti sociali. Credo si possa dire anzitutto che:
A. La Chiesa e le singole comunità hanno affrontato i rapidi cambiamenti intervenuti in questi anni in modo timoroso, quasi difensivo. Il rapporto con il mondo si è dunque fatto via via più debole, rendendo quasi superflua quella delicata azione di ponte che caratterizza l'essere e l'operare del diacono.
B. A volte si è assistito, in modo quasi rassegnato o passivo, allo spegnersi del dialogo intraecclesiale, e questo ha impoverito e debilitato la comunicazione nella comunità cristiana.
C. La pastorale ha dedicato molte delle proprie energie ad un'azione di riorganizzazione; è divenuta sempre più specialistica e ricca di iniziative, ma forse meno di pensiero e di corresponsabilità.
D. Forse, inoltre, non si è avuta la determinazione di ripensare seriamente l'impostazione formativa dei candidati al diaconato e dei diaconi già ordinati. Quali sono, allora, i percorsi possibili? È chiaro che prendere atto degli aspetti problematici è solo il punto di partenza per una riflessione che porti all'individuazione di soluzioni e scelte di impegno.
Ci chiediamo come dare un futuro significativo ad una vocazione di cui il Concilio ha riconosciuto l'importanza, ma che stenta ad esprimersi con vivace consapevolezza nella Chiesa, soprattutto nel quotidiano. Si tratta di una questione che riguarda la comunità nel suo insieme, e non qualcuno in particolare. Essa interpella vescovi, preti, religiosi, laici: quei laici, in particolare, che mostrano maggiore sensibilità e coinvolgimento nella vita attiva della comunità. Qualcuno potrebbe pensare che la diminuzione delle vocazioni sacerdotali rende evidente come solo un incremento di responsabilità dei diaconi potrà consentire alle comunità cristiane di continuare a mantenere vivi i luoghi di preghiera, di ascolto della Parola, di educazione alla fede. Penso, però, che questa non sia una lettura corretta della realtà. Paradossalmente, la dinamica che tende a portare i diaconi all'interno dell'azione pastorale, almeno così come è attualmente impostata, sembra contribuire più ad accelerare l'invecchiamento delle comunità che a promuoverne il ringiovanimento e l'apertura.
Vi è poi la questione della testimonianza dei diaconi nella società civile, una testimonianza guardata a volte con diffidenza o con superficiale curiosità, ma non per questo non attesa da molti - anche non cristiani - o non necessaria. Anzi, la qualità della vita cristiana ordinaria dei diaconi costituisce un irrinunciabile terreno per l'incontro tra nuovi bisogni e proposte di percorsi possibili da condividere per rispondere adeguatamente al fenomeno della progressiva laicizzazione della società italiana e alle esigenze della nuova evangelizzazione. Ed è, questo, un processo che non può non interessare e coinvolgere tutta la comunità dei credenti, nella quale i diaconi sono chiamati - secondo lo spirito del Concilio - a svolgere un ruolo da protagonisti. Ma tutto questo necessita di una Chiesa interessata al mondo, impegnata a riscoprire oggi l'orientamento conciliare della Gaudium et spes, capace di fidarsi dei diaconi e di valorizzarne la competenza. Nasce qui, dunque, una nuova soggettività del diaconato, con i diaconi che diventano consapevolmente e responsabilmente - oltre che fedelmente al mandato ricevuto - gli artefici principali della valorizzazione della loro vocazione. È questo un compito davanti al quale ognuno di noi si sente certamente inadeguato, tanto esso è sproporzionato rispetto alla concreta possibilità che ciascuno può avere di modificare gli assetti delle comunità cristiane odierne.
La connotazione ecclesiale
Si tratta di un compito da affidare non a singoli individui, ma piuttosto a un diaconato cosciente e maturo, che recuperi il senso dell'essere insieme nel condividere la comune vocazione e l'efficace esercizio di essa. A poco, tra l'altro, varrebbe il recupero dei contenuti positivi del diaconato se esso si riducesse ad un fatto individuale e privato. Deve diventare, al contrario, un fatto ecclesiale per connotazione caratteriale e compiti da esprimere, ma perché ciò sia possibile è richiesta una revisione del rapporto tra la comunità cristiana e i diaconi che di essa fanno parte. Ritorna, qui, l'importanza di riscoprire il dialogo e l'ascolto, di individuare nuovi luoghi di comunicazione intraecclesiale, di spendersi in un'organizzazione meno rigida della pastorale, di porre una nuova attenzione all'impegno culturale e spirituale... di intraprendere percorsi che potranno aprire ai diaconi nuove possibilità di relazione con le loro comunità.
La rilevanza ecclesiale dei diaconi non può passare a tutti i costi dall'inserimento nell'organizzazione pastorale, ma deve implicare il coinvolgimento diretto in essa dei diaconi stessi. Occorre, cioè, che i diaconi siano realmente riconosciuti come "essenziali alla Chiesa" (cf. Sant'Ignazio di Antiochia). Sarà, però, compito della comunità cristiana ripensarsi in modo da far avvertire loro la preziosità della esperienza diaconale per l'attuarsi della missione della Chiesa, accompagnando il loro servizio con la preghiera e l'ascolto. Questo dialogo potrà rivelarsi prezioso e contribuirà a (ri)creare nella comunità un'attenzione e una sensibilità originali.
Ci viene qui in aiuto il Sinodo sulla nuova evangelizzazione. Nell'Instrumentum laboris veniva formulata questa domanda: «i diaconi, nell'evangelizzare, hanno trovato la loro identità?». Rispondere non è semplice né automatico. Esiste oggi, tra le persone, se non una sorta di ateismo di ritorno, sicuramente un sentimento di estraneità e di lontananza della coscienza dalla vita ecclesiale e dalle sue proposte. L'interesse per la Chiesa - lo vediamo quotidianamente - torna prepotentemente a farsi vivo soprattutto quando scoppia qualche scandalo. Per contro, l'affermarsi nella collettività sociale di una visione della vita lontana dai valori del Cristianesimo fa nascere nella comunità cristiana e nei singoli credenti una crescente insicurezza ed il timore di essere inadeguati, indeboliti nelle proprie convinzioni, incapaci di portare avanti la propria missione, smarriti rispetto alle scelte da compiere.
Si tratta - come è stato delineato da osservatori qualificati - di una paura tanto più insidiosa quanto più mascherata dietro razionalizzazioni che la fanno apparire altro, che spingono a far risalire il proprio smarrimento al mondo esterno. Ora, chi ha paura tende a difendersi, e forse questo è quanto stanno facendo tante comunità cristiane e tanti diaconi chiusi nel rassicurante "microcosmo" delle loro attività delle loro pregevoli iniziative, dei loro lungimiranti progetti, illudendosi che questo possa, da solo, mutare il corso delle cose. Intanto, il numero di chi frequenta l'Eucaristia domenicale diminuisce, ma soprattutto dalle celebrazioni sono spariti o quasi i giovani e, dopo la fase di preparazione alla Prima Comunione, anche i ragazzi. È significativo ricordare, di fronte a tali difficoltà che attraversano l'odierna vita ecclesiale, che nel documento Evangelizzazione e testimonianza della carità veniva dichiarata esplicitamente l'intenzione dei vescovi di offrire per gli anni seguenti speciale attenzione ai diaconi quali «segno della Chiesa che serve in mezzo ai fratelli» (n. 26): ad essi veniva inoltre affidato un particolare servizio per la pastorale giovanile, consegna - questa - che richiama direttamente la necessità di un agire oltre che ispirato ed evangelicamente sapiente anche qualificato e competente, per il quale spesso non basta la semplice "buona volontà" del singolo ministro.
Un'altra questione irrisolta e sempre presente nel dibattito ecclesiale e nel confronto con il tessuto sociale riguarda la considerazione e il ruolo delle donne. Si tratta di una questione che interpella la Chiesa e i diaconi su diversi fronti. Ad extra, essa si pone in attento ascolto della più generale crisi di fede che attraversa la compagine sociale e condiziona fortemente il ruolo della donna - specie quello educativo - nelle sue diverse situazioni di vita, dall'impegno familiare e professionale fino alle scelte più personali dell'impegno civile e politico.
Ad intra, la questione si apre su due direzioni diverse, ma tra loro relazionate: quella delle spose dei diaconi, alle quali è chiesto di esprimere il consenso all'atto dell'ordinazione proprio per l'insostituibile ruolo di sostegno e di accompagnamento che esse sono chiamate a svolgere accanto al marito, il che richiede un'adesione consapevole e convinta al cambiamento che l'ordinazione stessa comporta nella vita della coppia e della famiglia; e quella della presenza femminile all'interno della comunità cristiana, nel contesto più ampio di una ministerialità con la quale il diaconato deve saper dialogare e interagire in termini di valorizzazione dei molteplici carismi che lo Spirito incessantemente suscita nella Chiesa e di promozione dei ruoli di ciascuno secondo la peculiarità del proprio essere e la particolarità del dono ricevuto.
La paura del cambiamento e dell'inadeguatezza rispetto alle domande del "nuovo" - come abbiamo già accennato - genera atteggiamenti di autodifesa e di allontanamento, e tarpa le ali agli slanci di novità suggeriti dallo Spirito nel suo incessante sospingerci verso orizzonti che intravediamo, ma non conosciamo appieno. Significativamente, già nel '72 in proposito il cardinale Kasper affermava: «Si ha ora di nuovo paura del rischio che libertà e futuro comportano e ci si è votati in larga parte ad un'opera di conservazione e di restaurazione. Tuttavia se la Chiesa diventa l'asilo di quanti cercano riparo e riposo nel passato, non deve meravigliarci se i giovani le voltano le spalle». Ora, se il rinnovamento genera sempre trepidazione e timori spesso non chiaramente fondati, resta comunque connaturato alla nostra coscienza di discepoli "annunciatori e costruttori del Regno" il dovere gioioso di guardare al futuro: è compito di ogni cristiano, ma ancor più è la sfida che attende il diacono quale "apostolo" di novità e "messaggero" di speranza in mezzo ai fratelli. A cinquant'anni dal Concilio, la vocazione diaconale ha molto da dare in termini di ricchezza non solo pastorale, ma anche spirituale, testimoniale e culturale, e le sue potenzialità ancora inespresse ci interpellano e ci inducono al tempo stesso a sperare, riflettere e operare, efficacemente corroborati dall'esperienza dei decenni trascorsi e santamente provocati dalle difficoltà della realtà attuale.
Il coraggio di ripartire
Sono molti i percorsi che si aprono davanti ai diaconi e alle comunità che vogliono mettersi decisamente sulla strada dell'attuazione del Concilio oggi. Occorre ri-appassionarsi, osare, inventare, superare forme di ripiegamento narcisistico, pigro, che non generano altro che stanchezza. Perché i diaconi suscitino questa nuova volontà di impegno creativo è necessario che essi si sentano partecipi di una comunità nella quale vengono riconosciuti e avvertono che la loro presenza è desiderata ed apprezzata. Responsabilità ed appartenenza si alimentano reciprocamente.
Il ruolo della Comunità
Penso che la Comunità del diaconato in Italia possa candidarsi, ancora oggi, ad assumere questo ruolo, rischiando in proprio e al tempo stesso essendo disponibile ad offrire alla Chiesa il frutto del suo lungo e fecondo sperimentare. Nel realizzare questo impegno, essa ha davvero tutte le carte in regola, per la sua ricca storia, la sua multiforme esperienza, la sua riconosciuta sensibilità, la sua tradizione maturata nel tempo.
Le sfide difficili che sono state presentate potrebbero indurci ad una visione intristita e sfiduciata delle possibilità che il diaconato ha di operare efficacemente, secondo la grazia che gli è stata donata sacramentai mente, nella Chiesa e nel mondo. Ma è proprio la consapevolezza della difficoltà e dell'impegno col quale queste sfide vanno affrontate che rende, invece, più forte la nostra speranza. Sappiamo - e non potrebbe essere altrimenti - che Dio rende possibile anche l'impossibile. E se il compito che il diaconato ha di fronte a sé è quasi al di là delle possibilità umane, significa che il protagonista nel futuro della vita del diaconato nella Chiesa sarà più che mai lo Spirito, e questo è - di per sé - la garanzia più grande e l'incoraggiamento migliore a correre sulla strada per raggiungere, come Filippo, "il carro degli uomini" ed incontrare nel dialogo le loro ansie e le loro attese di salvezza.
Quali dunque, i nodi ancora da sciogliere, le prospettive e le speranze? In parte tutti e tre questi elementi si sono gradualmente affacciati dai passaggi della riflessione fin qui condotta. Innanzitutto, la peculiarità specifica del diaconato rispetto alla ministerialità presbiterale da un lato e a quella laicale dall'altro. Sappiamo che le funzioni del diacono partecipano alla natura specifica dei tria munera Christi propri di tutto il popolo di Dio, ma esse sono esercitate dal diacono con il carattere specifico del ministero ordinato e sotto la specificità della categoria del servizio. Anche l'attività laicale professionale o di lavoro ha un significato diverso da quella del laico, proprio per il suo collegamento con il ministero. Il Direttorio del '98 chiede che, già al momento dell'ordinazione, si affianchi sempre all'evento sacramentale un'investitura pastorale specifica, che metta in risalto le funzioni proprie del diacono così che queste non vengano viste, come ammoniscono i vescovi italiani, quali elemento sostitutivo dell'impegno di altri. Proprio per questo la CEI, nel documento del '93, insisteva sulla dimensione missionaria sia ordinaria sia ad gentes. Si ha davanti, come è già emerso più volte, un lavoro di evangelizzazione capillare che vede il diacono come promotore del senso comunitario e dello spirito familiare del popolo di Dio: era questo il progetto degli anni Settanta della Chiesa italiana, in cui si prefigurava la possibilità di una articolazione delle grandi parrocchie in "comunità minori" animate da un diacono.
In questa prospettiva si può anche comprendere che la parrocchia, di per sé, non è l'ambito proprio del ministero diaconale se non in via eccezionale e/o quindi transitoria. Questo anche per evitare che il diacono venga considerato una sorte di "vice-parroco" o di ministro dimezzato.
Oltre al dialogo, di cui abbiamo già ampiamente detto, è possibile percorrere altre "vie" privilegiate della comunicazione della fede e, conseguentemente della missione:
• quella, anzitutto, della "capillarità", cioè dell'annuncio della parola di Dio in piccoli gruppi o comunità inferiori e della penetrazione evangelica negli ambienti di vita e di lavoro (famiglie, caseggiati, borghi dispersi, quartieri a rischio...) dove è più facile realizzare il dialogo, la circolazione della parola, l'adesione del messaggio alle situazioni.
Il favore che stanno riacquisendo un po' dappertutto i "Centri di ascolto", specie nei tempi forti dell'anno liturgico, in occasione delle missioni popolari o della visita pastorale del vescovo o, ancora, in altre analoghe circostanze, è una conferma di quanto profonda sia la domanda di un metodo di evangelizzazione personalizzato, capace di superare la persistente tentazione di esaurire la pastorale nell'ambito del culto e delle devozioni, e quindi destinato a portare frutti di rinnovamento nella fede e nella vita cristiana.
• quella della testimonianza personale e soprattutto comunitaria (cf. Evangelii nuntiandi 21,41) della misericordia e della carità, di fronte alle antiche e nuove povertà indotte dalla mentalità e dal costume consumistici ed edonistici del nostro tempo. È, questa, una via privilegiata in quanto capace di opporsi con una forza originale e di rompente sia ad un pluralismo generico e a volte qualunquista (una sorta di contenitore dove le idealità si mescolano restando, però, estranee le une alle altre) sia all'indifferenza che pervade il clima culturale.
I Vescovi italiani ce lo hanno ricordato nel documento Evangelizzazione e testimonianza della carità degli anni '90, ribadendo che proprio la carità è uno dei segni più facilmente decifrabili da parte di "coloro che sono fuori" della Chiesa o al margine di essa e, insieme, una delle istanze più avvertite per rendere più credibile il Vangelo da parte di quanti si professano discepoli del Signore. La carità torna ad essere, in ogni sua forma e direzione, l'asse portante della diaconia e il cuore pulsante del nostro ministero nella Chiesa e fra la gente: l'accoglienza pronta ed instancabile dell'umanità sofferente e degli emarginati di ogni specie, il loro sensibile accompagnamento, l'impegno convinto e competente per restituire ad essi la dignità propria di ogni persona con la salvaguardia e la promozione dei loro fondamentali diritti, il servizio da rendere soprattutto attraverso iniziative e strutture stabili che vadano oltre l'emergenza e l'occasionalità... sono questi gli atteggiamenti da incarnare e le scelte da operare per dare concretezza e trasparenza alla carità ecclesiale. A noi diaconi è chiesto primariamente, oggi, un impegno di fedeltà nel continuare a testimoniare - con le parole eloquenti del nostro vissuto umano e ministeriale - che il Signore Gesù è morto e risorto e che lo Spirito opera nella storia per l'unità, la pace, la salvezza e la gioia piena degli uomini.
Nel bel film "Uomini di Dio", basato su una vicenda verificatasi nel 1996 in Algeria, si racconta di alcuni monaci cistercensi di origine francese, uccisi in un attacco terroristico scatenato dagli integralisti islamici nella regione. Uno di loro, fratel Paolo, pochi giorni prima di essere ucciso, scriveva: «Che cosa resterà della Chiesa in Algeria tra qualche mese? Della sua visibilità, delle sue strutture, delle persone che la compongono? Con tutta probabilità ben poco. Ma credo che il Vangelo è seminato e che il grano germoglierà. Lo Spirito lavora nel profondo del cuore degli uomini. Continuiamo ad essere disponibili perché possa agire in noi per mezzo della preghiera e della presenza amabile accanto a tutti i nostri fratelli».
Mi piace chiudere idealmente la nostra riflessione con queste parole, che hanno il sapore profetico di una diaconia che è - di per sé - "martirio" nell'accezione letterale del termine, ossia "testimonianza" tanto più vera e credibile quanto più espressa con il dono estremo della vita. Possa il Signore aiutare le comunità cristiane e tutti noi, ciascuno per la parte che gli compete, ad accogliere, custodire e coltivare in profondità questa fede e questa consegna di noi stessi all'agire dello Spirito, così da rendere visibili e credibili a tutti le ragioni della nostra speranza.
Iniziava così il Concilio Vaticano II, annunciato appena tre anni prima da Giovanni XXIII ad un gruppo di cardinali attoniti, riuniti nella basilica di san Paolo fuori le mura. Tre anni di preparazione, con il partito della Curia - guidato dal capo dell'ex sant'Uffizio, il cardinale Alfredo Ottaviani - timoroso che il Concilio potesse sfuggire di mano e portare a discussioni che avrebbero mostrato al mondo una Chiesa divisa. Sull'altro fronte si schierava, invece, il partito riformatore - guidato dalle Chiese francesi e tedesche - deciso a cogliere i fermenti di un mondo nuovo che stava nascendo e con il quale i cattolici dovevano imparare a dialogare. Sulla scia di queste intuizioni profetiche di novità si ponevano alcune spinte che potremmo definire, ma solo per chiarirne la portata in termini di maturazione, "dal basso": il "movimento liturgico", che chiedeva una riforma dei riti riconducibili ancora al Concilio di Trento del XVI secolo; il "movimento biblico", che puntava a ridare fiduciosamente la Bibbia in mano ai fedeli per uno studio serio e una riscoperta personale; il "movimento ecumenico", che premeva per un'apertura e un dialogo con i fratelli delle Chiese separate. Tutti fermenti trasversali, che attraversavano le Chiese locali senza essere, per questo, estranei al vertice della Curia.
Giovanni XXIII, che nel frattempo aveva già scoperto di essere gravemente malato e sapeva che difficilmente avrebbe visto la fine del Concilio, preparò un discorso inaugurale (Gaudet Mater Ecclesia) che segnò uno dei momenti più alti del suo pontificato e, probabilmente, della Chiesa del Novecento. Il Papa rinunciava a fissare un predefinito ordine del giorno del Concilio, ma decideva di affidarlo totalmente alle mani dei padri conciliari. Non rinunciava a dare, però, delle preziose indicazioni di metodo, in perfetto "stile conciliare", che sarebbero rimaste una sintesi mirabile tra le istanze più conservatrici, legate al rispetto della tradizione della Chiesa (cui si sentiva più vicino lo stesso Roncalli), e le esigenze più riformatrici o "progressiste" già accennate sopra. Il "Papa buono" (capace di coniugare mirabilmente la semplicità delle origini contadine con sorprendenti qualità di diplomatico e di pastore) anzitutto condannava i profeti di sventura. L'incipit dell'allocuzione inaugurale fu scelto con cura: «Gaudet Mater Ecclesia» - «Gioisce la Madre Chiesa» - perché la Provvidenza l'aveva guidata verso l'evento, tanto atteso e desiderato, dell'apertura di un nuovo Concilio Ecumenico, il Vaticano II.
Il Pontefice volle che l'assemblea si aprisse nel segno della gioia, non in quello della paura e della preoccupazione, nonostante quelli fossero giorni di trepidazione per l'incubo nucleare che gravava, ormai in maniera sempre più angosciosa, sull'umanità intera. L'incipit rinviava ad uno dei passaggi centrali dell'allocuzione, che avrebbe colpito molto l'attenzione dei mass media e dell'opinione pubblica per il suo slancio di positività e speranza: il Papa criticava i «profeti di sventura», cioè coloro che «annunziano sempre il peggio, quasi incombesse la fine del mondo». Sono quelli - dice Papa Giovanni - che «nelle attuali condizioni della società umana non sono capaci di vedere altro che rovine e guai; vanno dicendo che i nostri tempi, se si confrontano con i secoli passati, risultano del tutto peggiori; e arrivano fino al punto di comportarsi come se non avessero nulla da imparare dalla storia, che è maestra di vita».
Ho voluto citare letteralmente le parole del Papa per la forza con la quale esse risuonano, ancora oggi, per tanti cristiani - anche noi, forse - che appaiono come vinti dalla sconfitta e ripiegati sulla stessa tristezza dei discepoli di Emmaus che, prima di riconoscere il Signore, lamentavano: "Noi speravamo... ". Ma torniamo agli intendimenti di Giovanni XXIII. Sgombrato così il campo da dubbi o timori ingiustificati, egli annuncia che il Vaticano II non sarà - come molti potevano aspettarsi - un Concilio di condanna del Comunismo o di altre ideologie del mondo contemporaneo, ma si connoterà come un Concilio pastorale con tutte le conseguenze che una tale caratterizzazione implica per la vita ecclesiale, e dovrà saper coniugare il necessario rinnovamento della Chiesa con il rispetto della Tradizione.
Si aprono così tre anni intensi (quattro sessioni di lavori) con in mezzo la straordinaria enciclica Pacem in terris del Papa (a pochi mesi dalla sua morte), il conclave per l'elezione di Paolo VI, il viaggio del nuovo Papa in Palestina e l'abbraccio con il patriarca ortodosso Atenagora, seguito dalla visita a New York e dal Discorso alle Nazioni Unite. Anni segnati da un'escalation nella guerra fredda, che aveva portato lo stesso Roncalli a dover intervenire a fine ottobre 1962 (appena iniziato il Concilio) per sventare la crisi dei missili a Cuba. I padri conciliari approveranno in tutto quattro Costituzioni apostoliche (i documenti più importanti sulla Liturgia, la Chiesa, la Bibbia e il rapporto con il mondo), nove Decreti e tre Dichiarazioni.
Non viene solo modificata la liturgia (anche se la riforma vera e propria dei riti, con il definitivo passaggio alla lingua "volgare" al posto del latino sarà opera di papa Paolo VI con il liturgista Annibale Bugnini), ma anche il concetto di Chiesa e di gerarchia, il ruolo dei laici, la collegialità episcopale, l'approccio alla libertà religiosa, l'apertura al dialogo ecumenico, il rapporto con gli Ebrei e, lo cito per ultimo ma lo ritengo ovviamente importante al pari di altre innovazioni, il ripristino del diaconato nella forma permanente. E prima di inoltrarmi nella riflessione sul rapporto tra sviluppo del diaconato e dettato conciliare a 50 anni dal Concilio stesso, credo sia opportuno sottolineare che, se si vuole non solo commemorarlo, ma renderlo vitale e presente nella vita della Chiesa, occorre in primo luogo leggerne i testi. È un atto necessario, soprattutto a distanza di mezzo secolo, per poterne comprendere il significato, riscoprire il valore, verificare quali indicazioni siano state attuate e quali, invece, siano rimaste appena abbozzate o - in qualche caso - del tutto disattese.
Abbiamo tutti consapevolezza, d'altra parte, di come molti temi restino ancora in sospeso e siano oggetto di discussione dentro la comunità dei credenti così come fuori di essa: il celibato dei preti, il ruolo dei divorziati nella Chiesa, il ricorso alla contraccezione e il controllo delle nascite, il ruolo della donna. Tutti temi che Papa Francesco ha fatto presente durante l'intervista che i giornalisti hanno realizzato con lui sull'aereo di ritorno dal Brasile. Riprendere "la bussola del Concilio", come affermava Benedetto XVI, deve essere per noi cristiani l'atto coraggioso e insieme consolante per orientarci nel mare agitato del mondo di oggi.
Con Papa Francesco, tutti dovremmo domandarci se «dopo cinquant'anni, abbiamo fatto tutto quello che ci ha detto lo Spirito Santo nel Concilio», ponendoci a livello sia individuale che comunitario «in quella continuità della crescita della Chiesa» inaugurata dalla primavera dell'evento conciliare. E dalla risposta che il Papa stesso dà dobbiamo sentirci tutti interpellati, visto che la non piena attuazione del Concilio dipende in modo evidente dalla nostra «resistenza» al rinnovamento: «Per dirlo chiaramente - ha affermato il Santo Padre - lo Spirito Santo ci dà fastidio. Perché ci muove, ci fa camminare, spinge la Chiesa ad andare avanti. ... Non vogliamo cambiare. Di più: ci sono voci che vogliono andare indietro. Questo si chiama essere testardi, questo si chiama voler addomesticare lo Spirito Santo, questo si chiama diventare stolti e lenti di cuore».
La situazione oggi
Provo a descrivere gli aspetti che ritengo costituiscano, oggi, la questione del diaconato. Vorrei evidenziare anzitutto alcuni punti critici, per poi indicare anche le ragioni della speranza. È in primo luogo indispensabile ed urgente interrogarci sul servizio che, come diaconi, abbiamo offerto alla comunità cristiana e al mondo in questi anni postconciliari: questo ci consentirà di capire in che misura abbiamo contribuito ad allargare l'orizzonte della diaconia di Cristo all'intera vita e missione della Chiesa in questo nostro tempo.
Capire, cioè, se attraverso il nostro agire è maturata nelle nostre comunità una "coscienza diaconale", ovvero la consapevolezza di quella comunionalità - inaugurata e fortemente voluta dal Concilio - che si traduce nella partecipazione e nella corresponsabilità a tutti i livelli e nelle sue diverse forme. Certamente una manifestazione visibile e concreta della Chiesa come comunione - la più alta e autentica - è la celebrazione eucaristica. Lì la Chiesa viene compresa (o almeno così dovrebbe essere, ma non è sempre scontato) non come privilegio né come potere, ma come una sfida e un compito. È una sfida ad essere sacramento di comunione nel nostro mondo così frammentato e diviso. Tutti siamo chiamati al servizio nella comunione. Nella fraterna «koinonìa» - ecco dove sta il compito - si apprende e si esercita la «diakonìa» cristiana, in quel servizio della carità che nella Chiesa occupa sempre e da sempre il primo posto. Questa prospettiva apre la strada a varie ipotesi di servizio, a partire dal diacono promotore della carità orientato verso i più poveri, sia che si tratti di povertà economica, morale o spirituale. Tale orientamento implica, però, una scelta impegnativa per l'intera vita del diacono, una scelta preferenziale che si deve tradurre in scelta di "povertà effettiva".
Su questa frontiera - difficile, ma ineludibile - si consuma, oggi, per noi diaconi la sfida della missione, e si tratta di un programma di vita "costoso" in termini di responsabilità da assumere, di percorsi da intraprendere, conseguenze da affrontare: per servire il Vangelo e i poveri, dobbiamo infatti "uscire dal tempio" e diventare uomini della strada che vanno da Gerusalemme a Gerico, ovvero da Gerusalemme ad Emmaus, per farei buon Samaritano, compagni di viaggio di chi è tormentato dal dubbio, dall'insicurezza del futuro, dalla difficoltà a trovare lavoro, dalla paura di perderlo e di non poter provvedere alla propria famiglia, dall'arroganza della minaccia mafiosa di fronte alla quale si resta il più delle volte soli... dai molti interrogativi riguardanti la verità di Dio operante nella storia dell'uomo attraverso segni visibili e scelte concrete, e il senso di un presente da migliorare e di un futuro da progettare e costruire insieme.
La caratteristica del Cristianesimo - lo sappiamo - è l'incarnazione e l'incarnazione è un «mistero di solidarietà, di compagnia, di comunione». È questa una forte provocazione per evitare, come dicevo prima, che il diacono si chiuda nel recinto del sacro, ed aiutarlo - al contrario - a farsi ministro di una Chiesa che è chiamata, come amava ripetere Giovanni Paolo II, a trovare se stessa "fuori" di se stessa. Questa dovuta e necessaria conversione verso i poveri collocherà i diaconi nel loro giusto contesto ecclesiale e ministeriale, rendendo finalmente visibile lo stretto legame della mensa del corpo di Cristo con la mensa dei poveri, e dell'eucaristia con la carità.
Questa assimilazione sacramentale a Cristo non è un fatto soggettivo e impalpabile che accade nel vuoto della storia, ma un evento che si compie nella realtà concreta di una determinata Chiesa locale, e in assenza di questo respiro ecclesiale, le opere di carità rischiano di ridursi ad espedienti organizzativi rivolti a lenire i bisogni solo materiali e, comunque, momentanei dei poveri. È un aspetto, questo, che ci deve costantemente interpellare e trovare vigilanti sul nostro stesso operare, perché, senza crescita ecclesiale, il nostro servizio di diaconi rischia di essere frainteso diventando un sorta di impegno "su commissione" destinato a risolvere, seguendo scelte ispirate o dettate dall'urgenza, i bisogni contingenti e i problemi occasionali e logistici delle singole Chiese. Come, purtroppo, spesse volte, è accaduto. La diaconia secondo il modello conciliare, invece, è una riproposizione del "comandamento nuovo" consegnato da Cristo ai suoi discepoli, e in tale contesto la testimonianza del servizio diaconale è destinata a diventare il segno storico, profezia e, insieme, impegno concreto. Se per i laici l'impegno nel mondo è un campo d'azione oltre che possibile anche doveroso, più articolata e complessa si presenta la questione per i diaconi, i quali - come segno dell'amore di Cristo soprattutto per i poveri e i bisognosi - sono costantemente chiamati a preoccuparsi del senso della vita dell'uomo, in qualsiasi condizione egli venga a trovarsi.
La dimensione sociale della vocazione diaconale
Credo si possa affermare che la dimensione secolare della vocazione dei diaconi è vissuta in modo ancora troppo debole. Tale vocazione, cioè, sembra essere giocata troppo sulla dimensione pastorale e molto meno su quella secolare, che risulta troppe volte poco vissuta, poco capita, poco valorizzata. Non appare ancora sufficientemente chiaro, infatti, che la presenza dei diaconi nella famiglia, nella scuola, nelle professioni, nella politica, nella cultura, non si limita a una questione privata, giocando solo sulla coerenza della testimonianza personale, ma costituisce un modo peculiare di contribuire alla missione della Chiesa. Questa comprensione del valore missionario della vocazione diaconale vissuta nel mondo forse è troppo poco presente nella coscienza delle nostre comunità e nella stessa coscienza dei diaconi. Proviamo a puntualizzare meglio la problematica di questa dimensione:
1. Chiediamoci quanto conta, ad esempio, per le nostre comunità il fatto che dei diaconi cerchino di vivere intensamente la loro vocazione nella "dispersione" della vita quotidiana, portandovi però la rilevanza ecclesiale della loro testimonianza di ministri ordinati.
2. I diaconi non impegnati nella pastorale rischiano di essere invisibili, sono percepiti come presenze non decisive per la realizzazione della vita nella comunità. Chiaramente questo dipende anche dal fatto che il rapporto della Chiesa con il mondo - di cui la Chiesa è parte - è troppo debole.
3. Nelle nostre comunità, soprattutto per i diaconi non coinvolti nella vita pastorale, sono scarse o non esistono le opportunità per esprimersi, per portare i propri problemi, le proprie domande, ma anche semplicemente il racconto del proprio vissuto.
4. Ancora, capita sovente che i diaconi non riescano a sperimentare percorsi di spiritualità che diano valore alla vita quotidiana, dalla quale evidentemente nessuno può estraniarsi o sentirsi disincarnato. Dobbiamo chiederei in proposito: fino a quando la spiritualità, anziché essere espressione originale di un cammino di fede che tenga insieme Vangelo e vita quotidiana, si accontenterà di indirizzarsi a segmenti parziali della persona (del diacono), quasi pensando che per essere fedeli al Vangelo bisogna necessariamente "uscire" dalla vita stessa?
Ma oltre a questi interrogativi, pur rilevanti per lo sviluppo del diaconato ai giorni nostri e nel prossimo futuro, ritengo importante nel contesto di questa riflessione individuarne altri che ci portino al cuore della questione in esame. Perché, dopo cinquant'anni, dobbiamo ancora interrogarci sulla presenza e sul ruolo ecclesiale e pastorale del diaconato? E ancora. Perché, come sembra, questa battuta d'arresto nel processo di crescita di consapevolezza di soggettività che aveva, invece, caratterizzato gli anni successivi al Concilio? Proviamo a rispondere sulla base dei dati che ci vengono da un'analisi attenta della realtà ecclesiale e dei mutamenti sociali. Credo si possa dire anzitutto che:
A. La Chiesa e le singole comunità hanno affrontato i rapidi cambiamenti intervenuti in questi anni in modo timoroso, quasi difensivo. Il rapporto con il mondo si è dunque fatto via via più debole, rendendo quasi superflua quella delicata azione di ponte che caratterizza l'essere e l'operare del diacono.
B. A volte si è assistito, in modo quasi rassegnato o passivo, allo spegnersi del dialogo intraecclesiale, e questo ha impoverito e debilitato la comunicazione nella comunità cristiana.
C. La pastorale ha dedicato molte delle proprie energie ad un'azione di riorganizzazione; è divenuta sempre più specialistica e ricca di iniziative, ma forse meno di pensiero e di corresponsabilità.
D. Forse, inoltre, non si è avuta la determinazione di ripensare seriamente l'impostazione formativa dei candidati al diaconato e dei diaconi già ordinati. Quali sono, allora, i percorsi possibili? È chiaro che prendere atto degli aspetti problematici è solo il punto di partenza per una riflessione che porti all'individuazione di soluzioni e scelte di impegno.
Ci chiediamo come dare un futuro significativo ad una vocazione di cui il Concilio ha riconosciuto l'importanza, ma che stenta ad esprimersi con vivace consapevolezza nella Chiesa, soprattutto nel quotidiano. Si tratta di una questione che riguarda la comunità nel suo insieme, e non qualcuno in particolare. Essa interpella vescovi, preti, religiosi, laici: quei laici, in particolare, che mostrano maggiore sensibilità e coinvolgimento nella vita attiva della comunità. Qualcuno potrebbe pensare che la diminuzione delle vocazioni sacerdotali rende evidente come solo un incremento di responsabilità dei diaconi potrà consentire alle comunità cristiane di continuare a mantenere vivi i luoghi di preghiera, di ascolto della Parola, di educazione alla fede. Penso, però, che questa non sia una lettura corretta della realtà. Paradossalmente, la dinamica che tende a portare i diaconi all'interno dell'azione pastorale, almeno così come è attualmente impostata, sembra contribuire più ad accelerare l'invecchiamento delle comunità che a promuoverne il ringiovanimento e l'apertura.
Vi è poi la questione della testimonianza dei diaconi nella società civile, una testimonianza guardata a volte con diffidenza o con superficiale curiosità, ma non per questo non attesa da molti - anche non cristiani - o non necessaria. Anzi, la qualità della vita cristiana ordinaria dei diaconi costituisce un irrinunciabile terreno per l'incontro tra nuovi bisogni e proposte di percorsi possibili da condividere per rispondere adeguatamente al fenomeno della progressiva laicizzazione della società italiana e alle esigenze della nuova evangelizzazione. Ed è, questo, un processo che non può non interessare e coinvolgere tutta la comunità dei credenti, nella quale i diaconi sono chiamati - secondo lo spirito del Concilio - a svolgere un ruolo da protagonisti. Ma tutto questo necessita di una Chiesa interessata al mondo, impegnata a riscoprire oggi l'orientamento conciliare della Gaudium et spes, capace di fidarsi dei diaconi e di valorizzarne la competenza. Nasce qui, dunque, una nuova soggettività del diaconato, con i diaconi che diventano consapevolmente e responsabilmente - oltre che fedelmente al mandato ricevuto - gli artefici principali della valorizzazione della loro vocazione. È questo un compito davanti al quale ognuno di noi si sente certamente inadeguato, tanto esso è sproporzionato rispetto alla concreta possibilità che ciascuno può avere di modificare gli assetti delle comunità cristiane odierne.
La connotazione ecclesiale
Si tratta di un compito da affidare non a singoli individui, ma piuttosto a un diaconato cosciente e maturo, che recuperi il senso dell'essere insieme nel condividere la comune vocazione e l'efficace esercizio di essa. A poco, tra l'altro, varrebbe il recupero dei contenuti positivi del diaconato se esso si riducesse ad un fatto individuale e privato. Deve diventare, al contrario, un fatto ecclesiale per connotazione caratteriale e compiti da esprimere, ma perché ciò sia possibile è richiesta una revisione del rapporto tra la comunità cristiana e i diaconi che di essa fanno parte. Ritorna, qui, l'importanza di riscoprire il dialogo e l'ascolto, di individuare nuovi luoghi di comunicazione intraecclesiale, di spendersi in un'organizzazione meno rigida della pastorale, di porre una nuova attenzione all'impegno culturale e spirituale... di intraprendere percorsi che potranno aprire ai diaconi nuove possibilità di relazione con le loro comunità.
La rilevanza ecclesiale dei diaconi non può passare a tutti i costi dall'inserimento nell'organizzazione pastorale, ma deve implicare il coinvolgimento diretto in essa dei diaconi stessi. Occorre, cioè, che i diaconi siano realmente riconosciuti come "essenziali alla Chiesa" (cf. Sant'Ignazio di Antiochia). Sarà, però, compito della comunità cristiana ripensarsi in modo da far avvertire loro la preziosità della esperienza diaconale per l'attuarsi della missione della Chiesa, accompagnando il loro servizio con la preghiera e l'ascolto. Questo dialogo potrà rivelarsi prezioso e contribuirà a (ri)creare nella comunità un'attenzione e una sensibilità originali.
Ci viene qui in aiuto il Sinodo sulla nuova evangelizzazione. Nell'Instrumentum laboris veniva formulata questa domanda: «i diaconi, nell'evangelizzare, hanno trovato la loro identità?». Rispondere non è semplice né automatico. Esiste oggi, tra le persone, se non una sorta di ateismo di ritorno, sicuramente un sentimento di estraneità e di lontananza della coscienza dalla vita ecclesiale e dalle sue proposte. L'interesse per la Chiesa - lo vediamo quotidianamente - torna prepotentemente a farsi vivo soprattutto quando scoppia qualche scandalo. Per contro, l'affermarsi nella collettività sociale di una visione della vita lontana dai valori del Cristianesimo fa nascere nella comunità cristiana e nei singoli credenti una crescente insicurezza ed il timore di essere inadeguati, indeboliti nelle proprie convinzioni, incapaci di portare avanti la propria missione, smarriti rispetto alle scelte da compiere.
Si tratta - come è stato delineato da osservatori qualificati - di una paura tanto più insidiosa quanto più mascherata dietro razionalizzazioni che la fanno apparire altro, che spingono a far risalire il proprio smarrimento al mondo esterno. Ora, chi ha paura tende a difendersi, e forse questo è quanto stanno facendo tante comunità cristiane e tanti diaconi chiusi nel rassicurante "microcosmo" delle loro attività delle loro pregevoli iniziative, dei loro lungimiranti progetti, illudendosi che questo possa, da solo, mutare il corso delle cose. Intanto, il numero di chi frequenta l'Eucaristia domenicale diminuisce, ma soprattutto dalle celebrazioni sono spariti o quasi i giovani e, dopo la fase di preparazione alla Prima Comunione, anche i ragazzi. È significativo ricordare, di fronte a tali difficoltà che attraversano l'odierna vita ecclesiale, che nel documento Evangelizzazione e testimonianza della carità veniva dichiarata esplicitamente l'intenzione dei vescovi di offrire per gli anni seguenti speciale attenzione ai diaconi quali «segno della Chiesa che serve in mezzo ai fratelli» (n. 26): ad essi veniva inoltre affidato un particolare servizio per la pastorale giovanile, consegna - questa - che richiama direttamente la necessità di un agire oltre che ispirato ed evangelicamente sapiente anche qualificato e competente, per il quale spesso non basta la semplice "buona volontà" del singolo ministro.
Un'altra questione irrisolta e sempre presente nel dibattito ecclesiale e nel confronto con il tessuto sociale riguarda la considerazione e il ruolo delle donne. Si tratta di una questione che interpella la Chiesa e i diaconi su diversi fronti. Ad extra, essa si pone in attento ascolto della più generale crisi di fede che attraversa la compagine sociale e condiziona fortemente il ruolo della donna - specie quello educativo - nelle sue diverse situazioni di vita, dall'impegno familiare e professionale fino alle scelte più personali dell'impegno civile e politico.
Ad intra, la questione si apre su due direzioni diverse, ma tra loro relazionate: quella delle spose dei diaconi, alle quali è chiesto di esprimere il consenso all'atto dell'ordinazione proprio per l'insostituibile ruolo di sostegno e di accompagnamento che esse sono chiamate a svolgere accanto al marito, il che richiede un'adesione consapevole e convinta al cambiamento che l'ordinazione stessa comporta nella vita della coppia e della famiglia; e quella della presenza femminile all'interno della comunità cristiana, nel contesto più ampio di una ministerialità con la quale il diaconato deve saper dialogare e interagire in termini di valorizzazione dei molteplici carismi che lo Spirito incessantemente suscita nella Chiesa e di promozione dei ruoli di ciascuno secondo la peculiarità del proprio essere e la particolarità del dono ricevuto.
La paura del cambiamento e dell'inadeguatezza rispetto alle domande del "nuovo" - come abbiamo già accennato - genera atteggiamenti di autodifesa e di allontanamento, e tarpa le ali agli slanci di novità suggeriti dallo Spirito nel suo incessante sospingerci verso orizzonti che intravediamo, ma non conosciamo appieno. Significativamente, già nel '72 in proposito il cardinale Kasper affermava: «Si ha ora di nuovo paura del rischio che libertà e futuro comportano e ci si è votati in larga parte ad un'opera di conservazione e di restaurazione. Tuttavia se la Chiesa diventa l'asilo di quanti cercano riparo e riposo nel passato, non deve meravigliarci se i giovani le voltano le spalle». Ora, se il rinnovamento genera sempre trepidazione e timori spesso non chiaramente fondati, resta comunque connaturato alla nostra coscienza di discepoli "annunciatori e costruttori del Regno" il dovere gioioso di guardare al futuro: è compito di ogni cristiano, ma ancor più è la sfida che attende il diacono quale "apostolo" di novità e "messaggero" di speranza in mezzo ai fratelli. A cinquant'anni dal Concilio, la vocazione diaconale ha molto da dare in termini di ricchezza non solo pastorale, ma anche spirituale, testimoniale e culturale, e le sue potenzialità ancora inespresse ci interpellano e ci inducono al tempo stesso a sperare, riflettere e operare, efficacemente corroborati dall'esperienza dei decenni trascorsi e santamente provocati dalle difficoltà della realtà attuale.
Il coraggio di ripartire
Sono molti i percorsi che si aprono davanti ai diaconi e alle comunità che vogliono mettersi decisamente sulla strada dell'attuazione del Concilio oggi. Occorre ri-appassionarsi, osare, inventare, superare forme di ripiegamento narcisistico, pigro, che non generano altro che stanchezza. Perché i diaconi suscitino questa nuova volontà di impegno creativo è necessario che essi si sentano partecipi di una comunità nella quale vengono riconosciuti e avvertono che la loro presenza è desiderata ed apprezzata. Responsabilità ed appartenenza si alimentano reciprocamente.
Il ruolo della Comunità
Penso che la Comunità del diaconato in Italia possa candidarsi, ancora oggi, ad assumere questo ruolo, rischiando in proprio e al tempo stesso essendo disponibile ad offrire alla Chiesa il frutto del suo lungo e fecondo sperimentare. Nel realizzare questo impegno, essa ha davvero tutte le carte in regola, per la sua ricca storia, la sua multiforme esperienza, la sua riconosciuta sensibilità, la sua tradizione maturata nel tempo.
Le sfide difficili che sono state presentate potrebbero indurci ad una visione intristita e sfiduciata delle possibilità che il diaconato ha di operare efficacemente, secondo la grazia che gli è stata donata sacramentai mente, nella Chiesa e nel mondo. Ma è proprio la consapevolezza della difficoltà e dell'impegno col quale queste sfide vanno affrontate che rende, invece, più forte la nostra speranza. Sappiamo - e non potrebbe essere altrimenti - che Dio rende possibile anche l'impossibile. E se il compito che il diaconato ha di fronte a sé è quasi al di là delle possibilità umane, significa che il protagonista nel futuro della vita del diaconato nella Chiesa sarà più che mai lo Spirito, e questo è - di per sé - la garanzia più grande e l'incoraggiamento migliore a correre sulla strada per raggiungere, come Filippo, "il carro degli uomini" ed incontrare nel dialogo le loro ansie e le loro attese di salvezza.
Quali dunque, i nodi ancora da sciogliere, le prospettive e le speranze? In parte tutti e tre questi elementi si sono gradualmente affacciati dai passaggi della riflessione fin qui condotta. Innanzitutto, la peculiarità specifica del diaconato rispetto alla ministerialità presbiterale da un lato e a quella laicale dall'altro. Sappiamo che le funzioni del diacono partecipano alla natura specifica dei tria munera Christi propri di tutto il popolo di Dio, ma esse sono esercitate dal diacono con il carattere specifico del ministero ordinato e sotto la specificità della categoria del servizio. Anche l'attività laicale professionale o di lavoro ha un significato diverso da quella del laico, proprio per il suo collegamento con il ministero. Il Direttorio del '98 chiede che, già al momento dell'ordinazione, si affianchi sempre all'evento sacramentale un'investitura pastorale specifica, che metta in risalto le funzioni proprie del diacono così che queste non vengano viste, come ammoniscono i vescovi italiani, quali elemento sostitutivo dell'impegno di altri. Proprio per questo la CEI, nel documento del '93, insisteva sulla dimensione missionaria sia ordinaria sia ad gentes. Si ha davanti, come è già emerso più volte, un lavoro di evangelizzazione capillare che vede il diacono come promotore del senso comunitario e dello spirito familiare del popolo di Dio: era questo il progetto degli anni Settanta della Chiesa italiana, in cui si prefigurava la possibilità di una articolazione delle grandi parrocchie in "comunità minori" animate da un diacono.
In questa prospettiva si può anche comprendere che la parrocchia, di per sé, non è l'ambito proprio del ministero diaconale se non in via eccezionale e/o quindi transitoria. Questo anche per evitare che il diacono venga considerato una sorte di "vice-parroco" o di ministro dimezzato.
Oltre al dialogo, di cui abbiamo già ampiamente detto, è possibile percorrere altre "vie" privilegiate della comunicazione della fede e, conseguentemente della missione:
• quella, anzitutto, della "capillarità", cioè dell'annuncio della parola di Dio in piccoli gruppi o comunità inferiori e della penetrazione evangelica negli ambienti di vita e di lavoro (famiglie, caseggiati, borghi dispersi, quartieri a rischio...) dove è più facile realizzare il dialogo, la circolazione della parola, l'adesione del messaggio alle situazioni.
Il favore che stanno riacquisendo un po' dappertutto i "Centri di ascolto", specie nei tempi forti dell'anno liturgico, in occasione delle missioni popolari o della visita pastorale del vescovo o, ancora, in altre analoghe circostanze, è una conferma di quanto profonda sia la domanda di un metodo di evangelizzazione personalizzato, capace di superare la persistente tentazione di esaurire la pastorale nell'ambito del culto e delle devozioni, e quindi destinato a portare frutti di rinnovamento nella fede e nella vita cristiana.
• quella della testimonianza personale e soprattutto comunitaria (cf. Evangelii nuntiandi 21,41) della misericordia e della carità, di fronte alle antiche e nuove povertà indotte dalla mentalità e dal costume consumistici ed edonistici del nostro tempo. È, questa, una via privilegiata in quanto capace di opporsi con una forza originale e di rompente sia ad un pluralismo generico e a volte qualunquista (una sorta di contenitore dove le idealità si mescolano restando, però, estranee le une alle altre) sia all'indifferenza che pervade il clima culturale.
I Vescovi italiani ce lo hanno ricordato nel documento Evangelizzazione e testimonianza della carità degli anni '90, ribadendo che proprio la carità è uno dei segni più facilmente decifrabili da parte di "coloro che sono fuori" della Chiesa o al margine di essa e, insieme, una delle istanze più avvertite per rendere più credibile il Vangelo da parte di quanti si professano discepoli del Signore. La carità torna ad essere, in ogni sua forma e direzione, l'asse portante della diaconia e il cuore pulsante del nostro ministero nella Chiesa e fra la gente: l'accoglienza pronta ed instancabile dell'umanità sofferente e degli emarginati di ogni specie, il loro sensibile accompagnamento, l'impegno convinto e competente per restituire ad essi la dignità propria di ogni persona con la salvaguardia e la promozione dei loro fondamentali diritti, il servizio da rendere soprattutto attraverso iniziative e strutture stabili che vadano oltre l'emergenza e l'occasionalità... sono questi gli atteggiamenti da incarnare e le scelte da operare per dare concretezza e trasparenza alla carità ecclesiale. A noi diaconi è chiesto primariamente, oggi, un impegno di fedeltà nel continuare a testimoniare - con le parole eloquenti del nostro vissuto umano e ministeriale - che il Signore Gesù è morto e risorto e che lo Spirito opera nella storia per l'unità, la pace, la salvezza e la gioia piena degli uomini.
Nel bel film "Uomini di Dio", basato su una vicenda verificatasi nel 1996 in Algeria, si racconta di alcuni monaci cistercensi di origine francese, uccisi in un attacco terroristico scatenato dagli integralisti islamici nella regione. Uno di loro, fratel Paolo, pochi giorni prima di essere ucciso, scriveva: «Che cosa resterà della Chiesa in Algeria tra qualche mese? Della sua visibilità, delle sue strutture, delle persone che la compongono? Con tutta probabilità ben poco. Ma credo che il Vangelo è seminato e che il grano germoglierà. Lo Spirito lavora nel profondo del cuore degli uomini. Continuiamo ad essere disponibili perché possa agire in noi per mezzo della preghiera e della presenza amabile accanto a tutti i nostri fratelli».
Mi piace chiudere idealmente la nostra riflessione con queste parole, che hanno il sapore profetico di una diaconia che è - di per sé - "martirio" nell'accezione letterale del termine, ossia "testimonianza" tanto più vera e credibile quanto più espressa con il dono estremo della vita. Possa il Signore aiutare le comunità cristiane e tutti noi, ciascuno per la parte che gli compete, ad accogliere, custodire e coltivare in profondità questa fede e questa consegna di noi stessi all'agire dello Spirito, così da rendere visibili e credibili a tutti le ragioni della nostra speranza.
(E. Petrolino è presidente della Comunità del Diaconato in Italia)
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