ANNO A - 13 aprile 2014
Domenica delle Palme
Is 50,4-7
Fil 2,6-11
Mt 26,14-27,66
Domenica delle Palme
Is 50,4-7
Fil 2,6-11
Mt 26,14-27,66
IL MESSIA ENTRA
NELLA CITTÀ SANTA
NELLA CITTÀ SANTA
Il contrasto tra luce e tenebre, tra esaltazione e umiliazione, domina la liturgia di questa domenica, molto partecipata a livello popolare. La prima componente, quella della vittoria, espressa attraverso la processione delle palme e degli ulivi, si rifà all'ingresso messianico di Gesù in Gerusalemme, acclamato dalle folle osannanti. Cavalca un'asina e un puledro, figlio di una bestia da soma, animali pacifici. È disarmato e viene esaltato come il figlio di Davide, come colui che viene nel nome del Signore: acclamazione solitamente cantata in ogni eucaristia, come parte del Santo, subito dopo il prefazio. L' "Osanna", che letteralmente significa "salvaci!", diventa un'acclamazione, quasi a dire: «Benedetto tu, Cristo, che vieni nel nome del Signore: salvaci, donaci prosperità!». Non va trascurato il valore di simile acclamazione proprio in prospettiva della definitività della storia, allorché il Cristo verrà sulle nubi del cielo, rivestito di splendore.
Per giungere a questo momento glorioso, bisogna però attraversare la passione: è quanto si implora nella pregnante colletta: «Fa' che abbiamo sempre presente il grande insegnamento della sua passione (di per sé: patientiae ipsius habere documenta), per partecipare alla gloria della risurrezione". La lunga narrazione della passione di Cristo (la più lunga delle quattro) è davvero un "documento" di pazienza di Cristo, articolato in vari quadri. Di per sé sarebbe più che sufficiente, in una proclamazione pacata e meditativa, a condensare l'intera liturgia della Parola, che abbraccia pure il terzo canto del Servo di Isaia e il brano della lettera ai Filippesi con il celebre inno cristologico. Non dovrebbe stonare qualche sottolineatura al racconto, per cogliere soltanto alcune indicazioni per un'omelia che, data la circostanza, non potrà che essere all'insegna dell'assoluta brevità.
Anzitutto è bene evidenziare la totale fiducia di Cristo nel Padre, anche nel momento dell'apparente abbandono, riassunto nel grido salmico: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». L'orante del salmo non tenta di far valere la sua innocenza per far decidere Dio a intervenire in nome della giustizia: «Malgrado i suoi dolori e le sue grida - commenta argutamente uno studioso - quando il suo corpo si sfascia e il suo spirito agonizza, una pace profonda regna nel fondo della sua anima. Geme. Si torce, urla la sua sofferenza; ma ritiene inutile e irriverente il voler placare il Dio buono e giusto se non attraverso la semplice esposizione della sua miseria: essa è il solo motivo sufficiente della supplica. Il paziente vive un dramma, non ha niente dell'eroe di un melodramma» (L. Jacquet). Fiducia che traspare anche nel Getsemani, allorché Gesù prega in solitudine, mentre i suoi discepoli dormono: «Padre mio, se è possibile, passi via da me questo calice! Però non come voglio io, ma come vuoi tu!».
Di fronte a simile coraggio risalta il molteplice cedimento dei discepoli, che Matteo evidenzia in tono quasi canzonatorio. Come quando, al Getsemani, dopo aver già segnalato due volte che dormivano, perché i loro occhi si erano fatti pesanti, conclude lapidariamente: «Li lasciò». E svergogna la tentazione della spada, a cui uno dei discepoli aveva ceduto staccando un orecchio a un servo del sommo sacerdote: «Rimetti la tua spada al suo posto, perché tutti quelli che prendono la spada, di spada moriranno». E, a ulteriore convalida, fa appello alle dodici (e più) legioni di angeli, che il Padre metterebbe a sua disposizione! Si potrebbe continuare a collezionare, nella galleria dei personaggi, altri episodi, tra cui quello arcinoto di Pietro.
Ma, forse, è bene sottolineare che in Matteo compaiono pure personaggi, per così dire "minori", che rispondono con generosità e coraggio all'arduo compito di testimoniare il Maestro anche nei momenti cruciali della sua passione. Si possono annoverare tra costoro Giuseppe d'Arimatea, che depone il Cristo nel suo sepolcro nuovo. E, ancora, la moglie stessa di Pilato, che manda a dire a suo marito di ritenere giusto quell'uomo, Gesù, e di essere stata molto turbata in sogno a causa sua. Avvertimento che si rivela inutile ai fini della soluzione della vicenda, tuttavia evidenzia ancora meglio il fermo convincimento, pure del governatore, di avere davanti uno che gli era stato consegnato per invidia. In ogni caso cerca fino all'ultimo, con il proverbiale gesto della lavanda delle mani, di scrollarsi di dosso simile imputazione.
La storia, pure della Chiesa, è ancora costellata da simili personaggi che, con la loro silenziosa presenza, concretizzano quell'andare contro corrente, di cui si ha così grande necessità, per conferire un volto nuovo all'umanità.
Certo, la narrazione culmina con la professione di fede del centurione sotto la croce, che proclama la vera identità di Cristo nel momento di massima abiezione umana. È lì che il Padre interverrà, quando persino le guardie saranno poste a custodia della tomba, per garantire che non possa avvenire neppure il tra fugamento del suo corpo. Tutto sembra deporre a favore della sconfitta: eppure è in questa situazione di "scacco matto" che capiterà l'imprevedibile, quello che nessuno si attende, ma che solo la volontà di Dio può operare, per ridare speranza al mondo.
Per giungere a questo momento glorioso, bisogna però attraversare la passione: è quanto si implora nella pregnante colletta: «Fa' che abbiamo sempre presente il grande insegnamento della sua passione (di per sé: patientiae ipsius habere documenta), per partecipare alla gloria della risurrezione". La lunga narrazione della passione di Cristo (la più lunga delle quattro) è davvero un "documento" di pazienza di Cristo, articolato in vari quadri. Di per sé sarebbe più che sufficiente, in una proclamazione pacata e meditativa, a condensare l'intera liturgia della Parola, che abbraccia pure il terzo canto del Servo di Isaia e il brano della lettera ai Filippesi con il celebre inno cristologico. Non dovrebbe stonare qualche sottolineatura al racconto, per cogliere soltanto alcune indicazioni per un'omelia che, data la circostanza, non potrà che essere all'insegna dell'assoluta brevità.
Anzitutto è bene evidenziare la totale fiducia di Cristo nel Padre, anche nel momento dell'apparente abbandono, riassunto nel grido salmico: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». L'orante del salmo non tenta di far valere la sua innocenza per far decidere Dio a intervenire in nome della giustizia: «Malgrado i suoi dolori e le sue grida - commenta argutamente uno studioso - quando il suo corpo si sfascia e il suo spirito agonizza, una pace profonda regna nel fondo della sua anima. Geme. Si torce, urla la sua sofferenza; ma ritiene inutile e irriverente il voler placare il Dio buono e giusto se non attraverso la semplice esposizione della sua miseria: essa è il solo motivo sufficiente della supplica. Il paziente vive un dramma, non ha niente dell'eroe di un melodramma» (L. Jacquet). Fiducia che traspare anche nel Getsemani, allorché Gesù prega in solitudine, mentre i suoi discepoli dormono: «Padre mio, se è possibile, passi via da me questo calice! Però non come voglio io, ma come vuoi tu!».
Di fronte a simile coraggio risalta il molteplice cedimento dei discepoli, che Matteo evidenzia in tono quasi canzonatorio. Come quando, al Getsemani, dopo aver già segnalato due volte che dormivano, perché i loro occhi si erano fatti pesanti, conclude lapidariamente: «Li lasciò». E svergogna la tentazione della spada, a cui uno dei discepoli aveva ceduto staccando un orecchio a un servo del sommo sacerdote: «Rimetti la tua spada al suo posto, perché tutti quelli che prendono la spada, di spada moriranno». E, a ulteriore convalida, fa appello alle dodici (e più) legioni di angeli, che il Padre metterebbe a sua disposizione! Si potrebbe continuare a collezionare, nella galleria dei personaggi, altri episodi, tra cui quello arcinoto di Pietro.
Ma, forse, è bene sottolineare che in Matteo compaiono pure personaggi, per così dire "minori", che rispondono con generosità e coraggio all'arduo compito di testimoniare il Maestro anche nei momenti cruciali della sua passione. Si possono annoverare tra costoro Giuseppe d'Arimatea, che depone il Cristo nel suo sepolcro nuovo. E, ancora, la moglie stessa di Pilato, che manda a dire a suo marito di ritenere giusto quell'uomo, Gesù, e di essere stata molto turbata in sogno a causa sua. Avvertimento che si rivela inutile ai fini della soluzione della vicenda, tuttavia evidenzia ancora meglio il fermo convincimento, pure del governatore, di avere davanti uno che gli era stato consegnato per invidia. In ogni caso cerca fino all'ultimo, con il proverbiale gesto della lavanda delle mani, di scrollarsi di dosso simile imputazione.
La storia, pure della Chiesa, è ancora costellata da simili personaggi che, con la loro silenziosa presenza, concretizzano quell'andare contro corrente, di cui si ha così grande necessità, per conferire un volto nuovo all'umanità.
Certo, la narrazione culmina con la professione di fede del centurione sotto la croce, che proclama la vera identità di Cristo nel momento di massima abiezione umana. È lì che il Padre interverrà, quando persino le guardie saranno poste a custodia della tomba, per garantire che non possa avvenire neppure il tra fugamento del suo corpo. Tutto sembra deporre a favore della sconfitta: eppure è in questa situazione di "scacco matto" che capiterà l'imprevedibile, quello che nessuno si attende, ma che solo la volontà di Dio può operare, per ridare speranza al mondo.
VITA PASTORALE N. 3/2014
(commento di Gianni Cavagnoli, docente di teologia liturgica)
(commento di Gianni Cavagnoli, docente di teologia liturgica)
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ANNO A – 17-19 aprile 2014
Triduo pasquale
RIGENERATI
A VITA NUOVA
A VITA NUOVA
Il triduo del Cristo crocifisso, sepolto e risuscitato non è costituito soltanto da una serie di celebrazioni da attuare, ma anzitutto da un'esperienza da vivere, che sta al culmine di tutta la Quaresima. Pertanto, nella presente riflessione, s'intende venire incontro al credente che si interroga sul significato autentico di questi giorni. A livello celebrativo il triduo è fatto iniziare con la messa nella cena del Signore, la sera del Giovedì santo. Con questo anticipo si indica in quale contesto oggi la Chiesa vive la Pasqua di Cristo; nella celebrazione eucaristica. È lì che ogni comunità si riunisce per incontrarsi, alla domenica, con Cristo. È lì che celebra tutti gli eventi più importanti della sua storia e della storia dei suoi figli, riletti nella luce pasquale, dalla morte alla vita.
È importante che tutte le comunità, la sera del Giovedì santo, s'interroghino sul loro modo non solo di celebrare, ma anche di vivere la messa, guardando a come intessono i rapporti reciproci; che si verifichino, inoltre, sui ministeri presenti in parrocchia (lettori, catechisti, accoliti/chierichetti, accompagnatori dell'iniziazione cristiana, ecc.); infine, ma non meno importante, sulla funzione del o dei preti a servizio della comunità, in rapporto alla figura di Cristo, che sono chiamati a rendere presente. Prende così vitalità l'adorazione successiva alla celebrazione, che diventerà, oltre che momento di riflessione, anche gratitudine a Dio per tanto grandi doni che continuamente elargisce, vitalizzando la sua Chiesa in cammino nel tempo.
Il primo giorno del Triduo è costituito dal Venerdì santo, giorno della contemplazione del crocifisso, in adempimento della profezia di Zaccaria (12,10), riportata nel vangelo di Giovanni: «Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto» (Gv 19,37). Lo sguardo è alla passione e morte di Cristo, ma illuminate dalla speranza della risurrezione, come si auspica nella benedizione finale dell'azione liturgica. «Scenda, o Padre, la tua benedizione su questo popolo, che ha commemorato la morte del tuo Figlio nella speranza di risorgere con lui». È alla luce di questa speranza che acquista pienezza di significato la passione di Gesù nel suo corpo attuale, che è la Chiesa. Nel Venerdì santo ogni comunità celebra la passione di Cristo, che nelle membra vive della Chiesa si manifesta come sofferenza, dolore, martirio. Tutto ciò trasfigurato dalla speranza della luce. «Dio regna dal legno della croce», così canta un celebre inno quaresimale. Ma questo suo regnare comporta continuità di sofferenza, che nel Venerdì santo viene colta e assimilata a quella di Cristo. I credenti aprono perciò gli occhi su quello che la Chiesa ha ancora da soffrire nelle sue membra, che negli ospedali, nelle famiglie, nella società continuano, tanto sul piano fisico, quanto su quello morale, la passione del Capo. Contemplandolo nella celebrazione, fanno appello alloro liberatore, fino a quando si dirà con lui: «Tutto è compiuto» (Gv 19,30).
Nessuna particolare celebrazione contrassegna il Sabato santo, se si eccettua la Liturgia delle ore. La sepoltura, infatti, come la discesa agli inferi, richiamata dalla prima lettera di Pietro (3,19-20), esprime il segno di una morte vera, reale. In altri termini, Cristo ha fatto fino in fondo l'esperienza della morte. Inoltre è entrato in rapporto con tutte le generazioni umane che si sono succedute dall'inizio della storia. Non ci sono zone o realtà del cosmo che siano sottratte a questo influsso. Tutta l'umanità (quindi anche i morti prima della venuta di Cristo) e tutto l'universo, fin nelle sue profondità più nascoste, sono trasformati da questa salvezza. La Chiesa, nella sepoltura di Cristo, aspetto essenziale del battesimo e logica di vita (cf Rm 6,4), rilegge la propria volontà di immergersi totalmente in questa esperienza, per risorgere in novità di vita. Inoltre rinsalda la comunione con tanta umanità che è sepolta nelle vicende umane mediante regimi dittatoriali, privazioni indebite di ogni libertà e altre modalità di far tacere per sempre le persone.
Il giorno della risurrezione inizia con la notte, secondo la nota concezione ebraica del tempo. Ed è appunto al calare delle tenebre che viene data ai credenti la possibilità di vegliare con Cristo. È il tipico atteggiamento di chi attende il giorno del Signore quale manifestazione della definitività. Il significato profondo della gioia pasquale sta nella capacità di cogliere che «ciò che è distrutto si ricostruisce, ciò che è invecchiato si rinnova e tutto ritorna alla sua integrità, per mezzo di Cristo, che è principio di tutte le cose», come recita una sublime orazione dopo le letture della veglia pasquale. Se il credente ha percorso l'itinerario quaresimale si trova ora a risorgere in Cristo dalla sua logica di stanchezza e di vecchiaia. Non solo. La gioia della Pasqua è rapportata al formarsi di un popolo di risorti, la Chiesa appunto, nata dalla morte e risurrezione di Cristo. La gioia è legata al fatto di essere madre e di poter generare nuovi figli nel battesimo, o rigenerare a vita nuova quelli che già sono usciti dal suo grembo, mediante la penitenza. Non è facile comprendere e vivere questo senso di maternità feconda, manifestato dalla stessa natura nella bellezza rigogliosa della stagione primaverile. Eppure la speranza del futuro si fonda su questo presente.
È importante che tutte le comunità, la sera del Giovedì santo, s'interroghino sul loro modo non solo di celebrare, ma anche di vivere la messa, guardando a come intessono i rapporti reciproci; che si verifichino, inoltre, sui ministeri presenti in parrocchia (lettori, catechisti, accoliti/chierichetti, accompagnatori dell'iniziazione cristiana, ecc.); infine, ma non meno importante, sulla funzione del o dei preti a servizio della comunità, in rapporto alla figura di Cristo, che sono chiamati a rendere presente. Prende così vitalità l'adorazione successiva alla celebrazione, che diventerà, oltre che momento di riflessione, anche gratitudine a Dio per tanto grandi doni che continuamente elargisce, vitalizzando la sua Chiesa in cammino nel tempo.
Il primo giorno del Triduo è costituito dal Venerdì santo, giorno della contemplazione del crocifisso, in adempimento della profezia di Zaccaria (12,10), riportata nel vangelo di Giovanni: «Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto» (Gv 19,37). Lo sguardo è alla passione e morte di Cristo, ma illuminate dalla speranza della risurrezione, come si auspica nella benedizione finale dell'azione liturgica. «Scenda, o Padre, la tua benedizione su questo popolo, che ha commemorato la morte del tuo Figlio nella speranza di risorgere con lui». È alla luce di questa speranza che acquista pienezza di significato la passione di Gesù nel suo corpo attuale, che è la Chiesa. Nel Venerdì santo ogni comunità celebra la passione di Cristo, che nelle membra vive della Chiesa si manifesta come sofferenza, dolore, martirio. Tutto ciò trasfigurato dalla speranza della luce. «Dio regna dal legno della croce», così canta un celebre inno quaresimale. Ma questo suo regnare comporta continuità di sofferenza, che nel Venerdì santo viene colta e assimilata a quella di Cristo. I credenti aprono perciò gli occhi su quello che la Chiesa ha ancora da soffrire nelle sue membra, che negli ospedali, nelle famiglie, nella società continuano, tanto sul piano fisico, quanto su quello morale, la passione del Capo. Contemplandolo nella celebrazione, fanno appello alloro liberatore, fino a quando si dirà con lui: «Tutto è compiuto» (Gv 19,30).
Nessuna particolare celebrazione contrassegna il Sabato santo, se si eccettua la Liturgia delle ore. La sepoltura, infatti, come la discesa agli inferi, richiamata dalla prima lettera di Pietro (3,19-20), esprime il segno di una morte vera, reale. In altri termini, Cristo ha fatto fino in fondo l'esperienza della morte. Inoltre è entrato in rapporto con tutte le generazioni umane che si sono succedute dall'inizio della storia. Non ci sono zone o realtà del cosmo che siano sottratte a questo influsso. Tutta l'umanità (quindi anche i morti prima della venuta di Cristo) e tutto l'universo, fin nelle sue profondità più nascoste, sono trasformati da questa salvezza. La Chiesa, nella sepoltura di Cristo, aspetto essenziale del battesimo e logica di vita (cf Rm 6,4), rilegge la propria volontà di immergersi totalmente in questa esperienza, per risorgere in novità di vita. Inoltre rinsalda la comunione con tanta umanità che è sepolta nelle vicende umane mediante regimi dittatoriali, privazioni indebite di ogni libertà e altre modalità di far tacere per sempre le persone.
Il giorno della risurrezione inizia con la notte, secondo la nota concezione ebraica del tempo. Ed è appunto al calare delle tenebre che viene data ai credenti la possibilità di vegliare con Cristo. È il tipico atteggiamento di chi attende il giorno del Signore quale manifestazione della definitività. Il significato profondo della gioia pasquale sta nella capacità di cogliere che «ciò che è distrutto si ricostruisce, ciò che è invecchiato si rinnova e tutto ritorna alla sua integrità, per mezzo di Cristo, che è principio di tutte le cose», come recita una sublime orazione dopo le letture della veglia pasquale. Se il credente ha percorso l'itinerario quaresimale si trova ora a risorgere in Cristo dalla sua logica di stanchezza e di vecchiaia. Non solo. La gioia della Pasqua è rapportata al formarsi di un popolo di risorti, la Chiesa appunto, nata dalla morte e risurrezione di Cristo. La gioia è legata al fatto di essere madre e di poter generare nuovi figli nel battesimo, o rigenerare a vita nuova quelli che già sono usciti dal suo grembo, mediante la penitenza. Non è facile comprendere e vivere questo senso di maternità feconda, manifestato dalla stessa natura nella bellezza rigogliosa della stagione primaverile. Eppure la speranza del futuro si fonda su questo presente.
VITA PASTORALE N. 3/2014
(commento di Gianni Cavagnoli, docente di teologia liturgica)
(commento di Gianni Cavagnoli, docente di teologia liturgica)