IV Domenica di Quaresima
1Sam 16,1b.4a.6-7.10-13
Ef 5,8-14
Gv 9,1-41
NELLE NOSTRE TENEBRE
Siamo al secondo scrutinio, alla seconda verifica tanto dei catecumeni, quanto dei battezzati, relativamente a Cristo, che nel brano evangelico odierno, un altro macigno nello scritto di Giovanni, si autopresenta come luce del mondo. Nello stile del quarto vangelo tale luce è sì riferita alla luminosità fisica, che nella corporeità umana è significata dagli occhi, ma anche alla luce della fede, in funzione della quale si articola il lungo discorso intessuto tra Gesù e quest'altro anonimo.
Il protagonista umano è, infatti, un cieco dalla nascita e ciò suscita scalpore, perché innesca l'interrogativo: «Maestro, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco?». La mentalità che genera simile dipendenza, radicata pure nella tradizione biblica («I padri hanno mangiato l'uva acerba e i denti dei figli si sono allegati»: Ger 31,29), viene sconfessata da Cristo, che non colpevolizza a priori nessuno, né genitori né figli, ma piuttosto responsabilizza il malcapitato: «Va' a lavarti nella piscina di Siloe, che significa "Inviato"». L'inviato di Dio, cioè la persona di Gesù, può così far rinascere il cieco, che «andò, si lavò e tornò che ci vedeva».
Questo quadretto iniziale riveste la sua importanza, sia per chiarire la natura del miracolo, che in Giovanni ha la valenza di segno rivelatore di Cristo, seppur nella straordinarietà della sua storicità; sia soprattutto per il coinvolgimento della persona nell'evento, chiamata a collaborare all'opera della salvezza nella sua vera identità, per nulla oscurata da credenze fuori luogo, com'è spesso nella fama di tanti malcapitati, anche oggi.
Il dialogo che segue presenta come inter1ocutori principali Gesù e i farisei, ma avendo come "argomento" colui che è stato guarito in maniera così anomala: quante volte viene raccontato il fatto, fino alla nausea, da colui che ne è stato il protagonista e da coloro che ne sono stati testimoni oculari, e cioè i suoi genitori. Persino la loro aperta convalida non trova accoglienza ed essi stessi rimangono sulle proprie posizioni, senza esporsi più di tanto, perché «avevano paura dei giudei», che si ostinavano a negare il fatto nella sua evidenza. Anche da questi particolari l'episodio mostra apertamente che l'ostilità alla verità è il primo ostacolo alla manifestazione della luce, che è Cristo. Le tenebre non sono soltanto quelle esteriori all'uomo, personificate nelle avversioni che la storia presenta, ma primariamente nel rifiuto categorico della verità, semplicemente perché è luce. È l'impedimento che ancora oggi s'incontra nell'evangelizzazione, relativamente a certi capitoli che, in quanto proposti da credenti, per il semplice fatto che sono tali, non meritano considerazione, anzi! Terribile, ma vero: «"Sei nato tutto nei peccati e insegni a noi?". E lo cacciarono fuori». La luce spunta nelle tenebre, Cristo si fa presente nella storia delle persone per illuminarle, ma se non trova accoglienza, la presunzione vince e sovrasta la verità. Qui si risente l'insegnamento paolino, che invita a condannare apertamente le opere tenebrose e tutto ciò che è compiuto nel segreto da coloro che disobbediscono a Dio.
Di riscontro, appare in piena evidenza la fede del cieco, che non scaturisce affatto dall'interesse per aver ricevuto una "grazia", ma dal cammino che compie verso colui che lo ha liberato dall'infelice condizione umana, ereditata dalla nascita. La riconoscenza diventa gradualmente la luce della fede, cioè l'affidarsi totalmente a chi l'ha guarito e che egli afferma di non conoscere. Eppure gli ha cambiato la vita, totalmente. La fede, in simile frangente, non risulta come l'ossequio a verità rivelate, ma a una persona che manifesta Dio. Ecco perché il dialogo finale tra Cristo e questo anonimo culmina nell'autorivelazione del primo come Figlio dell'uomo (quindi nella piena verità di sé stesso) e nel suo proporsi alla vista di chi gli ha fatto riacquistare la luce degli occhi proprio per questo: «Lo hai visto: è colui che parla con te!». Da qui il suo entusiasmante atto di fede («Credo, Signore!»), accompagnato dalla prostrazione, che lo suggella. È vedere non il Cristo storico, ma quello che apre gli occhi della fede, ispirando l'accoglienza e l'adorazione, in quanto ci si avvale non di astrazioni, ma della concretezza quotidiana.
In prospettiva critica, tanto personale quanto sociale, questa cecità viene identificata con il peccato, inteso non come una colpa "originale" ereditata, ma collegato con una precisa responsabilità, che consiste nel chiudersi all'azione/illuminazione divina, fattasi presente nella storia in Cristo. Perciò si comprende la di rompente accusa finale nei confronti dei farisei, che chiedono, di fronte al giudizio che Gesù afferma di essere venuto a portare in questo mondo, se possono ritenersi ciechi anche loro.
La risposta non si lascia attendere, nella sua spregiudicata virulenza: «Se foste ciechi non avreste alcun peccato; ma siccome dite: "Noi vediamo", il vostro peccato rimane». In poche parole è la presunzione di ritenersi giusti, senza alcun peccato, quella che contamina la reputazione di ciascuno. Cristo è venuto appunto per dissipare queste tenebre occulte, che fanno leva sulla propria saccenza egoistica. Infatti, al massimo, come insegna la prima lettura, possiamo vedere ciò che appare. Solo Dio sa scrutare i cuori e aiutarci a divenire anzitutto arguti giudici di noi stessi, per acquisire la vera luminosità del nostro vivere e operare.
VITA PASTORALE N. 2/2014
(commento di Gianni Cavagnoli, docente di teologia liturgica)
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