II Domenica di Quaresima
Gen 12,1-4a
2Tm 1,8b-10
Mt 17,1-9
NELLE PAROLE DI PIETRO
Ai corposi brani della prima domenica succedono queste tre pericopi, che hanno al loro centro quella evangelica della trasfigurazione nella narrazione di Matteo. Tale episodio, con cui la comunità cristiana si confronta in questa seconda tappa del suo itinerario quaresimale, ha quale fondamento la chiamata: è Cristo, infatti, che prende con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e li conduce in disparte.
Si tratta di un'esperienza che entra in questa logica di vita, già inaugurata da Abramo, che compare nella prima lettura odierna, convalidando la sequenza storica di tutti e tre gli itinerari quaresimali: dopo episodi legati alle origini (domenica scorsa la tentazione e il peccato dei progenitori, in rapporto alle tentazioni di Gesù), oggi Abramo, il chiamato per eccellenza: «Vattene dalla tua terra verso la terra che io ti indicherò». Con le promesse che seguono: «Farò di te una grande nazione, renderò grande il tuo nome e possa tu essere una benedizione». Nella pagina evangelica questa chiamata è quella di salire su un alto monte, luogo privilegiato della manifestazione divina, per una particolare rivelazione.
L'esperienza della trasfigurazione di Cristo, espressa con il verbo al passivo che, come sempre, esprime la prioritaria azione divina, avviene sei giorni dopo l'annuncio della sua Pasqua e la dettatura ai discepoli delle condizioni per seguirlo. L'annotazione cronologica non viene recepita dal Lezionario attuale, neppure tra parentesi quadra, ma è importante per giustificare la trasfigurazione stessa: si tratta di indicare ai credenti che la strada della croce non è fine a sé stessa, ma si proietta sul volto di Cristo, che brilla come il sole, e nelle sue vesti, che emanano lo splendore divino.
Rientra, quindi, nella logica della speranza, alla quale i discepoli/testimoni vengono chiamati, perché non si scoraggino nel loro faticoso itinerario di sequela. Anzitutto viene loro garantito, anche da parte dei rappresentanti della prima alleanza, Mosè ed Elia, che egli è il vero Figlio del Padre, il compimento tanto della legge antica quanto della profezia, che i due citati personaggi testimoniano. Da qui la gioia dei discepoli, espressa mediante l'affermazione, piena di entusiasmo, del loro corifeo: «Signore, è bello per noi essere qui!».
La constatazione rivela la volontà di fissare i! tempo, d'impedirne quasi lo scorrere inesorabile. Sono quelle esperienze che, per fortuna, non mancano nell'esistenza e la aprono totalmente a una modalità "altra" di vivere il quotidiano. Anzi, lo trasfigurano, trasformandolo nel suo crudo realismo. Non va trascurato che ciò è dato dalla contemplazione di Cristo, così come appare nella concretezza del cammino quotidiano. Forse, alla luce di questo episodio, andrebbe riletta la possibilità, che si acquisisce con la fede in Cristo, di cambiare il quotidiano, cioè di scoprirlo anche in quegli aspetti che da soli non riusciamo a scorgere, percependo sempre più gravoso quello che capita. Insomma, la speranza non è solo l'atteggiamento delle grandi occasioni, ma illumina la ferialità, in quanto «il cristianesimo è speranza, è orientamento e movimento in avanti e perciò è anche rivoluzionamento e trasformazione del presente» (J. Moltmann).
Al codice visivo si unisce quello uditivo, cioè la voce divina che già si era fatta sentire nel battesimo: «Questi è il Figlio mio, l'amato: in lui ho posto il mio compiacimento». Ora vi è l'aggiunta del perentorio imperativo: «Ascoltatelo!». Si tratta dell'ascolto obbediente dei discepoli nei confronti delle proposte concrete di vita che il Cristo/Maestro propone loro (cl Mt 16,24). La fede, dunque, che trasfigura la vita, nasce dall'ascolto della Parola. La frequenza stessa dell'eucaristia diventa, allora, questo momento di trasfigurazione del quotidiano alla luce della proposta di Cristo che, dal momento storico-simbolico del Tabor, si estende ora a tutti i credenti, come commenta san Leone Magno: «All'annunzio del Vangelo si rinvigorisca la fede di voi tutti, e nessuno si vergogni della croce di Cristo. Nessuno esiti a soffrire per la giustizia, nessuno dubiti di ricevere la ricompensa promessa, perché attraverso la fatica si passa al riposo e attraverso la morte si giunge alla vita» (Tratt. 51).
Come sempre accade nella testimonianza biblica, la voce di Dio provoca una reazione scomposta dei discepoli, che cadono con la faccia a terra, presi da grande timore. Ma è Gesù stesso che, con un gesto pieno di umanità, si avvicina, li tocca e li rincuora: «Alzatevi e non temete». In questo gesto sta tutta la forza con cui egli li vuole sostenere nel loro cammino, nel dare concretezza a quell'ascolto, che è stato loro comandato. L'esperienza quaresimale si colloca in simile orizzonte, nel senso che è un invito rivolto a tutti a far tesoro degli insegnamenti di Cristo, per diventare realmente figli di Dio.
La discesa dal monte riporta alla ferialità del vissuto, al suo realismo, dove rimane solo Gesù, che si accompagna ai suoi discepoli. L'esortazione dell'apostolo Paolo, nella seconda lettura, riporta alla visione della vita come chiamata, totalmente gratuita e svincolata da meriti e opere personali, rapportata solo al suo progetto e alla sua grazia. Vocazione che traduce la perorazione a soffrire per il Vangelo, non senza la rivelazione che viene dalla manifestazione di Cristo. La trasfigurazione esprime appunto questa simbiosi, che ci viene continuamente proposta nell'esperienza liturgica.
VITA PASTORALE N. 2/2014
(commento di Gianni Cavagnoli, docente di teologia liturgica)
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