VI Domenica di Pasqua
At 8,5-8.14-17
1Pt 3,15-18
Gv 14,15-21
E DONA LO SPIRITO
L'itinerario pasquale prosegue con celerità verso la sua conclusione, rappresentata dall'effusione dello Spirito nella Pentecoste. Ed è a questa meta che ci fa volgere lo sguardo la Parola della sesta domenica, in quanto nel brano evangelico è contenuta esplicitamente la promessa dello Spirito da parte di Cristo, perché i discepoli non si sentano orfani nella storia. Due i connotati essenziali con cui viene caratterizzato lo Spirito Santo: anzitutto la qualifica di "altro" Paraclito. Questo termine è greco, traslitterato pari pari in italiano, e significa "colui che è chiamato vicino». Da qui la traduzione di "avvocato, consolatore, difensore...". "Altro", perché il primo, che sta vicino al Padre e intercede per noi, è Cristo stesso (cf Eb 7,25). Lo Spirito viene quindi in risposta alla preghiera di Gesù al Padre e sostiene i discepoli che devono affrontare il giudizio del mondo, che si sta ormai profilando con tutta la sua carica di odio contro Gesù e contro di loro. Il secondo epiteto è Spirito "della verità": tenendo presente quanto già altrove sottolineato, è come dire che si tratta dello Spirito di Cristo stesso, ql1ale verità del Padre.
Lo Spirito, inoltre, è oggetto di visione/contemplazione, a sottolineare la sua concretezza, che si ripercuote poi sullo stesso verbo «conoscere», cioè fare oggetto di un incontro intimo e profondo. Si evidenziano, perciò, le dimensioni interiori della sua azione, che non vanno assolutamente trascurate nella valutazione della personalità cristiana, perché non creda chiunque di potersi gestire da solo l'esistenza. Arrivare a "conoscere" l'azione dello Spirito è fondamentale, per sapervi convenientemente corrispondere, senza mai opporsi: il che sarebbe equiparabile a una bestemmia, evangelicamente presentata come imperdonabile (cf Mc 3,29).
Un'altra dimensione prospettata dal brano evangelico è l'unione intima tra i discepoli, Gesù e il Padre: la reciprocità che si stabilisce tra il Figlio e il credente è di amore. Così viene suggerito dal verbo "conoscere" nella densità della sua carica affettiva. Ed è un'iniziativa che non parte dal credente, ma dal Padre, e troverà piena realizzazione "in quel giorno", cioè soltanto alla fine dei tempi. Intanto, però, come l'apostolo Paolo, ciascuno può riconoscere che "non vivo più io, ma Cristo vive in me» (Gal 2,20). Con tutto quello che consegue, soprattutto a livello di valutazione del nostro operato e della sua efficacia. In aggiunta, riprendendo l'insegnamento di Pietro nella II lettura odierna, ciascuno è chiamato a essere pronto a rispondere a chiunque gli domandi ragione della propria speranza (cf 1Pt 3,15).
Infinite sono le attualizzazioni di simile impegno, disseminate a iosa in molteplici documenti magisteriali. Quella della Cei, dopo il IV Convegno ecclesiale nazionale di Verona (ottobre 2006) che ha situato simile istanza fin nel titolo della nota pastorale conclusiva, così la esplicita: «La speranza cristiana non è solo un desiderio: è una realtà concreta, un esercizio storico, personale e comunitario. Essa plasma l'esistenza quotidiana, riportando le attese degli uomini a contatto con l'origine stessa della vita. Sperare è essere disposti a scorgere l'opera misteriosa di Dio nel tempo» (n. 8).
Al di là di tutto va evidenziato pure lo stile con cui la testimonianza va offerta: con dolcezza e con rispetto, con una retta coscienza. Ciò elimina nettamente qualsiasi ostentazione o prova di forza, per imporre agli altri la nostra verità, convinti che, se vera, non può non essere accolta come tale. Quanta apologetica ancora si annida nella testimonianza cristiana, quasi che solo con l'aggressività si possa affermare la verità! Per non dire di coloro che vorrebbero vedere implicati i credenti in tutte le manifestazioni esteriori, che reclamano in ogni modo l'affermazione dei valori "irrinunciabili". Ma dove stanno, allora, la dolcezza, il rispetto e la retta coscienza, di cui parla la Scrittura?
L'apostolo Pietro prospetta, invece, la strada della croce, affermando esplicitamente: «È meglio soffrire operando il bene che facendo il male». Il dolore, in altri termini, non è una smentita della speranza, ma una paradossale occasione propizia perché questa si rafforzi ancora di più, non come generico ottimismo, ma nella sua qualità di grazia che Dio accorda ai credenti in Cristo. D'altra parte, nel quadretto degli Atti si ha la garanzia che questa è la strada da percorrere. L'opera apostolica di Filippo in Samaria si concretizza, infatti, in esorcismi e miracoli, ma non per strabiliare e far vedere che tale è la carta vincente dell'opera evangelizzatrice: le folle - viene asserito - prestavano attenzione alle parole di Filippo.
E la preoccupazione prioritaria della comunità di Gerusalemme, inviando Pietro e Giovanni, è quella di evidenziare che, con l'imposizione delle mani da parte degli apostoli, i cristiani di Samaria vengono più fermamente congiunti con la Chiesa-madre: è quindi un fatto che consolida l'unità ecclesiale. Una problematica tuttora viva, nel senso che le nostre comunità appaiono ancor troppo slegate, auto-cefale. Forse è questa la "cresima" della Chiesa, comunitariamente intesa, che andrebbe ogni anno celebrata a Pentecoste.
VITA PASTORALE N. 4/2014
(commento di Gianni Cavagnoli, docente di teologia liturgica)
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