V Domenica di Pasqua
At 6,1-7
1Pt 2,4-9
Gv 14,1-12
LA VERITÀ E LA VITA
La Parola di questa domenica va riletta con il filtro della mistagogia, cioè con quella particolare prospettiva, nella vita ecclesiale, per cui ogni anno viene riproposta la verifica delle "strutture" irrinunciabili per divenire autentiche comunità di Cristo nel mondo. I brani evangelici si focalizzano sul Risorto, mentre le prime letture, come quella odierna, spaziano anche su problematiche prettamente ecclesiali, fornendone almeno la chiave di soluzione. L'episodio odierno si sofferma sulla promessa di Cristo che nella casa del Padre esistono molte dimore: non "tende", ma abitazioni più stabili. È questa sicurezza che vince il turbamento dei discepoli nei differenti frangenti storici.
Proclamato spesso nelle celebrazioni esequiali, tale brano costituisce un autentico "vangelo", una buona notizia che abbraccia sì la definitività del vivere in Dio, del dimorare in lui, ma anche di trovare la possibilità di attuarlo fin d'ora. Ecco l'accenno posto sulla riunione dei discepoli con lui, resa possibile attraverso la sua dipartita: «Vi prenderò con me». È questa garanzia che ci fa occupare un posto nella Chiesa, se non altro quello che ci è stato assegnato attraverso l'accesso battesimale. Pietro concretizza tale condivisione mediante l'immagine delle pietre vive: veniamo "costruiti" anche noi in questo grandioso edificio, che è la visibilità della Chiesa, a condizione che rimaniamo fermamente ancorati a Cristo, pietra viva «rifiutata dagli uomini ma scelta e preziosa davanti a Dio». La nota comune della stabilità non va per nulla relativizzata, ma esaltata proprio perché questa Parola trovi attuazione.
L'intervento di Tommaso, il gemello (Didimo) di Gesù nel vangelo di Giovanni, sulla difficoltà a reperire la strada per arrivare a questa dimora, innesca una delle più elevate auto-rivelazioni di Cristo, presenti nel Nuovo Testamento, ampiamente sviluppata nella spiritualità di tutti i tempi e nella iconografia cristiana: «Io sono la via, la verità e la vita». Questo trinomio va ben interpretato, secondo il vocabolario tipico dell'evangelista: il Risorto è anzitutto l'unica via per accedere al Padre: non ne esiste un'altra. Tale univocità assoluta porta a relativizzare qualsiasi altra "strada" di accesso a Dio, anche se costituita dalla legge o da insegnamenti di varia estrazione. Cristo è la via che dobbiamo percorrere, accogliendo la sua persona come centro della nostra vita. La sua storica rivelazione, condensata nella persona di Gesù di Nazaret, costituisce, infatti la verità di Dio. Si ricupera anche quanto era stato rivelato alla samaritana sul culto "in spirito" (cioè guidato, illuminato dallo Spirito) e "in verità", cioè nella persona visibile di Gesù. Ed è quello che il Signore stesso ripropone a Filippo, che interviene per chiedere delucidazioni: «Mostraci il Padre e ci basta». La richiesta denota l'inadeguatezza della fede del discepolo, che però trova risposta nel Salvatore.
Insieme all'amabile, ma risoluto rimprovero («Da tanto tempo sono con voi...»), perché, nonostante la lunga familiarità con lui, Filippo non ha compreso che Cristo è l'unica via per incontrare il Padre, come per Tommaso viene ribadita la necessità che il cammino del discepolato porti a scoprire il mistero divino nel Salvatore. Inoltre, nel prosieguo della sua risposta, Gesù corregge la richiesta di Filippo perché sottintende una pretesa di vedere Dio con gli occhi della carne, non comprendendo invece che il Padre desidera abitare in lui ed entrare in una comunione così intima, che è impossibile alle sole risorse umane.
Abituati a una visione di "verità" legata alle affermazioni teologiche, di sapore astratto, riconosciamo appieno come simile rivelazione costituisca non solo un'autentica "svolta" nella comprensione del Signore, ma anche il criterio interpretativo ultimo della nostra fede in lui, fatta consistere nell'accoglienza e nella testimonianza della sua verità.
In quest'ottica si riesce a capire anche la grandiosa promessa rivolta a chi crederà nell'unione indissolubile tra il Padre e Gesù: poter compiere le opere più grandi, addirittura maggiori di quelle compiute da Gesù. Al riguardo si innesta la terza componente della rivelazione di Cristo: la vita. Questa trova riscontro veritativo nell'accoglienza totale di Cristo, via a Dio e sua verità nella concreta visibilizzazione della sua esperienza, ora tramandata dalle Scritture (cf Gv 20,31). Non solo. Attingendo alla prima lettera di Pietro, viene specificata la condizione dei credenti mediante la sacerdotalità, tradotta nell'«offrire sacrifici spirituali a Dio graditi». È quanto si attua nella vita, riletta in questa dimensione del dono di sé, di sacerdotalità appunto.
La valenza mistagogica abbraccia pure modalità pragmatiche, con cui simili prospettive trovano concreta esplicitazione. Ecco la pagina di Atti, che configura i dodici avvalersi dei sette prescelti tra i discepoli, perché si cerchi di risolvere il problema delle vedove trascurate nelle loro problematiche vitali. I dodici, invece, si riservano di dedicarsi alla preghiera e al servizio della Parola: una scelta di campo chiara, un altro criterio di verifica irrinunciabile nell'infinità di impegni di cui siamo oberati Ciò apre il varco a una sequenza di riflessioni, che non dovrebbero mai escludere il confronto con la propria comunità, per un'equa e ponderata "distribuzione" di ruoli e competenze.
VITA PASTORALE N. 4/2014
(commento di Gianni Cavagnoli, docente di teologia liturgica)
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