L'allegoria (o "similitudine") del pastore contrassegna questa quarta domenica di Pasqua, determinando la collocazione in essa della "Giornata mondiale di preghiera per le vocazioni" (tutte!). In queste annotazioni ci si sofferma sulla Parola, esulando dai vari messaggi ad hoc sfornati ogni anno, ritenendola alquanto ricca per supportare anche la tematica vocazionale. VITA PASTORALE N. 4/2014
IV Domenica di Pasqua
At 2,14a.36-41
1Pt 2,20b-25
Gv 10,1,10
CON UN SOLO PASTORE
L'esordio del capitolo 10 di Giovanni si colloca anzitutto in un contesto polemico, in quanto il luogo in cui familiarmente le pecore sono rinchiuse, aspettando di essere condotte fuori dal pastore, è il recinto (in greco aulé, cioè aula), che è il nome tecnico usato dall'evangelista per indicare l'atrio del tempio. Gesù vuole portare fuori dalla struttura religiosa d'Israele il gregge di Dio. Del resto, si tratta di un cammino di libertà, a cui le pecore sono sollecitate, quasi paradossalmente forzate ("spinte fuori"), ma l'esito di questa uscita è la libertà. Ecco perché il guardiano apre al pastore e questi può passare attraverso la porta, anzi, si presenterà lui stesso come porta. Ciò che interessa è non chiudersi mai in recinti, in ghettizzazioni, neppure sacrali, per essere il vero gregge del Signore, ma possedere sempre questa libertà di entrare e di uscire. L'esperienza cristiana - lo si ripete spesso - non deve mai sapere di costrizione, ma di adesione pienamente libera e costruttiva. Anche la pastorale attuale è orientata verso la missione, cioè quella di uscire nelle periferie, cui costantemente ci richiama Papa Francesco.
La familiarità di rapporti tra pastore e pecore risulta ancor più approfondita dal fatto che queste ascoltano la sua voce ed egli le chiama ciascuna per nome: altro connotato assai rilevante nell'esperienza cristiana, perché non solo rinverdisce il fatto di avere un nome in forza del battesimo, ma anche quello di riconoscersi per nome. Le nostre comunità danno spesso l'impressione, invece, di essere costituite da persone o anche da gruppi di anonimi, che non si conoscono personalmente. E ciò complica assai le relazioni all'interno della comunità cristiana, proprio perché sembra sempre di interloquire tra estranei. Forse l'assottigliarsi numerico di coloro che si radunano in assemblea per la celebrazione eucaristica porterà gradualmente a operare maggiormente in futuro per questa qualificazione dei rapporti, che giova senz'altro a livello di efficacia pastorale.
Chiamando le "sue" pecore "ciascuna" per nome si giunge ad attuare pure l'adagio latino, per cui il nomen è omen, cioè augurio/missione. Infatti, la conoscenza personale tra ogni pecora e il pastore non significa soltanto che la prima è riconosciuta nella sua individualità, ma l'essere chiamata per nome comporta che ciascuna scopra la propria essenza più intima e l'approdo verso cui deve tendere per realizzare il proprio nome.
Il rapporto tra pastore e pecore non sempre però è lineare, quasi che il capitolo decimo di Giovanni sia una specie di pagina idilliaca, una poesia bucolica. L'evangelista segnala apertamente l'incomprensione: «Essi non capirono...», senza precisare ulteriormente di che cosa esattamente si tratti. Tale possibilità rientra però nella logica della vita e della relazione: con uno sguardo alla prima lettura, conclusione del lungo discorso di Pietro nel giorno di Pentecoste, si nota che la Parola diventa efficace, superando !'incomprensione, allorché gli uditori si sentono provocati («Si sentirono trafiggere il cuore») e si pongono interrogativi («Che cosa dobbiamo fare?»). Alla proposta divina deve allora corrispondere la disponibilità umana di adesione, tradotta mediante la conversione, sigillata dal dono del battesimo nello Spirito. Anche i momenti di stasi nella vita ecclesiale, familiare e sociale si superano, se ciascuno non si ritrae di fronte alle proposte e agli impegni ardui, ma si lascia coinvolgere totalmente nell'iniziativa cui viene invitato.
Anzi, il porsi esplicitamente interrogativi esercita più che mai quella fantasia della carità, che rimane uno dei compiti essenziali per l'evangelizzazione in questo millennio, secondo quanto più volte ribadito dagli insegnamenti papali. Si arriva così a quella giusta "autonomia" da parte delle pecore, per cui non solo aspettano di sentirsi chiamate e invitate esplicitamente, ma sanno anche prendere l'iniziativa, auto-gestirsi in frangenti storici alquanto poveri, se non risicati, a livello numerico, ma pure pieni di speranza, in queste spontanee "prestazioni professionali".
Un'ultima prospettiva è fornita dalla rivelazione di Cristo come porta, che richiama il Salmo 118/117, 20, tipicamente pasquale: «È questa la porta del Signore: per essa entrano i giusti». Esprime la libertà dell'accesso al Regno: «Entrerà e uscirà e troverà pascolo». Il tratto polemico, infatti, si fa ancora più mordace: «Tutti coloro che sono venuti prima di me, sono ladri e briganti». Riascoltando l'inno proposto come seconda lettura, che ripercorre la figura del Servo sofferente, riletta in Cristo, si giunge a comprendere cosa comporti concretamente questo "passaggio": «Eravate erranti come pecore, ma ora siete stati ricondotti al pastore». Si è di fronte a un Regno, dove la figura di Cristo rappresenta il modello di colui che è venuto non per distruggere, come i falsi messi a anche attuali, ma per dare la vita, perché tutti l'abbiano in abbondanza.
(commento di Gianni Cavagnoli, docente di teologia liturgica)
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IV Domenica di Pasqua (A)
ANNO A - 11 maggio 2014
UN SOLO GREGGE