Domenica di Pasqua
At 10,34a.37-43
Col 3,1-4 [1Cor 5,6b-8]
Gv 20,1-9
UN MONDO NUOVO
Non va anzitutto sottaciuto che questa celebrazione tiene il posto, per molti credenti, della stessa Veglia pasquale, alla quale non hanno partecipato. Pertanto a loro primariamente s'indirizza l'esortazione dell'Apostolo a "cercare le cose di lassù», cioè a ritrovare uno stile di vita alternativo a quello del mondo: «Rivolgete il pensiero alle cose di lassù, non a quelle della terra». Il contrasto tra terra e cielo, che ha segnato gran parte della predicazione a livello moralistico, in verità è finalizzato solo a ribadire la necessità di una radicale trasformazione della propria esistenza attraverso una conformazione a Cristo, che introduce già ora nella dimensione dell'eterno, del mondo della risurrezione. È questa con-formazione che viene additata pure agli occasionali frequentanti le nostre assemblee, perché siano indotti il più possibile a maggiore assiduità alla partecipazione all'eucaristia.
Si tratta di attuare il "passaggio" (questo è "Pasqua") - per utilizzare un'altra immagine paolina, tratta dal brano alternativo posto come seconda lettura - dalla malizia e dalla perversità, dal lievito vecchio ai nuovi azzimi, cioè alla sincerità e alla verità. In poche parole, la Pasqua è sempre un evento che trasforma, come del resto l'eucaristia che l'attualizza. Non si è di fronte a una prassi devozionale, condensata nel precetto della comunione pasquale, ma a una vera risurrezione di vita. Sul piano pedagogico tale prospettiva non andrebbe mai trascurata.
La testimonianza dei due discepoli del brano evangelico, Pietro e quello che Gesù amava, identificato solitamente con Giovanni, ma mai espresso nominativamente dall'evangelista (per lasciare spazio nella storia a chiunque percepisce di essere amato da Cristo), evidenzia la grande valenza della vita quale corsa verso ciò che attrae, per trovarne piena giustificazione. Anzitutto questa corsa avviene al mattino del primo giorno della settimana, espressione di un mondo nuovo che sta per iniziare e che richiama la nuova creazione, attuata dalla Pasqua di Cristo. Nonostante ciò, l'evangelista segnala che «era ancora buio», allorché succedono questi fatti. E il buio è dentro agli stessi protagonisti dell'evento, immersi in un alone di assoluta incredulità.
La corsa s'indirizza verso il sepolcro, che è un luogo per la memoria, e non per l'appuntamento con il Vivente. In questo luogo, infatti, che cosa si trova, se non l'assenza di un corpo, interpretata da Maria di Magdala come un furto, e i teli funebri ben disposti, così da fugare, invece, ogni dubbio sulla ventilata sottrazione del corpo? Davanti a questi segni Pietro resta attonito e non sa coglierne il significato, mentre l'altro discepolo, l'amato, assume ben altra reazione, riassunta nei due verbi: «E vide e credette». Inizia ad aprirsi alla fede pasquale, ormai convalidata dalla visione non di prove concrete, testate sul piano fisico, ma di realtà "altre", confermate dalla Scrittura.
Il Libro sacro diventa così il riferimento interpretativo della storia, in quanto la fisicità di Gesù di Nazaret, garanzia della sua presenza storica, ormai è terminata. Annota significativamente l'evangelista: «Non avevano ancora compreso la Scrittura, che cioè egli doveva risorgere dai morti». I due discepoli rappresentano già la moltitudine dei credenti, costituiscono la primizia di coloro che testimoniano il Cristo vivo, nonostante la sua assenza fisica. È quanto lo stesso Pietro proclama nel discorso presentato dal brano degli Atti: «Noi siamo testimoni [...] e Dio ci ha ordinato di annunciare al popolo e di testimoniare».
Il compito è affidato oggi a quanti partecipano all'eucaristia («a noi che abbiamo mangiato e bevuto con lui»), i quali si ritrovano non per assecondare un compito meramente cultuale, sbrigato magari il più frettolosamente possibile, ma per garantire agli altri (questo è "testimoniare") che nella storia continua la presenza di Cristo, per conferirle significato, passando come lui a beneficare e risanare tutti coloro che, pure nel nostro tempo, sono sotto il potere delle tenebre.
I due discepoli compiono anche un loro cammino per arrivare I a questa forza di testimoniare: escono insieme per recarsi al sepolcro. E indubbio che, nel vangelo simbolico per eccellenza, come quello di Giovanni, questo verbo riveli l'abbandono di un' esperienza, per correre verso un' altra. Ciò che si lascia è il buio dell'incertezza, per correre insieme verso spazi nuovi e paradigmi di vita più aperti. Certo, non è una gara a chi arriva prima, ma un voltare le spalle al passato, con la segreta speranza che ci sia un futuro diverso. Certamente, il discepolo amato ha una prevalenza in questa corsa, perché la forza che lo attira è maggiore: è la forza di quell'amore da cui si è lasciato amare. Più faticosa e lenta la corsa di Pietro, quasi fosse ancora appesantito dal ricordo del suo rinnegamento.
In definitiva, c'è posto per tutti in questa corsa e non conta arrivare primi o secondi, anche se l'interpretazione "tradizionale" non ha omesso di assegnare ai due discepoli il ruolo che svolgono nella Chiesa, e quindi ravvisare una certa "tensione" tra carisma (incarnato dal discepolo amato) e potere (Pietro). Al di là di tutto ciò, la testimonianza si avvale della pluriformità di aspetti e di ruoli, perché i credenti arrivino a incontrare Cristo e a saperlo additare uscendo da sé stessi.
VITA PASTORALE N. 3/2014
(commento di Gianni Cavagnoli, docente di teologia liturgica)
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