Linee di speranza per il nostro tempo



Il diaconato in Italia n° 181
(luglio/agosto 2013)

SERVIZIO


Linee di speranza per il nostro tempo
di Enzo Petrolino

Illustrando la vera e nobilissima concezione della pace, il Concilio, condannata l'inumanità della guerra, intende rivolgere un ardente appello ai cristiani, affinché con l'aiuto di Cristo, autore della pace, collaborino con tutti per stabilire tra gli uomini una pace fondata sulla giustizia e sull'amore e per apprestare i mezzi necessari per il suo raggiungimento. Così si esprime la Gaudium et Spes al n. 77 parlando della promozione della pace tra le nazioni. È pertanto importante tornare a riflettere sulle analisi e sulle indicazioni offerte dalla costituzione conciliare, per verificarne il valore e coglierne la sapienza. Ma la Gaudium et Spes non si limita agli interrogativi di fondo. Nel desiderio di rendere un più concreto servizio all'uomo del nostro tempo, essa scende anche sul terreno dei problemi immediati che lo assillano. Il problema della povertà e del suo superamento mediante una economia rispettosa del valore primario della persona rimanda così a un discorso più ampio di etica politica. Giustamente pertanto, la Gaudium et spes, dopo aver considerato l'ambito economico, dedica pagine eloquenti alla fondamentale necessità di promuovere, nelle nazioni e tra le nazioni, una vita politica ispirata ad irrinunciabili valori morali (cf. GS 73-90). L'appello del Concilio a promuovere la pace è tuttora quanto mai vivo ed urgente.
Tutti i credenti hanno in questo una speciale responsabilità! È necessario, allora, saper rileggere la costituzione pastorale Gaudium et spes in modo nuovo, riferendosi ai principi che essa ha indicato. In effetti, chiunque legga il documento con animo attento e sereno non può non concludere che il suo messaggio ultimo è Cristo stesso, Redentore dell'uomo. È lui che il Concilio addita come «il fine della storia umana, il punto focale dei desideri della storia e della civiltà, il centro del genere umano, la gioia di ogni cuore, la pienezza delle sue aspirazioni» (GS 45).
Gesù Cristo rimane presente come Luce del mondo, che illumina il mistero dell'uomo non solo per i cristiani, ma anche per l'intera famiglia umana; rivela l'uomo a se stesso; chiama tutti all'identico destino e, mediante lo Spirito Santo, «offre a tutti la possibilità di venire a contatto con la sua definitiva vittoria sulla morte» (GS 22). Le speranze per un mondo più umano espresse dalla Gaudium et spes non potranno essere realizzate senza Cristo, senza l'accoglienza della sua grazia, che invisibilmente lavora nel cuore di ogni uomo di buona volontà (GS 22). Questa convinzione deve guidare e sorregge il cammino della Chiesa e di ogni ministero. «La violenza, la divisione, lo scontro e la guerra» avvengono quando «l'uomo, vertice della creazione, lascia di guardare l'orizzonte della bellezza e della bontà e si chiude nel proprio egoismo». Così papa Francesco durante la veglia di preghiera in piazza San Pietro. «Quando l'uomo - continua Bergoglio - pensa solo a se stesso, ai propri interessi, quando si lascia affascinare dagli idoli del dominio e del potere, quando si mette al posto di Dio allora apre la porta all'indifferenza, alla violenza e al conflitto». «In ogni guerra facciamo rinascere Caino, noi tutti, e anche oggi continuiamo questa storia di scontro tra fratelli, alziamo la mano contro chi è nostro fratello. Abbiamo perfezionato le nostre armi, la nostra coscienza si è addormentata, abbiamo reso più sottili le ragioni per giustificarci e come se fosse una cosa normale continuiamo a seminare distruzione, dolore, morte». «La violenza, la guerra portano solo morte, parlano di morte! La violenza e la guerra hanno il linguaggio della morte! - ha continuato - È possibile percorrere un'altra strada? Possiamo uscire da questa spirale di dolore e di morte?», si è chiesto papa Francesco nella meditazione. «Possiamo imparare di nuovo a camminare e percorrere le vie della pace?».
«Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio»: ricercare la pace anche quando per scorgerne il profilo lo sguardo deve farsi "profetico" e spingersi molto lontano, oltre i limiti delle attuali lacerazioni fra i singoli e i popoli; lavorare per la pace e spendersi per essa; costruirla e custodirla; donarla ed esserne segno e strumento... sono queste per il Vangelo le condizioni necessarie per essere chiamati "figli di Dio", il segno visibile e credibile davanti agli uomini di questa appartenenza filiale al Signore Padre di tutti. Timorosi e smarriti, anche noi cristiani, sempre più sgomenti di fronte all'attuale avanzare del conflitto e della separazione, spesso lasciamo "cadere le braccia" e sconsolati ritorniamo a chiedere: «Sino a quando, Signore? Sino a quando?». Eppure sappiamo, oltre le erronee convinzioni del mondo, che la pace è scritta nell'originario disegno divino. La pace porta un nome: Gesù Cristo, crocifisso e risorto! Egli è la nostra pace! (Ef 2,14).
Richiamo qui alcune parole di Giovanni Paolo II ai capi religiosi riuniti ad Assisi nel 2002: «Con rinnovato stupore, osserviamo la varietà di manifestazioni della vita umana, dalla complementarietà fra uomo e donna, alla molteplicità dei diversi doni appartenenti alle diverse culture e tradizioni che formano un universo linguistico, culturale ed artistico multiforme e versatile. Questa molteplicità è chiamata a formare un tutto coeso, in un contatto e in un dialogo che porterà ricchezza e gioia a tutti... Ora è tempo di superare definitivamente quelle tentazioni di ostilità che non sono mancate nella storia religiosa dell'umanità. Infatti, quando queste tentazioni si attaccano alla religione, mostrano un volto profondamente immaturo delle religione stessa. Il vero sentimento religioso porta piuttosto a percepire in un modo o nell'altro il mistero di Dio, fonte di bontà, ed allo scaturire del rispetto e dell'armonia tra i popoli; la religione è, in realtà, l'antidoto principe contro la violenza e il conflitto».
Queste parole comunicano un senso profondo dell'unità che accomuna ogni autentico sforzo religioso orientato verso l'unico mistero di Dio. La Chiesa è posta in mezzo ad un mondo tenuto insieme dal suo stesso tendere verso la piena realizzazione. Privilegiata da tale consapevolezza, essa esiste per aiutare tutti a trovare questo destino comune. Ogni cosa che essa opera è per la salvezza del mondo, di cui essa stessa è parte integrante.
La "diaconia della pace" che i diaconi devono incarnare nel loro servizio per la Chiesa e per il mondo si caratterizza ed esprime come diaconia della fede, diaconia della speranza, diaconia della carità. La diaconia della fede appare in modo perfetto nel diacono Stefano, il quale rende la sua testimonianza dinanzi a coloro che siedono in giudizio contro di lui leggendo la storia d'Israele come la storia dell'amore fedele di Dio per il suo popolo. Fedele fino al martirio, egli ci addita Gesù come "il vero Emmanuele", Colui che è sempre "con" noi e nel contempo "oltre" noi, oltre ogni successo e trionfo, oltre ogni sconfitta e vittoria: Egli è il futuro verso cui bisogna camminare, tenendo fissa nel cuore la certezza che rimarrà eternamente fedele alle sue promesse.
La diaconia della speranza, che ha le sue radici in Abramo, attraversa tutta la storia d'Israele e perviene a Cristo risorto per "lanciarsi" nel mondo attraverso la Chiesa: Ut unum sint. I diaconi qui devono imparare dal diacono Filippo che, seguendo l'invito dell'angelo e la voce dello Spirito, corre per raggiungere il carro dell'Etiope e, postosi accanto a lui, gli annuncia il vangelo della salvezza fino a suscitare in lui il desiderio del battesimo (At 8,26 sgg). Bisogna «alzarsi» e «andare sulla strada» anche quando la strada sembra deserta; bisogna «correre avanti» sino a raggiungere l'uomo in situazione, camminargli accanto ed ascoltarlo, parlare con lui ed annunciargli la salvezza: figura questa di tutta la Chiesa, che cammina accanto all'uomo nella storia. La diaconia della carità è espressione dell'amore che lo Spirito ha abbondantemente riversato nei nostri cuori: un amore che è sempre iniziativa di Dio; un amore che domanda concretezza («con i fatti e nella verità»); un amore che «è la via migliore di tutte» e senza il quale «non siamo nulla e niente ci giova» (cf. 1Cor 13,1 sgg).
I diaconi, creati primariamente per la carità, sono nell'intenzione rinnovatrice del Concilio «segno e sacramento dello stesso Cristo Signore, che non venne per essere servito, ma per servire». Essi compiono questa specifica missione se congiungono nella loro vita il servizio liturgico e l'impegno caritativo, l'Eucaristia e la diaconia dei poveri, testimoniando a tutti che la carità di Cristo ha bisogno del "grembiule del servizio". È questa la storia da raccontare. È questo il programma da vivere. È questo l'atteggiamento da assumere.

Il diaconato e la pace
Esiste un rapporto inscindibile e vitale tra il diaconato e la pace. Contaminato dalla mentalità corrente, l'uomo di oggi - anche il cristiano - attribuisce alla parola "pace" il significato di una "situazione" in cui ci si trova. Così intesa, però, la pace è solo spazio tra un conflitto e l'altro, tregua momentanea tra le separazioni che segnano la vita dei popoli e i quotidiani rapporti umani: la pace così intesa non esiste, è un'utopia.
Nella sua accezione ebraico-cristiana, invece, la pace è "azione", movimento, dinamismo: non qualcosa in cui ci si viene a trovare, ma qualcosa che "si fa". La pace è l'azione propria del cristiano. Secondo il pensare del mondo, la pace viene sempre dopo la guerra, dopo una situazione conflittuale che si chiude inevitabilmente con un vincitore, con qualcuno che ha avuto la meglio su un altro. Non così la pace cristiana, nella quale non esiste prevaricazione né disfatta. L'icona di questa "pace che accomuna" ci viene dalla parabola della misericordia, nella quale il Padre esce di casa non una ma due volte: la prima per correre incontro al figlio ritrovato ed accoglierlo nell'abbraccio del suo perdono; la seconda per attirare nello stesso abbraccio il figlio maggiore e pregarlo di entrare anche lui nella gioia della festa (cf. Lc 15,11-32).
Una pace, dunque, che supera il dissidio e compone ogni separazione. Una pace che, pure, ha in sé una certa "violenza" tesa ad abbattere il muro dell'inimicizia che si frappone fra gli uomini e i popoli (cf. Ef 2,11). Gesù stesso, in un passo duro da ascoltare e apparentemente controverso, dice di essere venuto a portare sulla terra il "fuoco" e la "divisione" (Lc 12,49.51): si tratta però del fuoco dello Spirito, della creazione nuova, della caduta delle nostre ragioni che ci ostiniamo a ritenere giuste "contro" le ragioni degli altri; e si tratta della divisione che nasce dal Libro aperto che mette in crisi e sconvolge tutti i nostri ragionamenti e i nostri cattivi accordi.
Questa divisione è "lo strazio di Dio", il "pane spezzato", il Padre che "esce due volte" dalla casa. Dividere per unire: «la carità ci spezza, l' ''andate'' liturgico ci semina e ci sparge nel mondo ma per portarvi il dono della comunione. Ecco, la pace cristiana passa per l'azione, ma è anche attraversata dal dolore, ed ha nella croce la sua arma più forte». Ma l'impegno dei cristiani speso nella quotidianità del vissuto relazionale è espressione autentica della loro fedeltà al Vangelo, testimonianza chiara e riconoscibile anche per i fratelli musulmani, ai quali bisogna rendere visibile che «la carità è universale». La fedeltà evangelica non può prescindere dal servizio all'uomo, consapevoli che il servizio cristiano non può chiudersi in se stesso, ma deve essere pronto ad «aprire a chiunque bussi» senza esitazione. In diaconi incarnati nel tessuto di una umanità povera e sofferente devono rendere un servizio che si fa presenza, sollecitudine, vicinanza, annuncio, incontro, scambio.
Per comprendere la diaconia della Chiesa, bisogna meditare il brano della Scrittura dove Gesù legge il rotolo di Isaia nella sinagoga rivelandosi come il Messia promesso. Il programma di vita di ogni battezzato - e del diacono in modo particolare - è descritto proprio da questo passo: testimoniare la tenerezza e l'amore di Dio, aiutare tutti indistintamente a «liberarsi dalle catene», consolare, aver compassione, "esserci" prima ancora di parlare, essere là accanto a chi soffre per amare e servire. La povertà ha tanti volti: mancanza di pane, di lavoro, di cure. Ma la povertà più grande è la mancanza d'amore, una mancanza cui possiamo dare risposta solo con l'aiuto misericordioso di Dio, il cui grande cuore supera e compensa i nostri limiti, le nostre separazioni.
Il diacono dimostra in modo particolare la solidarietà fra Chiesa e mondo affermata nella frase di apertura della Gaudium et Spes, una solidarietà che ha bisogno di essere resa visibile, rafforzata e tutelata, perché la storia mostra quando facilmente essa possa infrangersi. È di grande importanza avere dei "segni" di non-separazione che camminano e parlano - segni di solidarietà i mezzo alla Chiesa -, per radicare questo principio in tutti noi. Poiché essi hanno un ministero sacro, pubblicamente espresso nella liturgia, ed anche, quasi sempre, una professione secolare ed una vita coniugale e familiare, i diaconi richiamano a tutti noi che la Chiesa ed il mondo si appartengono reciprocamente.
La Chiesa-Popolo di Dio, dal Concilio in poi, ha preso sempre più coscienza che «essere nel mondo, ma non del mondo» non significa chiudersi in una "apoliticità" dentro la quale sarebbe impossibile incontrare l'uomo di oggi e comunicare con lui. Il Vangelo si incarna nella storia dei singoli e dei popoli, e la redime dal di dentro: la realtà sociale, politica ed economica del "qui ed ora", il vissuto degli uomini e delle donne del nostro tempo costituiscono la destinazione prima ed ultima dell'annuncio e di tutta la testimonianza cristiana. Andando coraggiosamente al cuore delle motivazioni che raffrenano lo slancio evangelico dei cristiani ad essere operatori di pace in questo nostro tempo così lacerato da conflitti e divisioni, diffidenze e chiusure, non si può non riflettere su come testimoniare «la diaconia nel tempo di guerra».
Se fermiamo infatti lo sguardo sui conflitti che travagliano il nostro tempo, ci accorgiamo di essere oggi di fronte ad argomentazioni ragionevoli e coerenti sul piano della forma e delle parole, ma che necessariamente perdono ogni fondamento e si sbriciolano di fronte all'uccisione dei civili innocenti. Quella che sovente giustifichiamo con il diritto alla legittima difesa è in realtà una guerra fallita negli obiettivi. Intrappolati nella morsa della paura, che genera la violenza e moltiplica all'infinito le diffidenze e le separazioni, commettiamo l'errore di non giudicare la guerra nell'unico modo possibile alla coscienza cristiana, ossia partendo dal grido delle sue vittime, e ci sentiamo convinti ad operare secondo principi che derogano dal Vangelo e mettono tra parentesi la Parola di Dio. Bisogna, allora, cercare altre strade, più attente al grido muto delle vittime e più fedeli al Vangelo; bisogna camminare sulle orme di cristiani-profeti che hanno davvero servito la pace, spendendosi per essa e tenendo viva la coscienza e fisso lo sguardo alla meta lontana.
Papa Giovanni XXIII è la prima di queste figure profetiche. Vissuto nel secolo delle due guerre mondiali, del muro di Berlino, della crisi dei missili a Cuba, egli ha fatto della pace il cuore stesso del suo ministero, dicendo al mondo che «servire la pace significa servire meglio il vangelo». Pace che previene i conflitti, pace nel cuore di ogni uomo. Con lui, che volle il Concilio come a "sanazione" dei due conflitti mondiali, si inaugura una nuova diaconia, quella del "discernimento dei segni dei tempi" senza la quale non si comprende né il Vangelo né la storia.
La seconda figura che può aiutarci ad apprendere la diaconia della pace è mons. Romero, altra voce profetica donata alla Chiesa del nostro tempo, ci insegna con il suo martirio come il servizio della pace evangelica sia sempre a caro prezzo. Scegliendo la "via inerme" del vangelo dei poveri, i quali sono «il popolo crocifisso come Gesù, il popolo perseguitato come il Servo di Jahvè», egli affida la sua intera esistenza al vangelo sine glossa, che in ogni tempo diventa appello alla conversione per i violenti e consolazione per le vittime. Ecco, oggi ancor più che in passato la via del diaconato ha la sua "cruna d'ago" nella diaconia della pace e dei poveri. Essendosi disarmati essi per primi, i diaconi sono chiamati a rendere disarmate anche le loro Chiese, «disarmate nella penitenza, nella conversione e nella carità condivisa, riconoscendo la via della pace che è la via della croce e dell'amore». Molti, dunque, gli interrogativi che costituiscono i punti nodali attorno ai quali incentrare il lavoro nel prossimo futuro. Questi i più rilevanti:
- la diaconia come ingresso nella prigionia e nel conflitto: come può il diacono entrare nel conflitto ed aprirlo alla riconciliazione?
- l'annuncio della pace come epifania dell'amore: quale annuncio di pace nelle nostre parrocchie e nelle nostre diocesi? Quale annuncio dalle nostre comunità al mondo? E quale profezia della pace nel dialogo con le altre religioni?
- mitezza del crocifisso e giudizio del mondo: come sottomettersi al paradosso di ciò che il mondo definisce stoltezza, scandalo, follia, e che è presente nella condizione dei più poveri?

Fraternità e missionarietà
Alla luce di queste riflessioni, comprendiamo che il dono della pace non è scontato, non si conquista dal basso, né si consegue percorrendo tutti i passi di un percorso ovvio, quasi fosse il punto di approdo di uno scontato teorema morale alla portata di tutti i volenterosi: in questo caso non ci sarebbe bisogno della grazia e di nessun Salvatore e, quindi, non sarebbe richiesta nessuna vera conversione. La pace, infatti, non giunge alla fine di un ragionamento ben condotto o come iniziativa che, sapendo cogliere gli elementi opportuni, si impone alla coscienza di tutti. Dal documento dei vescovi italiani "Comunicare il vangelo in un mondo che cambia. Orientamenti pastorali dell'episcopato italiano per il primo decennio del 2000" emergevano due possibili impegni per i diaconi.
Un primo impegno: farsi promotori di fraternità diaconale secondo una creatività che partendo dalla Parola letta insieme, diventa quello che lo Spirito suggerisce alle Chiese. La seconda proposta è un rapporto di comunione tra chiese. La comunione è il segno caratterizzante il discepolato, ma non solo: fin dai tempi di sant'Ignazio di Antiochia, essa era il "vincolo della cattolicità", e proprio il diacono era preposto alla visita di comunione non solo per i malati, per i lontani, ma anche per le chiese. Chi accompagnava Ignazio di Antiochia nel suo viaggio di incatenato per Cristo? Chi lo veniva a salutare per conto del vescovo? I diaconi.
La visita alle chiese, alle comunità, esprime esattamente quel bisogno di comunione che lo Spirito ispira. La visita è la volontà di condividere i doni e di partecipare della vicenda pasquale dell'altro. Ci sono chiese che hanno già preso la bella consuetudine di visitare tutti insieme altre chiese, o di gruppi diaconali che visitano altri gruppi diaconali. C'è una duplice conformazione a Cristo: una che passa per il dono dello Spirito donato nella creazione, ed è sempre in vista di Lui e per Lui che è stato fatto, e una eucaristica, sacramentale in forza del battesimo che ci è stato donato. Quindi anche i non battezzati hanno quell'orientamento profondo, anche se inconsapevole, verso Cristo: il Padre ha creato guardando il Figlio e tutto in vista di Lui. Dobbiamo chiedere al Signore che ci conceda la grazia di avere occhi per vedere quello che Lui vede... Molte volte basta poco per condividere la sofferenza degli altri, di quelli che ci stanno vicino.
Nel documento "Comunicare il vangelo..." i vescovi italiani mettono insieme fraternità diaconale e missionarietà, comunione e visita alle altre chiese. Il n. 47 e seguenti tratta de «Il Giorno del Signore e la comunità parrocchiale. Tempo e spazio per la crescita realmente eucaristica». Sappiamo che l'Eucaristia è fonte e culmine di tutta la vita della chiesa. Scoprire che il fondamento di ogni fraternità è l'Eucaristia e che l'Eucaristia spinge alla fraternità; scoprire che il fondamento di ogni missionarietà, di ogni volontà di comunione, è ancora l'Eucaristia significa forse invertire la rotta o per lo meno correggerla con coraggio e carità. Si tratta di un servizio e di una testimonianza di cui i diaconi dovrebbero essere promotori, a partire dalla scelta primaria di santificare la Domenica, facendola ritornare ad essere il cuore vitale della settimana cristiana.
Bonhoeffer diceva che uno dei motivi dell'imbarbarimento dell'Europa, della sua Germania era la «profanazione del Giorno del Signore». Di fronte alla nostra autosufficienza occidentale, di fronte alla nostra abilità di "moltiplicare" messe a nostro uso e consumo, i fratelli islamici possono forse insegnarci a recuperare il senso creaturale del metterci davanti a Dio, che è tutto. Islam vuoi dire sottomissione a Dio. Noi soffriamo ormai di un "deficit di trascendenza". Certo noi siamo amici e non servi, e chiamiamo Dio "Padre". Ma l'amico fa esattamente tutto quello che fa il servo con l'entusiasmo di chi condivide e non con la paura di chi deve eseguire; e il figlio sa di avere proprio nel dono di questo suo vincolo filiale l'origine stessa della sua libertà. È importante, pertanto, recuperare questo rapporto creaturale con Dio (Rm 1,17ss.) e viverlo come Maria con l'abbandono di una fede umile e forte.
Maria a Cana non può anticipare l'ora, ma può affrettarne il segno che dà speranza. La Chiesa può ottenere quello che Maria con schiva osservazione ottiene dal Figlio. C'è un ruolo tutto mariano del diacono, nell'anticipare il segno della pienezza salvifica: «Fate quello che Lui vi dirà». Accettiamo che Lui parli. Questo in fondo è il sentire tipicamente diaconale. Il diacono proclama una parola che non spiega all'assemblea, perché ha un ruolo mariano, non meno fecondo e creativo, di spezzarla ai poveri e ai piccoli a cui è inviato. La comprensione di questa distinzione di ruoli nell'unico sacramento dell'ordine ricorda che il servizio non si misura in termini mondani di visibilità, di apparenza, ma secondo il modello discreto consegnatoci da Maria.
«Finisca il rumore delle armi! La guerra segna sempre il fallimento della pace, è sempre una sconfitta dell'umanità. L'umanità ha bisogno di vedere gesti di pace e di sentire parole di speranza e di pace! Continuiamo, dunque, senza stancarci a pregare per la pace», ha detto il papa al termine della veglia. Il nostro ministero di diaconi, dunque, si incarna nell'oggi della storia, nel travaglio del nostro tempo, nella sfida delle tante nuove povertà sulle quali dobbiamo chinarci. Di fronte ad un compito così vasto, capillare ed impegnativo, ci rivolgiamo a Maria, modello ed esempio di ogni diaconia: lei, serva del Signore, faccia crescere in noi l'umiltà del servizio, la premurosa tenerezza dell'amore, la fedeltà forte sino alla fine, affinché in questo tempo assetato di pace nel quale l'inquietudine del nostro cuore rivela la sete che abbiamo di Dio e della sua pace, possiamo vivere per il bene e il futuro dell'umanità la diaconia della fede, della speranza e dell'amore.


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