Enzo Bianchi
GESÙ, DIO-CON-NOI, COMPIMENTO DELLE SCRITTURE
Il vangelo festivo (Anno A)
Edizioni San Paolo, 2010
• Isaia 45,1.4-6 • 1 Tessalonicesi 1,1-5b • Matteo 22,15-21
«Rendete a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio»: questo detto di Gesù, che lungo i secoli ha conosciuto un'enorme fortuna, esige da noi cristiani la responsabilità di un'interpretazione intelligente e sempre rinnovata nei diversi contesti storici, di un discernimento dal quale discenda una prassi conseguente nella compagnia degli uomini.
Gesù ha appena svelato gli ostacoli opposti dalle autorità religiose alla salvezza offerta da Dio, ed ecco che i farisei «tengono consiglio» contro di lui, come già avevano fatto in precedenza (cfr. Mt 12,14) e come il sinedrio farà per arrestarlo (cfr. Mt 26,4; 27,1). Qui i farisei cercano di coglierlo in fallo nei suoi discorsi; a loro si uniscono gli erodiani, sostenitori di Erode Antipa tetrarca di Galilea, ossequienti al potere romano. Costoro si rivolgono insieme a Gesù con parole adulatrici, che in realtà sono taglienti come la lama di un pugnale (cfr. Sal 55,22): «Maestro, sappiamo che sei veritiero e insegni la via di Dio secondo verità e non hai soggezione di nessuno perché non guardi in faccia agli uomini». Eppure, contro la loro stessa intenzione, stanno dicendo il vero: Gesù parla con franchezza, rivela la volontà di Dio a tutti, a chi è disposto ad accoglierla come a chi la rifiuta in nome dei propri schemi e delle proprie tradizioni (cfr. Mt 15,3)...
Segue la domanda trabocchetto: «Dicci il tuo parere: È lecito o no pagare il tributo a Cesare?». Essi vogliono cogliere in fallo Gesù nella sua collocazione politica: la sua risposta dovrebbe rivelarlo come collaborazionista del potere romano, dunque inviso al popolo, oppure come nemico dell'imperatore, dunque denunciabile in quanto ribelle. Che la questione sia grave lo mostra l'accusa falsa mossa a Gesù dal sinedrio di fronte a Pilato: «Abbiamo trovato costui che impediva di dare tributi a Cesare» (Lc 23,2), uno dei motivi addotti per la sua condanna a morte... Ma Gesù, riconoscendo la doppiezza dei suoi interlocutori, sa discernere il vero movente della loro domanda: «Ipocriti, perché mi tentate? Mostratemi la moneta del tributo». Alla vista del denaro d'argento usato per pagare questa tassa, egli pone a sua volta una domanda: «Di chi è questa immagine e l'iscrizione?». E udita la risposta: «Di Cesare» - cioè di Tiberio Cesare, l'imperatore dell'epoca -, proclama: «Rendete a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio».
Gesù non dà ricette sul comportamento politico, ma lo trascende: non invita a ribellarsi ai romani né benedice l'assetto esistente, come se Cesare fosse un ministro di Dio. No, afferma semplicemente che occorre rendere a Cesare ciò che egli ha il diritto di esigere: la tassa. Poi aggiunge, senza che la domanda postagli lo richieda: «Rendete a Dio quello che è di Dio». Ovvero, di fronte a Cesare c'è un ordine più alto, quello di Dio, cui occorre rendere ciò che gli appartiene, cioè tutto, essendo «sua la terra e quanto contiene» (cfr. Sal 24,1): a Dio bisogna offrire tutta la propria persona (cfr. Rm 12,1)! È alla luce di questo primato che va relativizzato ciò che compete a Cesare: se il potere politico pretende per sé l'adorazione che spetta a Dio - come faceva l'imperatore -, il cristiano non è tenuto a dargliela; se l'autorità statale può richiedere il rispetto (cfr. Rm 13,7), il timore va riservato solo a Dio (cfr. 1Pt 2,17). In altri termini, Gesù afferma una distinzione essenziale tra politica e religione. Negare tale distinzione è una tentazione costante, e colpisce sia i «difensori» di Dio che quelli di Cesare: sempre troviamo quanti vorrebbero identificare la fede cristiana con l'ordine politico, auspicando uno stato confessionale, e quanti vorrebbero specularmente un ordine politico sostenuto dalla religione, con l'esito della «religione civile»...
Sì, il credente in Gesù Cristo è colui che «sta nel mondo senza essere del mondo» (cfr. Gv 17,11-16), che abita con piena lealtà la città degli uomini ma la cui vera cittadinanza è nei cieli (cfr. Fil 3,20). È quanto si legge anche in uno splendido scritto delle origini cristiane, l'A Diogneto: «I cristiani non si distinguono dagli altri uomini né per territorio, né per lingua, né per abiti. Abitando città greche o barbare, danno esempio di uno stile di vita meraviglioso e paradossale. Essi abitano una loro patria, ma come forestieri; a tutto partecipano come cittadini e a tutto sotto stanno come stranieri; ogni terra straniera è patria per loro e ogni patria è terra straniera».
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