VIII Domenica del Tempo ordinario (A)

ANNO A - 2 marzo 2014
VIII Domenica del Tempo ordinario

Is 49,14-15
1Cor 4,1-5
Mt 6,24-34
NON PREOCCUPATEVI
DELL'ALTRUI GIUDIZIO

L'imperativo che viene costantemente coniugato, quasi come un ritornello, nel brano evangelico di questa domenica è: «Non preoccupatevi!». Nella sua accezione originaria mette in guardia, più che altro, dall'ansia nella preoccupazione, che conquista le persone e le cattura. È una modalità di vita, che accomuna tanti in questo nostro tempo. Anzitutto tale imperativo viene collegato con la constatazione che non si può servire a due padroni, e quindi si deve operare una scelta tra Dio e la ricchezza (la fatidica "mammola"!), per non correre il rischio di lasciarsi carpire da quest'ultima. In altri termini, si tratta di porre nella propria esistenza la capacità della rinuncia, contemplata già nella professione di fede battesimale e riferita esplicitamente a Satana e alle sue opere e seduzioni.
Non va assolutamente trascurata simile prospettiva, perché, per aderire pienamente a Dio ("Credi in Dio, Padre onnipotente... ?"), bisogna rinunciare ad altri dei, creati dal nulla e sul nulla. Il simbolo, pertanto, professato durante la liturgia, dovrebbe comportare, almeno in qualche circostanza significativa, tale rinuncia, perché coinvolga la persona che lo professa, non a parole, ma con la concretezza del vissuto.

Le preoccupazioni/tensioni cui bisogna rinunciare, esemplificate nel brano evangelico, sono fondamentalmente quelle legate li cibo e al vestito. Preoccupazioni che vengono bollate dal Vangelo come tipiche dei "pagani", cioè di coloro che non credono nella paternità di Dio. Gli argomenti, detti a "fortiori", che incalzano, esprimono questa fiducia nella priorità dell'azione divina, chiamata "provvidenza": «Guardate gli uccelli del celo, i gigli del campo: non seminano, non mietono, non raccolgono, non filano [...J, eppure il Padre vostro celeste si prende cura di loro».
Il senso della provvidenza, certo, non esclude, ma implica quello della previdenza, pure evangelica, cioè della laboriosità umana per procurarsi quanto è necessario alla vita di ogni giorno. Il categorico rimbrotto paolino è quanto mai eloquente al riguardo: «Chi non vuol lavorare, neppure mangi!» (2Ts 3,10). Tuttavia anche la capacità lavorativa va subordinata al dono divino, in quanto, se non cè salute, se non c'è aiuto dal cielo, come si può attuare qualsiasi compito o attività? L'homo faber dimentica con facilità, allorché è nella pienezza delle forze, che quanto opera è in sinergia con chi gli dà la forza di attuarlo. Con facilità si ritiene autonomo, indipendente da tutti. Cercare anzitutto il regno di Dio e la sua giustizia - nel senso evangelico del termine - significa confidare in questo Dio provvidente, che non trascura assolutamente l'uomo, anzi, gli dona quanto è necessario alla sua vita, perché sa di che cosa ha bisogno, ancor prima di chiederlo.

Simile orientamento si radica nel valore della vita, pure richiamato dal brano evangelico: «La vita non vale forse più del cibo e il corpo più del vestito?». Mai si è chiarito a sufficienza tale interrogativo, che esprime la priorità dei "valori" e la loro irrinunciabilità. E ancora: «Chi di voi, per quanto si preoccupi, può allungare anche di poco la sua vita?». Si è «gente di poca fede» se non si sa apprezzare convenientemente la presenza di Dio nella propria esistenza, che il piccolo, ma gustoso brano di Isaia paragona a una donna, la quale non può non commuoversi per il figlio delle sue viscere. Però, anche se ciò dovesse malauguratamente capitare, è sicuro che non succederebbe da parte di Dio: «Io non ti dimenticherò mai».
Il confronto con tante situazioni tragiche, quando Dio sembra non esserci, o essersi dimenticato di noi, potrebbe aprire il dibattito su questa asserita certezza e su come è stata e viene vissuta, pur di non ridurre la fede a una modalità di assolutismo, oppure a comportamenti ansiosi che, nella fattispecie, possono diventare disperazione.

Sempre in simile contesto si pone la preoccupazione del domani, logica, ma ancora non affannosa, perché «a ciascun giorno basta la sua pena»: è il senso della provvidenza, in definitiva, che ricalca la modalità tipica del pregare cristiano, suscitando quella fiducia che non può mai venir meno. Da una parte, infatti, si obbedisce all'esortazione di non sprecare parole, come i pagani, perché «credono di venire ascoltati a forza di parole» (Mt 6,7). È piuttosto il silenzio, il segreto, la fiducia interiore a costituire la preghiera o a ispirarla, quando la si esprime verbalmente. A tal proposito sarebbe bene interrogarsi su certe modalità prolisse di orazione, o comunque sul convincimento, pure legalizzato, che pregare equivale a dire, sempre, magari bisbigliando sottovoce, come nelle concelebrazioni, o articolando soltanto le labbra, come nell'ufficiatura, perché solo così diventa valida!
Dall'altra, la preghiera è invocazione della venuta del Regno, intesa non solo genericamente, ma anche nella sua quotidianità, del ciascun giorno con la sua pena: «Dacci oggi il nostro pane quotidiano... » (Mt 6,11). A ragione, allora, Paolo ci esorta ad essere servi di Cristo e amministratori dei misteri di Dio. In fondo è questo l'atteggiamento che anche la celebrazione eucaristica ci induce a ricalcare: «Fate!», sì, certo, ma «in memoria di me!». La nostra collaborazione è irrinunciabile, ma in stretto legame con la persona di Cristo. È essenziale che risultiamo fedeli: a Dio, alla vita, alla storia, agli altri.

VITA PASTORALE N. 2/2014
(commento di Gianni Cavagnoli, docente di teologia liturgica)

--------------------
torna su
torna all'indice
home