Per servire nella carità


Il diaconato in Italia n° 180
(maggio/giugno 2013)

RIFLESSIONI


Per servire nella carità
di Andrea Spinelli

Se chiediamo a qualcuno, oltre naturalmente che a noi stessi, che cosa sia la fede, la prima risposta sarà quasi certamente: la fede è credere, credere che esiste Dio, l'Essere supremo, che sta al di sopra di noi, è onnipotente, onnisciente e onniveggente. Una simile risposta pare che soddisfi molti, la conferma spesso presbiteri e diaconi l'hanno durante le benedizioni delle famiglie in occasione del Natale (rito ambrosiano).
Talvolta, anche senza una domanda specifica (che non facciamo per rispetto della libertà individuale), qualche parrocchiano si sente in dovere di spiegarci perché non lo vediamo a Messa la domenica (se non nelle solennità "indispensabili"): «Vede, padre, la domenica non riesco a venire in chiesa per la messa, poiché, dopo una settimana di lavoro, ho tanto da fare in casa e proprio il tempo non me lo permette. Comunque le preghiere le dico ogni giorno, mattino e sera, perché io ci credo, so che Dio c'è e Lui senz'altro sa che non vengo perché non posso, non perché non voglio».
Allora si tenta un discorso, che non appaia troppo duro, ma che faccia capire che credere non si riduce a un atto della mente, ma deve esprimersi in atti concreti. «Noi cristiani, cattolici per di più, siamo stati battezzati e siamo entrati a far parte di una grande famiglia, la Chiesa. Ora dobbiamo professare la nostra fede non solo come singoli ma come famiglia, ritrovarci, riconoscerci figli dello stesso Padre e fratelli veri, ancor più che se fossimo nati dalla stessa madre naturale». Tante altre cose si potrebbero aggiungere, ma con la benedizione si cerca di ristabilire un contatto, con la promessa di rivederci non dopo un anno, ma molto prima, magari in occasione quotidiane, non solo straordinarie. La fede va celebrata e l'eucarestia domenicale è il momento a ciò deputato, un incontro con il Signore e con i fratelli che non può essere sostituito da niente altro. A questo fine i ministri ordinati hanno un compito primario: far comprendere, non tanto e non solo a parole, che la Messa non è un obbligo, un precetto giuridico, osservato il quale posso stare tranquillo in coscienza e non devo confessarmi, quando, come dice il popolo, "perdo messa" e cerco il confessore per dirglielo, poiché voglio fare la comunione.
L'eucarestia è il momento principale della settimana, nel giorno del Signore, al quale arriva tutto il carico "vitale" della settimana e dal quale tutto riparte per la "Messa nella vita". A questo proposito se la conclusione «Andiamo in pace» (rito ambrosiano) va capita bene, allo stesso modo «La Messa è finita, andate in pace» va sempre (se non se ne usa un'altra) compresa nel suo vero significato, ossia: il rito è finito in chiesa, ora deve continuare nella vita di ogni giorno, la comunità e il singolo sono inviati (missi) a vivere ciò che hanno celebrato. La fede deve dirsi nell'esercizio della carità. Ma se la parola fede può essere ambigua, forse lo è ancora di più la parola carità.
Come per la fede poniamo ancora la domanda all'uomo della strada (in una società storicamente e radicalmente cristiana), di cui facciamo parte anche noi: che cos'è la carità? La prima risposta sarà sicuramente: la carità consiste nel dare qualcosa a chi ce lo chiede, perché ne ha bisogno; la carità è dare qualcosa che ho in più a chi ha meno del necessario, insomma la carità è privarsi di qualcosa a favore di un altro, dimostrando quindi attenzione e sensibilità. Se siamo sinceri e non siamo alla ricerca di risposte che ci acquietino, almeno parzialmente, la coscienza, quanto detto non è carità, ma giustizia. Adempiere agli obblighi di giustizia è un dovere a cui soddisfare, ma non deve essere presentato o creduto come dono di carità.
Così Benedetto XVI nell'enciclica Caritas in veritate (n. 6): «La carità eccede la giustizia [...]. Non posso donare all'altro del mio, senza avergli dato in primo luogo ciò che gli compete secondo giustizia [...]. La carità supera la giustizia e la completa nella logica del dono e del perdono. La città dell'uomo non è promossa solo da rapporti di diritti e di doveri, ma ancor più e ancor prima da relazioni di gratuità, di misericordia e di comunione». In tutto ciò il cristiano si riconosce e, senza calcoli specifici, ricerca l'equilibrio tra fede e carità. Tanto più il diacono, il servitore per definizione: non vive in modo autonomo il rito, l'eucarestia soprattutto, da una parte, e il servizio ai fratelli dall'altra. Certo il pericolo, meglio il rischio, esiste, ma la vigilanza del ministro gli permette di rendersene conto e di operare perché la fede si renda operosa per mezzo della carità e la carità attinga in continuazione alla sorgente inesauribile della fede celebrata. A questo punto sarebbe bello conoscere l'esperienza concreta di molti diaconi che, senza preconcetti o pregiudizi di sorta, riflettano sul loro "servire" e scoprano dove "scivola" il loro agire.
Qualcuno forse scoprirebbe che è affascinato dalle celebrazioni liturgiche, le desidera ed è soddisfatto ogni volta che può parteciparvi nella sua specifica funzione; qualche altro, per scarsa o carente comprensione del valore del rito, si accorgerebbe che di solito evita, se può, il servizio liturgico. Il primo potrebbe rendersi conto che il gusto delle celebrazioni lo rende meno sensibile alla diaconia delle mense, il secondo forse a lungo andare potrebbe vedersi come un bravo assistente sociale e trascurare il servizio dell'altare. L'equilibrio tra la diaconia dell'altare e la diaconia della "strada" procede da una rinnovata consapevolezza che celebrare la fede e servire nella carità sono le due facce della stessa medaglia.



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