Sembra proprio che la liturgia domenicale non abbia altro da insegnare se non la fede. Quando lo dimentichiamo, avviene allora quello che Paolo temeva, e cioè che predichiamo noi stessi e non l'Evangelo. Anche parlando di Dio, anche insistendo su valori e comportamenti, anche consigliando modi di vivere, si può predicare sé stessi e non l'Evangelo. VITA PASTORALE N. 8/2013
XXVII Domenica del Tempo ordinario
Ab 1,2-3;2,2-4
2Tm 1,6-8.13-14
Lc 17,5-10
NASCE DALL'ASCOLTO
È possibile che la vera e autentica buona notizia sia solo una, la fede? E poi: che significa "credere"? La domanda degli apostoli a Gesù tradisce una visione quantitativa della fede, oggettivabile e misurabile. Una visione che la risposta di Gesù ribalta invece totalmente. Noi parliamo della fede come di qualcosa che si perde o si trova, che si ha o non si ha. Come fosse il portafoglio o gli occhiali. Per questo pensiamo che alcuni ne abbiano di più e altri di meno.
La prospettiva di Gesù è tutt'altra: la misura della fede è data dall'incommensurabile, cioè dal rapporto tra l'infinitamente piccolo, il granello di senape, e l'impossibile che un albero se ne vada a gettare le sue radici nel mare. Non è questa forse la logica del regno di Dio secondo la quale un seme gettato a casaccio produce comunque un raccolto imprevedibilmente ricco?
Credere significa, allora, cambiare logica. Perché la fede parte da una visione. Sono visionari i profeti, da Mosè a Zaccaria; è visionario Gesù, sono visionarie le donne al sepolcro; sono visionari i discepoli, sono visionari tutti gli apostoli di un Maestro che è asceso al Padre. E giù, giù fino a noi. Le parole di Abacuc sono illuminanti. Nessuno può sottrarsi alla visione della realtà così come è, del mondo nel quale siamo inseriti, della storia di violenza e di sopraffazione che giorno dopo giorno scorre davanti ai nostri occhi.
Una storia di fronte alla quale il profeta si pone come sentinella che aspetta risposta e Dio sembra invece essere, inizialmente, solo un inerte spettatore. Il giusto, però, avrà anche l' "altra visione", quella incisa dal profeta sulla tavoletta, che si può leggere speditamente, ma che impone un punto di vista totalmente altro. Un termine, una scadenza, all'ingiustizia, alla rapina, alla sopraffazione. Dio li ha posti e, se la fine indugia a venire, bisogna saperla attendere. Tornano in mente tante parole di Gesù che invitano proprio a questo: saper attendere. Su questo si gioca la fede che non è qualcosa di diverso, però, dalla vita. Soccombere o vivere dipenderà infatti solo da questo: il giusto è tenuto in vita solo dalla sua fede. Credere significa dunque stare nella storia con altri occhi, altra logica.
Ma c'è di più. La fede, come Paolo dimostrerà di aver capito molto bene, non è una credenza, ma un'obbedienza. Per questo Luca fa seguire al detto di Gesù sulla forza paradossale di chi crede un insegnamento che, a prima vista, pare poco conseguente. Credere significa obbedire: tutta la Bibbia non fa che riproporre questa equivalenza tra fede e obbedienza. E l'islam, forse, avrebbe da dirci al riguardo più di quanto noi siamo in grado di saper ascoltare.
La fede è una prassi. Comporta saper partire, come ha fatto Abramo, saper disciplinare la propria vita insieme a quella di coloro che condividono con noi la stessa appartenenza, come ha fatto Mosè, sapersi mettere all'ascolto di un Dio che sceglie sempre strade diverse, non convenzionali, per far vincere dentro la storia la causa della giustizia e della pace. Come hanno fatto tutti gli uomini e le donne di Dio. Gesù non si è sottratto a questa logica e come Abramo, Mosè e i profeti, anche lui ha creduto. Dal deserto delle tentazioni all'orto degli ulivi, la sua obbedienza di fede è stata frutto di una lotta, di una decisione, di un abbandono. Essere Figlio, per Gesù come per ognuno di coloro che credono nel suo stesso Dio, non ha mai significato sfuggire all'obbedienza, ma apprenderla giorno dopo giorno, fino a farne la sua stessa identità. Ma in nessun modo motivo di scambio.
Non si tratta di un' obbedienza contrattuale, che possa aspirare a ricompensa o gratitudine. È un'obbedienza che porta a esprimere nel fare ciò che ciascuno è. Il problema delle nostre Chiese è, troppo spesso, che tutti si gloriano di essere servi, ma pochi lo sono effettivamente. Abbiamo costruito un'ideologia del servizio che sconfina in mille forme di privilegio e in mille manifestazioni di prepotenza. Lo dimostra la vita di tante comunità, lo attesta la confusione tra essere servi ed essere servili, lo conferma lo smarrimento di tanti figli che non hanno mai imparato l'obbedienza o di tanti genitori che l'hanno pretesa, ma non l'hanno mai praticata. Credere significa riconoscersi servo, ma non asservito.
Non è un discorso facile. I giudei e i cristiani l'hanno spesso tradotto in una precettistica più o meno ossessiva, più o meno rigida, che non ha però nulla a che vedere con l'obbedienza della fede. La precettistica serve alla costruzione e al mantenimento del sistema religioso, stabilisce controlli e dà potere a controllori, ma non alimenta la fede. L'obbedienza che nasce dall'ascolto è altra cosa. Sgorga dal nucleo più profondo della persona che arriva a mettere in campo atteggiamenti e comportamenti perché non può essere che così. Non chiede, d'altra parte, nulla in più o di diverso da ciò che si vuole e si può dare. Per questo è scuola di libertà.
(commento di Marinella Perroni, docente di N.T.)
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XXVII Domenica del Tempo ordinario (C)
ANNO C – 6 ottobre 2013
IL DONO DELLA FEDE