XXX Domenica del Tempo ordinario (B)


ANNO B – 28 ottobre 2012
XXX Domenica del Tempo ordinario

Ger 31,7-9
Eb 5,1-6
Mc 10,46-52

IL VERO MIRACOLO
È QUELLO DELLA FEDE

Il viaggio verso Gerusalemme è ormai quasi alla fine: Gesù sta per entrare nella città santa dove avrà inizio la sua passione. Quanto finora è stato ventilato, annunciato, predetto si compirà e il Messia passerà attraverso la sofferenza e la morte. Con l'episodio del miracolo della guarigione del mendicante cieco inizia dunque l'ultimo pezzo di strada che manca per arrivare a Gerusalemme e arriva a conclusione la sezione narrativa che si era aperta con la confessione da parte di Pietro della messianicità di Gesù: tra tante opposizioni e incomprensioni, dubbi e tradimenti, il cammino del Messia arriva al suo compimento. Gerico era il luogo da cui prendeva le mosse l'ultimo tratto del pellegrinaggio verso la città santa. Il mendicante cieco si metteva sulla strada che dalla città va verso il deserto di Giuda e prosegue poi salendo verso Gerusalemme perché sapeva che da lì passava la folla dei pellegrini. Per questo la scena è particolarmente animata.
Lo conoscevano tutti come il figlio di Timeo perché era usuale in Palestina venir identificati con il nome del genitore, ma forse anche perché l'handicap di un figlio è una disgrazia prima di tutto per la famiglia. In realtà però, nonostante fosse cieco, il figlio di Timeo aveva imparato a farsi valere. Soprattutto, si era fatta un'idea di come la pensava la gente e aveva capito che dalla venuta del Messia quelli come lui, ciechi e mendicanti, dovevano aspettarsi qualcosa di preciso: riacquistare la vista e, con essa, il diritto a una vita normale.

Per questo, forse, quando aveva sentito parlare di un profeta di Nazaret che provava misericordia per i malati e li guariva, aveva capito che proprio lui doveva essere il discendente del grande re David. I profeti lo avevano detto che il Signore avrebbe salvato il suo popolo; Geremia aveva garantito che nella terra promessa del Regno sarebbero entrati il cieco e lo zoppo, anche loro finalmente esultanti. Il figlio di Timeo, allora, ha capito che la sua guarigione non vale tanto in sé, ma come segno della realizzazione delle profezie, e sa di avere ragione lui: il discendente di David non avrebbe liberato il suo popolo dalla soggezione nei confronti dei Romani con la forza delle armi, né con la sua venuta avrebbe causato catastrofi naturali di tutti i tipi, ma avrebbe avuto pietà.
Il racconto del cieco di Gerico non è allora un semplice racconto di miracolo e per l'evangelista Marco Bartimeo non è soltanto uno dei tanti guariti da Gesù, ma diviene modello esemplare del discepolo. Diversamente infatti da tanti altri che, una volta sanati, se ne erano tornati a casa, Bartimeo si mette a seguire Gesù, diventa suo discepolo. Per il figlio di Timeo la guarigione non è soltanto un risarcimento che Dio deve a chi, nella vita, è stato provato da sofferenza e infelicità, ma è una chiamata a diventare discepolo. Come lo era stato per la suocera di Pietro che, appena liberata dalla febbre, si era messa a servire Gesù o per le donne che Gesù aveva guarito e che per questo si erano messe a seguirlo e a servirlo. Anche per lui fede, guarigione e sequela coincidono.
Tutti quelli che, almeno una volta, sono andati in un luogo dove forte è la speranza di ricevere una guarigione hanno fatto l'esperienza che le cose sono molto diverse da quanto il buon senso comune lascia supporre. In quei luoghi, infatti, al primo posto viene messa la fede e non l'attesa della guarigione. Forse, chi non sa cosa significhi la prova dura di una malattia inguaribile o mortale o di un handicap permanente non può capire e pensa che prima viene il miracolo, poi la fede. Accade, invece, che il vero miracolo sia proprio la fede.

La cecità, allora, non è soltanto malattia, è anche una potente metafora per evocare cosa significa credere. Nel suo sconvolgente romanzo dal titolo Cecità, il premio Nobel José Saramago descrive cosa succede in un qualsiasi Paese del mondo quando un'epidemia di cecità colpisce progressivamente tutti i suoi abitanti fino a determinarne il tragico annientamento. Non si tratta della malattia di alcuni, ma della condizione a cui porta un contagio impercettibile tra uomo e uomo. E un intero gruppo umano, privato della vista, si rinserra nella paura e nella lotta per la sopravvivenza. Un'umanità che non vede è ridotta alla bestialità e alla ferocia, all'abbrutimento, alla violenza e alla degradazione. Per Saramago, all'assenza della vista corrisponde l'assenza della ragione.

Il pittoresco personaggio evangelico di Bartimeo è cieco, ma ha conservato la forza di sperare: sa cosa chiedere, né si fa intimidire da chi vuole metterlo a tacere. La fede vede ancora più lontano e più in profondità che non la razionalità. Che frutti ci aspettiamo allora dall'anno della fede appena cominciato? Sarebbe bene che, con coraggio, ciascuna comunità cristiana partisse dalla coscienza delle conseguenze della propria cecità. Anche, però, della cecità dell'intera Chiesa: la fede non è mai un fatto solo individuale né solo di una conventicola di credenti e l'Anno della fede è stato indetto da Benedetto XVI per tutta la Chiesa cattolica. Sarebbe bello se tutta la Chiesa, come Bartimeo, gettasse via il mantello e balzasse in piedi perché capisce che potrà vedere di nuovo. È vero, riprendere a camminare porterà il figlio di Timeo a Gerusalemme, nella città della passione. Dietro, però, al figlio di David.

VITA PASTORALE N. 8/2012
(commento di Marinella Perroni, docente di N.T.)


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