Una lunga parentesi giovannea interrompe per cinque domeniche la lettura continua del vangelo di Marco e consente un'approfondita riflessione su uno dei grandi discorsi del quarto vangelo, quello del pane di vita. Il testo del libro dei Re che racconta il miracolo della moltiplicazione dei pani ad opera del profeta Eliseo stabilisce un presupposto importante: la narrazione giovannea del miracolo della moltiplicazione dei pani ricalca fedelmente il racconto anticotestamentario del miracolo compiuto da Eliseo e colloca così Gesù nella linea dei grandi profeti d'Israele. Con il suo lungo e articolato discorso sul pane di vita, allora, Giovanni vuole proporre una lettura del gesto profetico di Gesù e conferire ad esso un ricco ventaglio di significati e più che come racconto di un fatto straordinario, la moltiplicazione dei pani va allora capita come "segno" che consente di riconoscere la presenza operante di Dio nella storia. VITA PASTORALE N. 6/2012
XVII Domenica del Tempo ordinario
2Re 4,42-44
Ef 4,1-6
Gv 6,1-15
PANE E SAPIENZA,
BENI DA CONDIVIDERE
Il racconto della moltiplicazione, che occupa all'interno dell'intero vangelo una funzione strategica, serve a introdurre una delle più difficili rivelazioni di Gesù. Ancora una volta l'evangelista insiste sul rapporto tra fede e miracoli. Chi, dopo aver assistito al miracolo e dopo aver egli stesso mangiato il pane nel deserto, si sarebbe potuto rifiutare di credere in Gesù? Proprio dopo questo miracolo, invece, il rifiuto nei confronti della sua parola e della sua persona si fa ancora più ampio e radicale. Tutti lo abbandoneranno e perfino i suoi discepoli saranno tentati di farlo. Il racconto della moltiplicazione dei pani va dunque inquadrato e capito in questa prospettiva inquietante. Se la fede dipendesse dai miracoli, non esisterebbe l'incredulità. Essa è invece legata ai segni, cioè alla necessità di affidarsi alla logica dei significati e non a quella dei fatti.
Il clima del brano è dato dall'indicazione temporale iniziale che rimanda alla festa di Pasqua. Stando al ritmo triennale con cui Giovanni scandisce la narrazione dell'intera vicenda pubblica di Gesù, è la sua seconda Pasqua. L'evocazione dell'epopea pasquale degli ebrei, della loro fame durante il lungo esodo che li porta dalla terra della schiavitù a quella della promessa è dunque quanto mai esplicita, come lo è quella del desiderio di Dio di donare loro un cibo che non sazia unicamente la loro fame di pane. Così, il riferimento a Eliseo, da una parte, e l'allusione all'esodo dall'altra, collocano il gesto di Gesù su un orizzonte teologico che va dall'esodo ai profeti, che abbraccia cioè tutta la rivelazione biblica.
Gli esseri umani hanno fame di pane, ma anche di sapienza; cercano cibo, ma anche rivelazione di Dio. L'esodo d'Israele dall'Egitto verso la terra dove scorre latte e miele supera perciò l'accadimento storico ed è parabola della vita di tutta l'umanità sulla terra. La predicazione cristiana, che capisce la forza della risurrezione e l'effusione dello Spirito come spinte verso tutti i popoli, dovrebbe ricordarlo. Tutti i popoli sono chiamati a uscire dalle terre di schiavitù e ad accedere alla terra della promessa. Com'è possibile allora che proprio i Paesi la cui storia è legata a doppio filo alla diffusione del Vangelo abbiano contribuito con feroce determinazione a organizzare la vita del pianeta in modo tale che abbia accesso al pane solo una stretta minoranza e una moltitudine di uomini e donne muoiano di fame? Anche la nostra sapienza delle cose di Dio va bene troppo spesso solo per il salotto occidentale, ma resta molto distante dalle attese e dai bisogni di tre quarti dell'umanità.
Pane e sapienza sono fatti per essere moltiplicati non accaparrati. Ce n'è per tutti, anzi ce n'è perfino di avanzo. Rispettare il pane e la parola di sapienza come doni di Dio significa riconoscere che la terra è di Dio, che la vita è di Dio, che la storia è di Dio. Ed è terra che dà frutti in abbondanza, vita che va verso la vita che non muore, storia che troverà finalmente nel Regno la sua pacificazione definitiva.
Quanto ancora può continuare l'egoismo dei ricchi che impedisce ai poveri di accedere al pane e alla sapienza? Pensavamo che questo interrogativo ci costringesse ad andare verso Paesi lontani in cui morire per fame rappresenta la norma del vivere, Paesi sufficientemente estranei da non intaccare il nostro immaginario occidentale, così bulimico e al contempo così abulico, così perfezionato e insieme così rozzo, capace di fare del pane un'arte talmente raffinata da perdere il senso della sua essenzialità. E così i nostri giovani sono troppo raffinati per amare il pane e per questo, forse, spesso deridono le parole di sapienza.
La crisi che avanza fa bussare alle nostre porte poveri che non vengono da Paesi lontani, ma dal nostro stesso condominio. Come una guerra, ciò può renderci più buoni o più cattivi. Certo, non sarà possibile celebrare l'eucaristia nelle nostre comunità senza aver prima dato pane a chi lo chiede e parola di sapienza a chi ne ha bisogno. Una "civiltà" che rafforza sé stessa grazie alla logica dello spreco del pane è destinata a far morire i propri figli di fame di sapienza. Lo sappiamo bene perché è cronaca del nostro quotidiano. Come il discepolo Filippo, le Chiese cercano di rispondere alla fame amministrando le risorse e hanno perso la capacità di sperare il possibile. Perché è possibile che il pane sia sovrabbondante: basta condividerlo.
(commento di Marinella Perroni, docente di N.T.)
XVII Domenica del Tempo ordinario (B)
ANNO B – 29 luglio 2012