Anche se invita a rivolgere lo sguardo verso il cielo, la celebrazione liturgica dell'ascensione di Gesù al Padre andrebbe vissuta come festa della terra, dell'umanità, di tutti i popoli. E, forse, oggi più che mai, la festa dell'ascensione, può interpellarci e farci riflettere. Viviamo infatti in un luogo, l'Europa, e in un tempo, quello della globalizzazione in cui, con evidenza tutta particolare, siamo chiamati a confrontarci con dei confini divenuti ormai labili. Globalizzazione significa anche migrazione, e le nostre città, ma anche le nostre comunità, sono ormai, volenti o nolenti, abitate dal mondo. VITA PASTORALE N. 4/2012
Ascensione del Signore
At 1,1-11
Ef 4,1-13
Mc 16,15-20
TENERE INSIEME
LA TERRA E IL CIELO
Gesù, prima di ascendere al cielo, ha comandato ai suoi discepoli di andare in tutto il mondo e tanti cristiani hanno superato confini che sembravano inespugnabili pur di portare il Vangelo a ogni creatura. Ora abbiamo il mondo in casa, non quello che riceviamo da reti televisive sempre più onnivore che ci rovesciano addosso indiscriminatamente le vite degli altri, ma quello delle "creature". E siamo obbligati a scoprire che anche gli "altri", quelli che vengono dal mondo, arrivano da noi con il loro carico di dolore e di speranza, ma spesso anche con il loro Dio e la loro fede. Che dire? Dobbiamo smettere di predicare l'Evangelo? Non è certo facile confrontarsi con la richiesta di un ecumenismo interreligioso, visto che siamo stati incapaci perfino di praticare un ecumenismo interconfessionale. Eppure, questa è la legge dello Spirito, che non ci chiede quello che sappiamo fare o che ci piace fare ma ci dà forza per compiere quello che solo il Padre ha in suo potere.
Forse, per dirla con le parole della lettera agli Efesini, perché il corpo di Cristo raggiunga la misura della pienezza in Cristo, cioè l'unità della fede, serve sia il ministero degli apostoli e degli evangelisti che quello dei profeti. E oggi, un po' paradossalmente visto che il nostro mondo, dopo l'ubriacatura di un progresso consegnato al denaro e al mercato, pare costretto a ripiegarsi su sé stesso sotto i colpi di una spietata guerra tra banche, è tempo più di profeti che di apostoli, più di visionari che di maestri. Siamo, in una certa misura, in quei "quaranta giorni" in cui il Risorto chiede ai suoi di attendere che Dio compia la sua promessa e renda capaci di profezia.
Si tratta di riscoprire il vero valore di quel periodo, che alcune tradizioni evangeliche dicono essere stato di "quaranta giorni", nella sua qualità simbolica, non numerica. Quanto in Giovanni avviene il giorno stesso di Pasqua, per i sinottici avviene dopo quaranta giorni. Si tratta di un numero simbolico che richiama la qualità più che la durata. Un tempo formativo, come il tempo dei quarant'anni dell'esodo, in cui la comunità dei discepoli prende consapevolezza della propria identità prima di accogliere la sfida di farsi missionaria. Paolo, che ha fatto della missione la sua stessa identità, insiste sulla testimonianza che è chiamato a dare non il singolo, ma la comunità nel suo insieme. Non si tratta di un'esortazione al "buonismo", ma di una descrizione di quanto la Chiesa deve poter rendere visibile: conservare l'unità dello spirito per mezzo del vincolo della pace.
Corpo, spirito, speranza, Signore, fede, battesimo: per sei volte, l'Apostolo insiste sul termine "uno" e rende l'esame della vita comunitaria di allora e di oggi un passaggio obbligato per ogni pretesa di rivolgersi al mondo con spirito missionario. Sappiamo tutti lo scandalo che un'evangelizzazione contesa e lacerata tra le pretese delle diverse Chiese cristiane ha ingenerato nelle terre di missione. Ma sappiamo anche che spesso la vita delle parrocchie è appesantita da contese e sopraffazioni.
Eppure, l'unità dello spirito non è una conquista, ma un dono, non è un punto di arrivo, ma un punto di partenza. Sentirsene responsabili proteggendo e coltivando il vincolo della pace, rispettare la grazia data a ciascuno senza voler accaparrare per sé quanto lo Spirito dona ad altri per il bene comune chiede un discernimento coraggioso, capace di tenere insieme la terra e il cielo, come è stato per Gesù.
L'ascensione di Gesù al cielo ci chiede di capire qual è il punto di arrivo della nostra fede nella risurrezione: quel Gesù, che ha vissuto ed è stato messo a morte, vive ora in un modo totalmente diverso, vive la vita che non conosce morte, primo fra molti fratelli. Restare a guardare il cielo è però tentazione forte, come lo è la speranza che tutto ritorni come prima, in un ordine antico che, a distanza, appare come l'ideale: anche i discepoli sognano la restaurazione d'Israele, come se il regno di Dio potesse lasciarsi identificare con una delle tante forme che gli uomini hanno inventato per l'organizzazione del potere. Ma la missione impone di guardare la terra. Come allora, anche oggi ai discepoli di Gesù è chiesto di essergli testimoni fino ai confini della terra.
Solo che oggi quei "confini" sono ormai nei quartieri delle nostre città, nelle cripte delle nostre parrocchie. Uomini e donne, con i loro usi e le loro merci, con i loro riti e le loro preghiere cui dare testimonianza: non è facile capire come, ma la lunga storia della missione ci fa da monito perché ha preteso a volte di aprirsi le strade con la violenza e la sopraffazione più che con la forza mite dell'Evangelo della gratuità di Dio verso la creatura.
(commento di Marinella Perroni, docente di N.T.)
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Ascensione del Signore (B)
ANNO B – 20 maggio 2012