Il diaconato in Italia n° 172
(gennaio/febbraio 2012)
RIQUADRI
Come Dio educa alla misericordia
di G. B.
Il popolo dell'alleanza, assai presto, imparò a conoscere quanta ambiguità, menzogna e ingiustizia si potevano celare dietro le procedure giudiziarie condotte dagli uomini. Dal sangue dell'incolpevole Nabot stritolato dalle procedure di un iniquo tribunale regale (1Re 21), alla scabrosa vicenda giudiziaria della casta Susanna (Dn 12), in ogni tempo Israele era stato educato dai profeti a riconoscere e smascherare, dietro i riti giudiziali e perfino dietro le cerimonie penitenziali, la doppiezza del cuore impenitente e l'atteggiamento ipocrita di quanti identificavano la difesa del proprio interesse con la tutela del diritto e questo con il ristabilimento della stessa giustizia divina (Ger 13,23).
È questa la ragione che spinge la tradizione profetica a richiamare il valore fondante del patto per un'osservanza sincera della legge di chi sa distinguere la via ardua della giustizia vera dalle scorciatoie ingannevoli di chi era interessato a conservare e ripristinare, con il diritto, soltanto il proprio egoistico interesse o il proprio meschino privilegio (cf. Am 5,14-15; Is 1,17; Ger 5,28).
Per cogliere la novità assoluta di un Dio che, con paziente regia, entrava in lite con il suo popolo ribelle e infedele, non per punirlo con la morte ma per ricondurlo a sé nel pentimento e nella conversione, si doveva comprendere cosa, di fatto, impediva agli uomini di essere compassionevoli e misericordiosi verso chi era nella colpa e nel peccato. Più che da malizia o da cinismo innati, la resistenza o l'incapacità di accettare o praticare gesti di perdono verso il prossimo si può dire che, innanzi tutto, era il prodotto tipico e diseducativo della religione civile, vale a dire di quella forma di religiosità pilotata e controllata dai gruppi dominanti che fanno coincidere i loro interessi e la loro sorte con la vicenda stessa della divinità di cui pretendono di essere la via d'accesso (1Re 8,12-13).
In realtà la religione civile sovrappone e identifica la libertà trascendente di Dio con la razionalità immanente di una prassi statica conservativa del proprio benessere, del proprio privilegio. Preferendo la rassicurante accessibilità di Dio alla sua imprevedibile condotta, per ragioni politiche non può prestare ascolto a nessuna profezia, a nessuna denuncia, a nessun lamento, dovendo favorire, in tutti i modi, uno stato di torpore, di rilassamento morale che procura un indurimento del cuore che fa smarrire il cammino della verità (Is 63,17). Deve alimentare una sorta d'incoscienza etica verso la sofferenza e l'ingiustizia facendo vivere in uno stato di distrazione infinita dalla verità.
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