Domenica delle Palme (A)


ANNO A - 17 aprile 2011
Domenica delle Palme

Is 50,4-7
Fil 2,6-11
Mt 26,14-27,66

IMPARÒ PER PRIMO
A FARSI OBBEDIENTE

Di fronte alla liturgia della parola della domenica che dà inizio alla settimana più santa dell'anno è lecito domandarsi se essa non dovrebbe essere commentata soltanto dal silenzio, da una sorta di digiuno della parola, analogo al digiuno eucaristico con cui la Chiesa ambrosiana scandisce i venerdì del tempo di quaresima. Le tre letture impongono infatti di fissare lo sguardo sull'unico protagonista assoluto degli eventi pasquali, Gesù, e di tenerli fermi su di lui, senza pretendere di tradurre subito in attualizzazioni o applicazioni il senso profondo di quella vicenda che porta il profeta nazareno a immergersi in una morte tanto violenta quanto ingiusta e a risvegliarsi nella gloria. Mentre la predicazione cristiana ha fin dalle origini concentrato il ricordo di questa vicenda in formule kerigmatiche, la settimana più santa dell'anno si snoda invece secondo la logica dei tempi lunghi: per quattro volte la lettura del "passio" rende viva l'attesa della notte più chiara dell'anno.

Il lungo e tragico racconto della passione del vangelo di Matteo si trova incastonato tra il realismo del canto del servo sofferente del profeta Isaia e la solennità dell'inno che esalta la kenosi di Dio della lettera ai Filippesi. Sembra che la narrazione dei fatti di pasqua del primo vangelo riceva dai due registri cristologici lo slancio necessario a far trasparire tutta la sua forza kerigmatica.

Il canto di Isaia ha l'impatto di una istantanea. Sia riferita a un personaggio individuale, sia ricondotta all'esperienza dell'intero Israele, la descrizione del servo di Yhwh si sviluppa su un duplice versante. Da una parte, l'esperienza privilegiata di un rapporto discepolare, nutrito dall'ascolto e dall'abbandono fiduciale; dall'altra, la risposta non violenta alla violenza ricevuta. Il servo raffigura il punto di arrivo della lunga storia biblica di amore tra Dio e il suo popolo, una storia attraverso la quale Dio educa il suo popolo all'amore che va oltre la vendetta. L'impressione è grande: ciò che il profeta vagheggia come punto di arrivo del cammino di intimità tra Dio e il suo popolo lo vediamo realizzarsi lungo tutto il racconto della passione di Gesù di Nazaret. Gesù ha imparato che il discepolo è colui che non si sottrae, che non oppone resistenza, che non si tira indietro. Figura dell'Israele che non ha considerato una rapina la predilezione di Dio, ciò che egli ha accettato come missione è diventato il suo stile di vita. Il "mite e umile di cuore" è l'unico che può chiamare a sé stanchi e sfiduciati senza fare loro nessun tipo di violenza e liberando così il volto di Dio da ogni tratto di violenza: la signoria di Dio è l'unico potere che non asservisce, l'unica sovranità che non marca la distanza, l'unica gloria che non conosce vanagloria.

Tra il grido di Lamec che si vanta di aver «ucciso un uomo per una mia scalfittura e un ragazzo per un mio livido» (Gen 4,23) e i canti del servo sofferente isaiani (42,1ss.; 49,1ss.; 50,4ss.) è racchiusa tutta la lunga esperienza dalla quale Israele apprende che il suo Dio è il Dio della consolazione. Non è un caso, quindi, che fin dall'inizio i cristiani hanno raccontato la storia della passione di Gesù facendo chiari riferimenti ai canti profetici che annunciavano la venuta del servo di Yhwh: colui che compie la promessa non oppone resistenza né a Dio né agli uomini e rivela così il volto misericordioso di Dio che, fin dall'inizio, ha voluto proteggere perfino Caino da ogni possibile vendetta (Gen 4,15).

L'inno cristologico che Paolo utilizza all'inizio della lettera ai Filippesi inverte la prospettiva cristologica perché la radica nel Cristo esaltato. Anche se il racconto della passione si ferma sulla soglia di un sepolcro che ha inghiottito ogni speranza, tanto chi lo ha scritto quanto chi lo ascolta sanno molto bene che Dio non ha voluto che il corpo di suo figlio vedesse la corruzione (Sal 16, 10). La sua storia non finisce con una pietra tombale. Ancora una volta viene proclamata una signoria che non opprime e una regalità che non tiene in soggezione: Cristo Gesù è il Dio che ha appreso egli stesso per primo a farsi obbediente e per il quale diventare simile agli uomini prendendo la condizione di servo non ha rappresentato la negazione, ma il trionfo della divinità.

La lettura liturgica restituisce il racconto matteano della passione di Gesù di Nazaret alla sua identità originaria di narrazione. Nulla, forse, è stato più rappresentato della passione di Gesù: dalle stazioni della via crucis presenti in tutte le chiese alla ormai millenaria pinacoteca cristiana, la raffigurazione della passione di Gesù è stata importante per rafforzare la professione di fede cristologica, ha avuto funzione didattica e parenetica, ha nutrito la religiosità individuale e collettiva. Fissando però l'attenzione su un quadro, un momento, un episodio. Tornare al testo che si snoda invece in un continuum di avvenimenti e in un susseguirsi di scene composti insieme con pathos teologico prima ancora che letterario significa lasciare che la storia ci interpelli. Storia di Dio con gli uomini, storia di Dio per gli uomini, storia di consolazione che ci rivela il volto di Dio: perché tutte le religioni hanno spesso preferito mostrare il volto feroce di Dio? Perché alla sobrietà del racconto preferiamo una macabra attrazione per particolari scabrosi o una facile indulgenza per reazioni emotive?

VITA PASTORALE N. 3/2011
(commento di Marinella Perroni, docente di N.T.)



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