«Non ci indurre in tentazione»: purtroppo continuiamo meccanicamente a ripeterlo, anche se ci mette profondamente a disagio. Il fatto che il cammino di riflessione che viene proposto dalle liturgie domenicali nel tempo di quaresima si apra proprio con il racconto genesiaco della caduta sembra confermare che, in fondo, sia stato proprio Dio stesso ad architettare le cose in modo tale da indurre gli esseri umani nella tentazione. Non ci vuole infatti una grande astuzia a osservare che il regime dell'Eden era sicuramente il più favorevole a far cedere all'attrazione dell'unica cosa proibita. VITA PASTORALE N. 2/2011
I Domenica di Quaresima
Gen 2,7-9;3,1-7
Rm 5,12-19
Mt 4,1-11
IL DESERTO, LUOGO
DI DISCERNIMENTO
Fino a quando continueremo a non ammettere che, almeno nelle società a cultura critica, una delle resistenze più serie all'adesione di fede sta proprio nel teorema dogmatico del rapporto peccato-salvezza e finché la catechesi e l'omiletica non avranno recepito il grande sforzo dell'esegesi e della teologia del secolo scorso per tentare di riformulare l'uno e l'altro termine della questione, sarà difficile riuscire a cogliere anche il valore di buona notizia del racconto delle tentazioni di Gesù nel deserto.
Gesù di Nazaret non è l'antitipo di Prometeo che riesce a convertire la naturale tracotanza umana nei confronti degli dèi alla sottomissione al Dio unico fino ad accettare la morte sacrificale. Per la cristologia dei vangeli sinottici, certamente diversa da quella paolina, la sua risposta alle tentazioni di Satana non ha infatti nulla a che vedere con l'immagine cara alla letteratura tragica della Grecia classica secondo cui gli esseri umani sono sempre costretti a pagare per la colpa primordiale di colui che ha attentato alla supremazia degli dèi.
Di fronte alla progressiva ellenizzazione del cristianesimo, che ha accompagnato la diffusione del messaggio cristiano e pretende ancora oggi di far valere antiche quanto pesanti ipoteche, esemplare è lo sforzo compiuto da Paolo per presentare, soprattutto nella lettera ai cristiani di Roma, che la continuità tra l'adesione a Cristo dei pagani e la rivelazione biblica non annullava la loro reciproca estraneità religiosa e culturale. Anzi, la fa uscire allo scoperto, attestando così con forza che il Dio della storia della salvezza non ha nulla a che vedere con il principio di non contraddizione della razionalità greca.
Il racconto matteano delle tentazioni di Gesù va collocato allora sullo sfondo della grande tradizione biblica di Israele che, all'esaltazione dell'eroe, ha sempre preferito la costante e non sempre riuscita ricerca della risposta alla rivelazione divina da parte di un intero popolo. Il deserto come tempo e luogo di gestazione della fede attraverso le prove rappresenta il nucleo originario della fede biblica, più originario ancora degli stessi miti di creazione che spingono lo sguardo verso il tempo primordiale. Per Israele, la relazione di reciprocità con Dio, di cui l'esperienza del deserto rappresenta, prima ancora che un'epopea da raccontare e trasmettere, una condizione di assoluta e irrepetibile germinalità identitaria, è precedente anche agli stessi primordi. Anzi, ne costituisce la condizione perché è del tutto prioritaria.
Come per Gesù, il deserto è stato per Israele luogo della presenza di Dio, non della sua assenza. E, come per Israele, per Gesù il deserto è luogo di discernimento e di scelta. Per la fede di Israele, il fatto che Dio, in quanto Dio, dovesse essere totalizzante non ha mai significato che la sua volontà dovesse imporsi. Né con violenza, né per evidenza. In entrambi i modi, infatti, non avrebbe lasciato spazio alla storia, cioè al raziocinio e alla libertà di coloro a cui voleva fare dono della sua rivelazione. Totalizzante, ma non totalitario, il Dio biblico non subisce la libertà degli esseri umani, la promuove. Per questo anche l'Eden non può che essere situazione di travaglio: la caduta avviene dentro il giardino primordiale e rappresenta una possibilità che nessun Dio che chiama alla libertà e nessuna umanità che abbia consapevolezza di sé può escludere. La riduzione legalistica della caduta a colpa che merita condanna non rende giustizia del dialogo di libertà che qualsiasi esperienza umana individuale e collettiva porta con sé e nel quale Israele include perfino la divinità.
Per questo il racconto delle tentazioni apre, non nel senso di semplice preliminare ma in quanto fondamento, la narrazione della storia del Messia: tutta la sua vita, il suo ministero, la sua accettazione di una morte ingiusta si svolgerà tra il deserto delle tentazioni e l'orto degli ulivi, come l'esistenza umana, individuale e collettiva, si svolge tra Eden e Getsemani e la tentazione ne costituisce la profonda e indispensabile tessitura. Satana non è una divinità antagonista. Anzi conosce e pronuncia le parole di Dio stesso, quasi a ricordare che, inevitabilmente, il Dio-che-parla si consegna anche all'incomprensione. Il Dio di Israele non risponde a un bisogno vitale che, come la fame, deve essere saziato in quanto tale, perché l'esperienza ci dice che si può vivere benissimo senza di lui e si può credere tranquillamente ad altri dèi. Né la relazione a cui egli chiama può soggiacere a dimostrazione. L'unico atto di culto che gli si addice è quello che non sottrae all'adorazione di lui i regni di questo mondo e la gloria. Il vero problema della fede, in fondo, è e resta solo questa sottrazione.
(commento di Marinella Perroni, docente di N.T.)
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I Domenica di Quaresima (A)
ANNO A - 13 marzo 2011