Santa Famiglia
1Sam 1,20-22.24-28
1Gv 3,1-2.21-24
Lc 2,41-52
GESÙ MANIFESTA
LA SUA IDENTITÀ FILIALE
Solo dopo un percorso piuttosto burrascoso, l'odierna pagina evangelica giunge finalmente al porto della quiete. Ci parrebbero degni della Sacra Famiglia, infatti, solo gli ultimi due versetti dove si afferma che Gesù raggiunge Nazaret con i genitori, cui stava sottomesso, crescendo in età, sapienza e grazia. Ma questa rosea conclusione è l'esito di una forte crisi descritta dall'episodio precedente. Come ogni famiglia, anche la Sacra Famiglia aveva riti e abitudini. Per la solennità di Pasqua, ogni anno, saliva a Gerusalemme in uno dei tre pellegrinaggi presso la capitale previsti dal calendario ebraico. Il giovane Gesù, dodicenne, è ormai prossimo a un momento importante. A tredici anni, secondo la Torah, sarebbe divenuto adulto, mostrando di conoscere e osservare la legge che Dio aveva dato a Israele per mano di Mosè. Ma tutto quello che potrebbe accadere in questa salita alla città santa pare piuttosto scontato. I ruoli sono definiti. È chiaro a chi spetta fare che cosa e con chi.
Invece nel corso del racconto emerge potentemente il vocabolario dell'incomprensione e dello stupore: «Non accorgersi» (v. 43); «credere» e «cercare» (v. 44); «non trovare» e «tornare in cerca» (v. 45); «essere stupiti» ed «essere angosciati» (v. 48). In realtà tutto è generato da una anticipata manifestazione dell'identità filiale propria a Gesù. È come se, in un certo senso, tutta la sua vita fosse precorsa da quel viaggio, nella scelta di restare nel tempio all'insaputa dei genitori. Si potrebbe infatti mostrare - ma usciremmo dal genere letterario "omelia" - come il racconto sia costruito sul calco della vicenda pasquale con l'affannata ricerca del Risorto da parte degli undici. Come accade lungo tutti i racconti dell'infanzia, il bambino Gesù è già il Signore, il Cristo venuto per redimere il suo popolo e l'umanità intera. Così il dodicenne che risponde ai dottori del tempio, interrogandoli a sua volta e mostrando grande sapienza, è il Messia venuto a compiere quelle Scritture che costituiscono il tessuto vitale della sua esistenza.
Proprio considerando tale sapienza, non possiamo ritenere la risposta data a Maria e a Giuseppe come una sbrigativa frase di comodo suggerita dall'inesperienza, ma come la percezione altissima della propria dignità filiale. La risposta suona sconcertante non solo agli orecchi di Maria, ma soprattutto a quelli di Giuseppe che odono la parola "padre" senza che essa abbia alcun riferimento a sé. Il giovane Messia ha già scelto il luogo spirituale in cui trascorrere tutta la propria esistenza: «Le cose del Padre mio». Il testo greco del v. 49 poteva essere reso dalla nuova traduzione forse con più coraggio. Non si tratta di "occuparsi" ma di "essere" nelle cose del Padre. Non parliamo dunque di attività cangianti e provvisorie, ma di uno "stato in luogo". Gesù non percepisce semplicemente la necessità di sbrigare compiti coerenti con la propria relazione divina, egli desidera rimanere proteso perennemente verso il seno del Padre, come a più riprese ci ricordava il prologo del quarto vangelo. Per quanto sia riduttivo, qui Gesù scopre la propria unica ed eccezionale chiamata. Ha realizzato tutta la peculiarità del proprio rapporto con Dio. Questa è la sua intelligenza e sapienza: comprendere come essere Figlio, non solo figlio.
Qui si radica l'abisso che viene scavato, anche se per poche ore, tra lui e i suoi genitori. La famiglia si ricongiungerà ritornando alla situazione precedente. La madre invece proseguirà il lungo cammino della fede, custodendo quelle parole pesanti e difficili, colmando progressivamente il fossato che esse hanno creato tra lei e il Figlio. La sottomissione di cui leggiamo nel seguito del brano non è più la stessa. Tutto va letto alla luce della nuova sapienza. Ogni situazione che non esprima appieno la figliolanza divina di Gesù va considerata provvisoria e mutevole. Anche ciò che pare disobbedienza non lo è più. È scontato il fatto che il Figlio di Dio sarà nelle cose del Padre. La sottomissione ai suoi non lo è allo stesso modo. Allontanarsi dalla famiglia non sarà evadere, ma camminare verso il compimento della propria identità. Non v' è comunione nelle famiglie cristiane che possa costruirsi diversamente.
Per un credente la posta in gioco non è mai l'obbedienza all'uomo ma a Dio. Ciò vale di ogni figlio che appartiene al Padre più di quanto appartenga al padre e alla madre. Paradossalmente, è proprio l'educazione cristiana che diamo ai figli a svegliare in loro questa nuova consapevolezza: esiste un'altra figliolanza. Come tra Gesù e i suoi, in una famiglia cristiana è possibile unirsi solo attorno alla comune obbedienza a Dio. Sarà il legame più vero e solido. La storia della Sacra Famiglia è la storia di ogni famiglia che rischia di perdersi se non si ritrova a un livello più alto. Solo così si può vivere secondo verità il momento in cui i figli prendono congedo da casa con il matrimonio, la vocazione religiosa o anche semplicemente con il proposito di crescere in responsabilità e autonomia. Educare è crescere secondo questa libertà, verso l'incontro autentico con la fonte di ogni paternità senza dipendenze o fissazioni in abitudini e riti che poco hanno a che fare con il Vangelo e molto con semplici tradizioni di uomini. Non sarà allora la nostra volontà di autoaffermazione a rompere dei legami, ma la fedeltà all'unico Padre.
VITA PASTORALE N. 11/2009 (commento di Claudio Arletti,
presbitero della arcidiocesi di Modena-Nonantola)
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