VI Domenica di Pasqua (B)


ANNO B - 17 maggio 2009
VI Domenica di Pasqua

At 10,25-26.34-35.44-48
1Gv 4,7-10
Gv 15,9-17


ATTINGIAMO LA LINFA
DALLA "VERA VITE"

L'odierna pagina evangelica associa tre termini che nessuno spontaneamente affiancherebbe: "amare", "osservare" e "comandamento". Che il Cristo comandi l'amore come comandamento suo proprio (vv. 12.17) è altrettanto chiaro come è chiaro alla coscienza post-moderna che l'amore esuli dall'ambito di ciò che si può imporre ad altri. Per essere "sincero" l'amore non deve forse liberamente sgorgare dal cuore ed essere frutto della volontà personale? Sarebbe veramente mio un amore che provo e vivo semplicemente perché qualcuno mi ha chiesto di farlo? Che cosa ci chiede Gesù quando comanda di amarci a vicenda come lui ha amato noi? L'idea di ingiunzione ci riporta all'immagine di un superiore che comanda all'inferiore. Chi è più in alto e non vuole fare qualcosa che è necessario fare lo comanda a chi è più in basso. Dietro al comando sta il principio di una delega forzata. Il superiore e l'inferiore non compiono le stesse cose. È piuttosto il superiore a decidere che cosa fare e cosa far fare. Proprio questo divide chi comanda da chi obbedisce.
La prospettiva del brano giovanneo è completamente diversa, persino opposta. Fin dal v. 9 è evidente come l'amore comandato dal Figlio sia il medesimo che lo unisce al Padre. Dunque Cristo ci comanda ciò che è fontale per la sua esistenza. In questo senso, il comandamento non è un peso imposto da chi non lo vuole portare sulle spalle di chi deve necessariamente farlo. Ma è il radicamento e la condivisione di una esperienza che vuole comunicarsi. Il Padre nel Figlio e nello Spirito Santo si è aperto sul mondo perché l'umanità divenga partecipe della stessa natura divina. La salvezza coincide con la divinizzazione dell'uomo. Non si dà redenzione senza che l'uomo sia elevato alla dignità stessa di Dio. Tale privilegio è l'ingresso in una relazione assolutamente singolare: l'amore tra Padre e Figlio che noi chiamiamo Spirito Santo. Entrare nella vita divina è entrare nell'amore che costituisce la vita delle tre divine Persone. Essere divinizzati non potrebbe coincidere che con l'amare allo stesso modo in cui solo Dio sa amare.

Possiamo allora descrivere l'amore trinitario come una cascata che sgorga dal Padre, si effonde sul Figlio per mezzo dello Spirito e dal Figlio raggiunge nello Spirito tutta l'umanità. È la stessa acqua che dobbiamo bere o, se preferiamo, è lo stesso calice al quale partecipiamo, il calice della vita divina, il calice eucaristico dove apprendiamo fino a che punto siamo stati amati. Il modo in cui possiamo intendere il v. 9 e il v. 12 rafforza questa interpretazione. È noto come già Gv 13,34 - versetto strettamente apparentato con il nostro brano - necessiti di una particolare traduzione: «Vi ho dato un comandamento nuovo, affinché vi amiate gli uni gli altri in virtù del fatto che io ho amato voi». Solitamente si rende «affinché vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi». Qui non si tratta di sfumature erudite, ma di come si intende l'amore cristiano. Se interpretiamo in modo stringente il "come" arriviamo a dire che l'amore tra credenti è imitazione dell'amore di Dio. È facile, come spesso accade, interpretare moralisticamente tale comandamento e fare dell'amore l'oggetto di uno sforzo immane e di una conquista impossibile. Noi non possiamo amare come ama Dio. Possiamo invece amarci vicendevolmente in virtù del fatto che lui ha amato noi. Non si tratta di ripetere gli stessi gesti dall'esterno, quasi fossimo uno specchio. La questione è donare invece ciò che abbiamo ricevuto. Noi possiamo amarci vicendevolmente solo dell'amore che vive in noi grazie alla Pasqua di Cristo. È, di nuovo, la stessa acqua o lo stesso calice. Non stiamo ragionando di quantità ma di qualità.

La Chiesa vive in modo trinitario quando l'amore della Trinità circola tra i credenti, non quando l'amore dei credenti cerca goffamente di imitare l'amore trinitario. Poco sopra parlavamo di esperienza fontale, di una "cascata": l'amore del Padre trabocca nel cuore del Figlio fino a effondersi sulla Chiesa e a traboccare all'esterno. La sorgente, come anche l'acqua, è una sola. Nessuna morale impossibile, allora, è condensata dal comandamento dell'amore. Piuttosto Cristo comanda a noi di radicarci nell'unico amore che nulla, neppure il peccato dell'uomo, neppure l'uccisione del Figlio di Dio è riuscito a distruggere: quello che lega le tre divine Persone. Anzi il tempo pasquale che viviamo testimonia come proprio dalla consumazione di un delitto sia scaturito un patto salvifico a cui dobbiamo la nostra redenzione. È il senso del v. 13: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici». Comprendiamo cosa significhino il v. 9 e il v. 12: la traiettoria dell'amore muove dal Padre al Figlio e dal Figlio alla comunità credente. Così è anche della gioia del Figlio. Essa sarà in noi come è in Lui. Siamo amici di Cristo se entriamo in questa dinamica di dono non perché obbediamo servilmente a quanto domanda (v. 14). Non siamo servi, ma amici sempre in virtù della comunicazione di ciò che il Figlio ha udito dal Padre. Siamo messi a parte della vita stessa di Dio, dall'amore alla gioia fino alla conoscenza del Mistero della sua volontà redentrice. Il nostro frutto rimane perché, scaturisce da una linfa che non ci appartiene (v. 16). È la linfa che attingiamo dalla "vera vite": restarvi come tralci è eseguire il comando dell'amore.

VITA PASTORALE N. 4/2009 (commento di Claudio Arletti,
presbitero della arcidiocesi di Modena-Nonantola)


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