IV Domenica di Pasqua (B)


ANNO B - 3 maggio 2009
IV Domenica di Pasqua

At 4,8-12
1Gv 3,1-2
Gv 10,11-18


GESÙ, BUON PASTORE,
OFFRE LA VITA PER NOI

Tutto il quarto vangelo è solcato da una radicale contrapposizione tra luce e tenebra. La luce splende nelle tenebre ed esse non l'hanno vinta (Gv 1,5). Una simile contrapposizione è presente anche nel brano odierno, dove Cristo, buon Pastore, distingue se stesso dal mercenario. Due elementi naturali, come la luce e l'oscurità, vengono come a personificarsi e a identificarsi con due figure tipiche del tempo di Gesù. Continuamente il testo passa dall'una all'altra sottolineando differenza e distanza. Nei primi tre versetti ritorna con insistenza il verbo essere, con o senza negazioni: il mercenario non è il pastore; le pecore non sono sue. Proprio in virtù di ciò che è e di conseguenza in virtù di ciò che non è le pecore non costituiscono il suo interesse. Non gli importa del gregge qualunque sia il destino dei suoi componenti (vv. 11-13). Quale ingenuità sarebbe confondere l'uno con l'altro. Tuttavia, solo un determinato momento permette l'emergere della chiara differenza. È il momento più drammatico che possiamo immaginare. Solo alla vista del lupo, infatti, cadono tutti gli equivoci e le maschere. Lì si vede chi scappa e chi resta. Non è dunque possibile distinguere pastore e mercenario a tavolino. È in situazione che appare chiaro ciò che uno è o non è.

Anche la nostra identità non si gioca mai a tavolino. L'istante decisivo, irrimandabile, pone fine a tutte le illusioni e gli equivoci e ci ritroviamo semplicemente con la verità di noi stessi in tutti gli aspetti graditi e non graditi. Non diversamente dal pastore è il bisogno o il pericolo dell'altro a suscitare in me una capacità di dono prima inimmaginabile o a rivelare una meschinità imbarazzante. È davanti alla sorte del fratello che decido se applicare il celebre detto latino: Mors tua, vita mea («La tua morte è la mia vita»). Non è possibile salvare l'altro, salvando anche se stessi da ogni coinvolgimento gravido di conseguenze. Se l'amore è creazione di comunione e condivisione, i pesi dell'altro diverranno anche i miei pesi. La situazione non è distante da quella ripetuta violentemente per tre volte al crocefisso nella sua agonia: «Salva te stesso». Proprio da quel rifiuto, proprio dal restare in croce del Pastore che non è mercenario è sgorgato un nuovo stile esistenziale che potremmo sintetizzare capovolgendo il celebre adagio latino: Mors sua, vita nostra. La morte di Cristo è stata per noi sorgente di vita.
Se proiettiamo la luce della Pasqua sul brano giovanneo di questa domenica, comprendiamo bene i toni con cui Gesù descrive l'arrivo del lupo. Gesù inizia proprio dal dono della vita in favore delle pecore. Davanti al lupo, non c'è alternativa: o perisce chi guida il gregge o perisce il gregge abbandonato dalla falsa guida. Il modo in cui la luce vince le tenebre è divino, misterioso: sembra che le tenebre soffochino la luce. Proprio questo, però, è il modo in cui esse vengono vinte. Quando il pastore soccombe sostituendosi al gregge, la luce inizia la sua marcia trionfale. Tutto nasce dalla volontarietà dell'offerta di sé, come si vedrà bene dai vv. 17-18. Quanto affermato al v. 11, viene ripetuto e ampliato al v. 15. Mentre sembra che Gesù ripeta lo stesso concetto, in realtà, il pensiero avanza. Lo stile giovanneo è assimilabile a una progressione a spirale ascendente: come l'aquila, che ripete i suoi giri elevandosi sempre di più.
Secondo il v. 15, il pastore offre la propria vita perché conosce le pecore come il Padre conosce Lui. Più che mai qui il verbo "conoscere" ha sfumatura di intimità. È la conoscenza che nasce dall'amore e permette un amore consapevole. Questo amore è destinato a dilatarsi all'infinito. Ci sono altre pecore che non sono del medesimo recinto. Anche quelle devono essere condotte ad ascoltare la voce del pastore. Possiamo qui pensare alla valenza universale della Pasqua giovannea mostrata al mondo nelle tre lingue allora parlate: il latino - lingua del potere politico; il greco - lingua del potere culturale; l'ebraico - lingua del potere religioso (Gv 19,20). Non v'è uomo "rapito" o "disperso" da questi tre poteri, per rifarci alle azioni tipiche del mercenario, che non possa avere accesso al gregge di Cristo. Il pastore, e giungiamo alla volontarietà, è amato dal Padre perché, letteralmente, "depone" la propria vita. Nessuno può rapirla (v. 18).

Qui sta la grandezza dell'offerta esistenziale del Pastore. Il dono è tanto più grande quanto più è libero. Chi possiede la vita fino a coincidere con la vita più del Figlio di Dio? Egli, però, la depone «da se stesso» (v. 18). Il verbo greco, densissimo, è il medesimo con cui al cap. 13 viene descritto il "deporre" le vesti da parte del Maestro per lavare i piedi ai propri discepoli. La "deposizione" della vita si chiarisce attraverso quel gesto, dove tutto assume il sapore del servizio. Un dono offerto senza riserve e in piena libertà. Qui risiede il fascino del "pastore bello" (v. 14). La medesima libertà di dono risplende anche nella situazione descritta dalla prima lettura. Tra la paura e la timidezza dei Dodici durante gli avvenimenti della Passione e il coraggio postpasquale mostrato qui davanti alle autorità giudaiche sta proprio l'offerta del Pastore che ha deposto la sua vita per poi riprenderla, nuova, secondo il comandamento del Padre.

VITA PASTORALE N. 4/2009 (commento di Claudio Arletti,
presbitero della arcidiocesi di Modena-Nonantola)



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