Per riscoprire il ministero diaconale



PRESENTAZIONE
di Giuseppe Bellia



Ministero o ministro sono termini che subito evocano nell'immaginario collettivo, anche dentro lo spazio dell'istituzione ecclesiastica, un ruolo di guida e una funzione direttiva. In questo modo il significato sacramentale si appiattisce sull'esperienza di potere gerarchico del mondo, perdendo quella costitutiva configurazione profetica di servizio modellata sull'esempio normativo di Cristo, venuto per «servire e non per essere servito». In realtà il servizio cristiano, non soltanto è caratterizzato dall'originaria impronta cristologica, ma s'inscrive all'interno della missione ecclesiale che vuole i battezzati chiamati a compiere un'opera di mediazione per fare conoscere e rendere partecipi tutti gli uomini della vita divina.
Questa mediazione però, anche se segnata dai tratti storici delle culture in cui opera, non è impresa della carne e del sangue ma effetto dell'azione dello Spirito Santo sui credenti che li anima facendoli diventare soggetti nuovi, singolari e adatti a compiere ciò per cui li ha suscitati. La caratterizzazione è di natura oggettiva per i carismi ordinati, a motivo della fedeltà di Dio che si dona all'uomo senza pentimento, e tuttavia i doni offerti alla chiesa non si devono intendere come oggetti amorfi che operano a prescindere dalla soggettività delle persone accolte nella diversità della loro attività carismatica. I carismi, essendo suscitati dalla fede in Cristo, coinvolgono totalmente la soggettività del credente, riportandone le caratteristiche personali e arricchendosi delle peculiarità delle diverse espressioni. La diaconia ordinata nasce all'interno di questi carismi di fatto gratuitamente dispiegati dall'operazione dello Spirito nel concreto dell'esistenza dei singoli cristiani e costituiscono uno dei criteri di discernimento della stessa chiamata ai ministeri.
Non estranea a questa soggettività pervasa dall'azione dello Spirito di Cristo è dunque quella graduale diversificazione dei ministeri, attestata dalle prime generazioni cristiane, che mostra una struttura ministeriale molteplice, dove accanto agli apostoli si registra la collaborazione di anziani e diaconi oltre alle figure influenti di profeti e dottori. Nell'epoca post-apostolica e sub-apostolica, quando la presenza autorevole degli ultimi testimoni era venuta a mancare, le comunità cristiane sentirono il bisogno di organizzare l'operosità ecclesiale della loro missione attorno ad un ministero centrale come punto di riferimento unitario e continuativo per la trasmissione della fede. Sarà sulla figura del vescovo, come garante e custode della fede e dell'unità della chiesa, che si comporrà tutta l'attività di servizio ministeriale, secondo la vivida concezione promossa e tramandata dal grande Ignazio di Antiochia. Il vescovo era presentato come pastore del gregge di Cristo, assumendo il ruolo di maestro e di guida coadiuvato da presbiteri e diaconi, sia nella celebrazione eucaristica, sia in ogni altra attività missionaria verso il mondo.
La diffusione della fede cristiana all'intero Mediterraneo renderà meno operosa l'attività della missione evangelizzatrice, contribuendo a trasformare il ministro ordinato nel capo della comunità costituita, sempre più coincidente con la società civile. L'azione dei ministri ordinati si presenterà ormai sempre più come un'attività ad intra, rivolta ai membri della stessa comunità e sempre meno afferrata e orientata dalla missione verso il mondo. Il munus prevalente sarà quello di governare il popolo cristiano, disegnando un'identità ministeriale gerarchizzata, modellata dai poteri esercitati e non dalla creativa conformazione delle diverse funzioni carismatiche a Cristo. Lo stesso popolo cristiano non sarà più visto come soggetto compartecipe della comune missione evangelizzatrice, ma come semplice destinatario della cura pastorale. Se poi a questo si aggiungono gli effetti del deprecato sistema beneficiario che quasi dalla tarda cristianità assegnava alla chiesa/parrocchia cui il pastore era preposto un patrimonio, si può comprendere come il ministro (vescovo o presbitero), diventando beneficiario della rendita di cui entrava in possesso, si garantiva una sicurezza economica che contribuiva in modo decisivo a dare alla cura della comunità e al suo stesso ministero una gestione privata di tipo aziendale. La conseguenza è stata, oltre all'inarrestabile deriva individualistica del ministero, con la conseguente incapacità di attuazione di una pastorale unitaria, la progressiva emarginazione ed eliminazione di altri soggetti carismatici dalla conduzione della comunità/parrocchia. E se è vero che il simile comprende e si accompagna con il proprio simile, allora si può spiegare quel progressivo scivolamento di attenzione verso i poveri e i piccoli, destinatari primi dell'annuncio evangelico, considerati occasione di encomiabili azioni virtuose e non luoghi storico-teologici della presenza nascosta del Signore crocefisso in mezzo a noi.
In verità al diffondersi di questa tendenza ha contribuito quella sorta di monofisismo strisciante che dalla vittoria di Costantino in avanti ha perseverato nel celebrare la santità divina di Cristo a scapito della sua vera umanità: si esaltava la religione trionfalistica dei vincitori a scapito della speranza dei vinti, fino a determinare un'evidente preferenza di sensibilità e di gusto che accomunava i ministri del gregge santo di Dio ai funzionari dell'Impero. Come si ricorderà è proprio da quel periodo che la funzione diaconale diventa aleatoria ed evanescente; il diaconato ormai consegnato più al momento celebrativo che alla funzione liturgica, finirà con il cristallizzarsi in Occidente come semplice tappa di passaggio verso gli ordini superiori. Riscoprire il primato dei poveri e ridare alla diaconia ordinata la sua funzione di mediazione sacramentale, per i padri del Concilio Vaticano Il furono momenti di un unico processo; ma senza un movimento corale che punta verso il recupero della missione della Chiesa attraverso il riconoscimento di una ministerialità diffusa, ordinata e no, anche la restaurazione del diaconato nella sua forma permanente è destinata a non produrre esiti apprezzabili. Ne è prova l'impaccio che teologi, vescovi e cristiani comuni provano nel definire l'identità del diacono senza fare riferimento alla gestione di uno specifico potere diaconale: si fatica a credere che l'esperienza della comunione sia realtà ben più vantaggiosa e trainante delle distinzioni di attribuzioni e compiti.
Il ministero del diacono deve allora con pazienza ricollocarsi dentro l'alveo della fedeltà al vangelo e ai poveri, in una ricerca ecclesiale di autenticità, senza la quale si producono esiti individualistici. La testimonianza dei cristiani sarà tanto più vera, scrive Cavagnoli, quanto più i cristiani si presentano non come operatori di imprese etiche, quanto piuttosto come contemplatori del volto di Cristo. In questa contemplazione si riflette la vera bellezza della Chiesa, ricorda la Canopi, che non può mai desistere dall'annunziare il Vangelo con le parole e con le opere, a costo di versare il suo sangue. Non è una trasformazione che si può aspettare dall'alto, né un impegno che si può appaltare a curiali e specialisti. Ogni singola generazione, afferma Andrea Grillo, deve sfuggire tanto alla disperazione dell'impotenza quanto alla presunzione di onnipotenza: deve fare solo quello che può, con grande pazienza, ma deve farlo tutto e fino in fondo, con somma audacia. In questa luce si comprende che l'omelia non è parte di un contorno ma elemento vivo per l'attuazione del memoriale. Per Sodi, collocare l'omelia tra celebrazione e ministerialità è invitare a cogliere il modo in cui l'homo celebrans possa incarnare la Parola di Dio nella vita. A questa fatica dell'autenticità vuole contribuire lo speciale dedicato all'anno paolino con contributi di biblisti impegnati nella vita pastorale. Paolo, nel riportare i Corinzi alla verità esistenziale della celebrazione, li lega al Signore stesso: è da lui che egli ha ricevuto la tradizione della cena, non nell'esperienza sulla via di Damasco, ma dal Risorto vivente ed operante nella comunione della Chiesa. La tradizione quando è autentica è luogo di comunione, in cui si vive un ricevere e un dare.