XIV Domenica del Tempo ordinario (A)

La Parola
Commento di Cettina Militello
Vita Pastorale (n. 5/2017)



ANNO A – 9 luglio 2017
XIV Domenica del Tempo ordinario

Zc 9,9-10
Rm 8,9.11-13
Mt 11,25-30
(Visualizza i brani delle Letture)


RIDARE CENTRALITÀ
AI PICCOLI E AI POVERI

«Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro». Queste parole di Gesù più e più volte ci hanno raggiunti in momenti pesanti della nostra vita suscitando in noi una corrente di fiduciale abbandono. Più e più volte ci siamo sentiti sciolti, appunto, dall'oppressione, amati e rinfrancati, capaci perciò di ripartire, di riprendere con nuova lena il nostro cammino. Quest'oggi la lettura evangelica ce le ripropone in una cornice che restituisce centralità ai piccoli e ai poveri, indicandoli come destinatari del lieto annuncio.

Il primo input nella direzione di una fede altra e di una condizione altra, non magniloquente ma appunto umile e pacifica, ci giunge da un celebre testo di Zaccaria. In esso il profeta apostrofa la figlia di Sion e le annuncia la venuta del re messianico che giunge, giusto e vittorioso e umile, cavalcando un asino. La figlia di Sion è metafora femminile d'Israele. Nello schema culturale delle nozze, simbolo dell'alleanza, essa è finalmente restituita a ciò che nella cultura ebraica dà compiutezza alla femminilità, lo sposo, appunto, le nozze.
E, tuttavia, non è a questo schema che dobbiamo prestare attenzione quanto alla declinazione di un messianismo pacifico, alieno dalla guerra come strumento di potere e di potenza. Il Messia atteso è nel segno della pace, della rottamazione delle armi. Sappiamo bene come di questo modello si sia appropriato Gesù, entrando in Gerusalemme sul dorso di un asino. Certo, una cavalcatura improbabile per un re, ma tipo di umiltà e docilità, tant'è che una delle più antiche raffigurazioni del Signore è quella che al Palatino vede Gesù in forma d'asino infisso alla croce, rappresentazione non blasfema ma indicativa della sua sovranità mite e umile.

La religiosità che Zaccaria esprime è riconducibile, in epoca inter-testamentaria, a quella dei "poveri del Signore". Potremmo pensare che, rispetto a questo abbandonarsi fiduciale, le parole di Paolo, tratte ancora dalla lettera ai Romani, abbiano altro sapore. In verità Paolo canta il mistero dello Spirito del Signore risorto, il mistero della sua presenza divinizzante. Canta il dono per antonomasia. Infatti, colui che ha operato la risurrezione di Cristo, darà vita anche al nostro corpo mortale. Egli muta qualitativamente, definitivamente, l'esistenza del credente; regola il nostro rapporto con Dio, si fa interprete dei nostri bisogni interiori, dà voce alla nostra domanda, alla nostra supplica (vv. 26-27). Nei versetti proclamati emerge la contrapposizione carne/Spirito. La sarx qui è espressione di pesantezza e resistenza contrapposta allo Spirito. Ma lo Spirito che in abita nei credenti può sconfiggere la pesantezza della "carne" come "peccato". E, se allarghiamo lo sguardo all'intero capitolo 8, manifesto eclatante della libertà cristiana, vedremo anche come lo Spirito orienti alla vita e alla pace (v. 6), ossia a quell'ottimizzazione dell'esistenza che il Messia-re, mite e vittorioso, va a instaurare.

Ed ecco che Matteo pone in bocca a Gesù parole che lo disegnano nella sua novità. Gli studiosi considerano anomalo questo brano, i cui accenti ci riportano piuttosto al vangelo di Giovanni. Si tratta di un inno di giubilo, di un inno di benedizione, di una preghiera, insomma, una delle poche attribuite a Gesù, che si snoda secondo uno schema risultante di tre unità: 1) preghiera di benedizione al Padre; 2) precisazione del rapporto Padre-Figlio; 3) invito diretto a tutti e assicurazione circa l'adempimento. Gesù innanzitutto benedice il Padre e motiva questa sua lode affermando che egli ha nascosto il mistero del Regno ai sapienti ma lo ha rivelato ai piccoli.
Dunque una contrapposizione sapienti/piccoli che ribalta l'orizzonte umano e rivela prossimi al Regno questi ultimi. Piccoli in greco è affidato al termine nepioi. Probabilmente i "piccoli" non sono più i destinatari originari della lieta novella, ma i credenti, i membri della comunità di Matteo. Gesù iscrive questa scelta preferenziale nella pura benevolenza del "Padre", appellativo che ricorre due volte nella prima parte dell' "inno'' e che viene ripreso nel secondo passaggio relativo al rapporto che lega il Figlio al Padre.
Al Figlio tutto è stato dato dal Padre e tra Padre e Figlio vige una relazione di mutua ed esclusiva conoscenza che tuttavia il Figlio può anche partecipare ad altri. Ed eccoci all'ultima "strofa", quella in cui Gesù invita e promette e motiva il suo invitare e promettere. L'invito è diretto a quelli che sono affaticati e oppressi e ad essi egli offre riposo e pace; l'invito è a prendere su di sé il suo giogo e a imparare da lui che è mite e umile di cuore. La promessa è che così facendo troveranno riposo perché, diversamente da quello della Legge, il suo giogo è leggero e soave. Paradossalmente il linguaggio di Gesù, i termini qui usati, evocano il linguaggio sapienziale.
Lo evocano nel senso di una liberazione e di un affrancamento da quanto dice invece pesantezza e oppressione. Forse soggiace una polemica anti-farisaica quanto mai attuale dal momento che anche oggi ci contrapponiamo gli uni agli altri a partire da fardelli che con leggerezza vengono imposti a chi invece rischia di soccombervi e di smarrirsi. Questa che potrebbe essere considerata una postilla esplicativa delle beatitudini, di fatto propone il regno di Dio in una dimensione liberante e gratificante.


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