Natale del Signore

La Parola
Commento di Cettina Militello
Vita Pastorale (n. 10/2016)



ANNO A - 25 dicembre 2016
Natale del Signore
(Omelia riassuntiva sul significato della festa)

Letture della Messa del Giorno:
Is 52,7-10
Eb 1,1-6
Gv 1,1-18

Visualizza i brani delle Letture:
Messa della Vigilia
Messa della Notte
Messa dell'Aurora
Messa del Giorno
UN DIO
CHE SI FA CARNE

La liturgia propone oggi tre messe. La prima, nella notte, celebra l'evento, il suo accadere nel silenzio di un'oscurità che cede alla luce; la seconda, all'aurora, celebra la prima manifestazione del Signore, quella ai pastori, che accorrono docili ad adorarlo; la terza, la messa del giorno, celebra il farsi carne del Verbo con le parole del Prologo di Giovanni. La prima lettura è sempre tratta dal libro del profeta Isaia. La seconda, nella notte e all'aurora, è tratta dalla lettera a Tito, e finalmente dalla lettera agli Ebrei. Il vangelo proclamato nella notte e poi all'aurora è tratto invece dal capitolo 2 di Luca. Tutte e tre le partiture sono nel segno della gioia: gioia annunciata, gioia attesa, gioia compiuta.
Luca cerca di contestualizzare quanto più possibile l'evento: tempo, luogo, attori, modalità. La povertà di dettagli, di alta densità teologica, è colmata dagli scritti apocrifi, più inclini ad accondiscendere a una "curiosità" devota. Il racconto dell'evangelista illumina il mistero che si compie: una nascita, apparentemente uguale a tante altre, veicola l'inaudito del Figlio di Dio che prende carne. I giorni che si compiono sono quelli della salvezza. L'epifania ai pastori ha come chiave il canto angelico che intreccia la gloria resa a Dio nei cieli con la pace offerta agli uomini qui in terra.

Il mistero del Natale è mistero gioioso. In esso tuttavia si compie la kenosi di Dio, il suo descensus, il suo circoscriversi nell'umiliazione della carne, il suo farsi indigente al pari d'ogni altro figlio d'uomo. Lui il Verbo eterno che era Dio ed era presso Dio, lui al quale il prologo attribuisce i tratti propri della divina Sapienza, pone la sua tenda (eskenosen) in mezzo agli uomini. La figura teologica della shekinah veterotestamentaria, già simboleggiata nella tenda del convegno e poi nel tempio, assume la concretezza del Figlio dell'uomo. L'inaudito dell'evento non sancisce una volta per tutte la vittoria della luce sulle tenebre. Resta alla libertà degli uomini «che Dio ama» riconoscere o meno il Salvatore. In una sorta di graduatoria all'inverso sono campioni di docilità all'annuncio festoso i pastori che nella lunga notte vegliano sull'incolumità del gregge. Sono gli ultimi tra gli ultimi, disprezzati e reietti. Eppure si muovono trepidi verso il luogo che ospita il bambino e la madre e a loro per primi, non ad altri meglio qualificati socialmente o moralmente, si manifesta il Salvatore.
Nell'asciuttezza contestuale, fuori dalla solenne elencazione dei potenti del tempo, ritornano emblematiche la mangiatoia e le fasce. Con queste ultime Maria avvolge il figlio e lo depone nella mangiatoia. Il Figlio di Dio non ha trovato, infatti, un posto più degno. Ma forse al mistero della nascita si addice appunto l'oscurità e il silenzio, la povertà di una stalla, la nudità di una mangiatoia... Inutile giocare sulle congetture. I vangeli dell'infanzia sono composizioni ultime. Accettano la provocazione circa l'origine di Gesù, poco avvertita dalla prima comunità tutta centrata sull'annuncio evangelico e dunque sulle parole e sulle opere di Gesù dal battesimo al Giordano sino alla sua Ascensione. E, quali che siano le fonti cui attingono, si producono in una costruzione letteraria, prossima del resto alla maniera ebraica di commentare o raccontare la Scrittura, manifestando una libertà creativa che poco ha a che fare con la storia così come la comprendiamo noi oggi, sicura nei dati, precisa nelle parole, documentata nelle circostanze.

I vangeli, e soprattutto quelli dell'infanzia, non sono testi di storia. Sono espressioni di fede. Certo non fantasiose né mendaci. Ma mosse da intenzionalità testimoniali teologiche prima e più che storiche. Che si legga l'incarnazione a partire dal Prologo, facendo proprio un inno primitivo e accettando la sfida dell'identificare il figlio di Dio con il Logos; che si legga l'incarnazione con la puntigliosità contestualizzante di Luca, al cuore dell'annuncio c'è Gesù, figlio di Davide secondo la carne, figlio di Dio nella potenza dello Spirito. È questo che celebra il Natale: l'indicibile di un Dio che si fa carne. Celebra la salvezza che egli arreca. La solidarietà che egli porta. Dio non ci è estraneo. È carne della nostra stessa carne. È povero e indifeso come ognuno di noi nel suo nascere e nel suo morire. E proprio questa sua indigenza, questa assunzione del limite ci invita a oltrepassare il nostro limite, sapendo che in lui e per mezzo di lui è sconfitto.
Siamo umanità nuova, chiamati alla gioia e all'esultanza; chiamati a contemplarlo. Il nostro atteggiamento dinanzi al mistero del Natale non può che essere quello stesso di Maria. Luca afferma che «da parte sua, custodiva tutte queste cose meditandole nel suo cuore». È espressione che ritroveremo quasi identica alla fine del vangelo dell'infanzia. Ce la manifesta nel suo statuto di perfetta discepola. Custodire l'evento, comprenderne la portata, farsene sedurre, testimoniarlo... e non frettolosamente, sentimentalmente o devotamente. Lc 2,19 attribuisce a Maria il termine symballousa. Synballein è termine filosofico. Dice un mettere insieme esperienziale e razionale, evoca un surplus che eccede l'esperienza e che tuttavia i segni esperiti veicolano. Dice una capacità "simbolica", "sacramentale". Oggi celebriamo e viviamo il sacramentum corporis, che è quello del Figlio incarnato, che è quello del pane che egli spezza per noi, che è il corpo nostro stesso ormai santificato dalla contiguità a lui che da Dio che era si è fatto uomo per noi.


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