Il brano di Geremia contiene un rimprovero molto forte per i pastori che fanno disperdere il gregge. Pastore è un modo generale per indicare i capi del popolo. Con riferimento al passato questi capi hanno commesso molti errori, la cui conseguenza è la dispersione del popolo, l'esilio. La condizione così negativa è risolta da Dio stesso, che continua a vegliare sul suo popolo e non lo perde di vista per quanto grande sia la dispersione. La soluzione sarà quella della sostituzione dei cattivi pastori con altri che facciano il loro dovere, fino a proiettarsi su Davide, vero re, saggio che eserciterà il diritto e la giustizia. La descrizione di Davide si apre a una visione messianica. Così diversi livelli di tempo sono presenti in queste parole, ma al centro sta una verità che attraversa il tempo: il popolo è di Dio e non dei pastori, che devono fare solo i pastori, cioè preoccuparsi che al gregge non manchi la sicurezza, essere saggi e giusti. VITA PASTORALE N. 6/2015
XVI Domenica del Tempo ordinario
Ger 23,1-6
Ef 2,13-18
Mc 6,30-34
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DEL POPOLO DI DIO
I profeti non parlavano in maniera astratta, si riferivano alla storia vera delle persone, e quando pronunciavano le loro parole urtavano spesso con persone ben individuabili, che reagivano anche violentemente alle loro invettive. Chi ascoltava Geremia sapeva con chi ce l'aveva e cominciava a riflettere sulla propria dignità, capiva che non era proprietà di re o altri capi, ma che era popolo di Dio. Era proprio la riscoperta dell'identità di popolo, distrutta dalle conseguenze di scelte sbagliate dei capi di turno, che stava a cuore al profeta. Ci sono due poli della profezia di ogni tempo, quello della denuncia, efficace se precisa e coraggiosa, e quello della difesa di quanto minaccia il bene delle persone. Esaurite le analisi e le denunce, è importante che quanti hanno saggezza e desiderano il bene continuino a impegnarsi perché timore e sgomento non siano gli unici attori sulla scena.
Continuando la lettura della lettera agli Efesini, il brano della liturgia odierna offre una descrizione della Chiesa, luogo dove perdono senso le coordinate normalmente decisive; infatti i lontani, con riferimento alla provenienza dei cristiani di Efeso dal paganesimo, sono diventati vicini, sia fra di loro, sia con la comunità di riferimento, che era quella dei cristiani provenienti dal giudaismo. La vicinanza, il crollo dei muri, anche di quelli che sembrano eretti da Dio, si fa infatti riferimento alla legge mosaica, sono abbattuti. L'autore di questa nuova situazione è Cristo, la nostra pace, così definito perché avvicina gli uomini fra di loro, toglie la divisione, crea l'unità, elimina !'inimicizia.
Nelle parole di Paolo, il Vangelo è sintetizzato dalla parola pace e l'effetto della sua opera di salvezza è quello che tutti possono presentarsi, grazie al battesimo, di fronte all'unico Padre come un'unica famiglia.
Cristo è la nostra pace, lo è perché ci avvicina, lo è perché elimina i muri, di qualunque genere siano. L'allusione alla Legge indica che anche un dono prezioso come questo, la Torah data a Mosè, può per diverse vicende e interpretazioni, diventare un muro. Ogni muro crea, oltre che divisione, un'incolmabile lontananza fra le persone, che, finché c'è il muro si allontanano sempre di più. Cristo indica che l'unico modo per avvicinarsi è quello di abbattere i muri; per farlo, per superare la divisione fra popoli, religioni, persone e delle persone in sé stesse, accetta anche la croce. Nell'espressione Cristo è la nostra pace, c'è anche che chi è di Cristo è pace; nell'accenno alla croce c'è anche che il cammino della pace, del dialogo e dell'unità, è serio e faticoso.
Paolo chiede di riflettere su queste cose, sull'identità cristiana che si racconta per la fine delle distanze e dei muri. C'è un momento soprattutto in cui questo si può sperimentare, in cui i muri non hanno senso, un momento che Paolo afferma alla fine di questo brano: quello della preghiera.
Il vangelo di Marco fa vivere il momento del ritorno dalla missione dei discepoli, quasi si possono sentire le voci degli inviati che raccontano a Gesù quello che era accaduto. Si sottolinea che anche l'attività dei discepoli, come quella di Gesù, è un'unità di parola e azione. Soprattutto il brano insiste sul movimento enorme che c'è attorno a Gesù e ai suoi e al desiderio di Gesù di proteggerli invitandoli a riposarsi in un luogo deserto. Pensando alla loro vocazione il lettore ricorda che stare con Gesù è uno degli elementi fondanti della chiamata, anzi è il primo scopo dichiarato. Senza comunione con Gesù i discepoli rischiano di essere travolti, come accadrà al momento del processo e sotto la croce. Il desiderio si trasforma in una decisione concreta, salgono su una barca per allontanarsi; ma il desiderio è frustrato dalla pressione della gente, descritta come pecore senza pastore.
La reazione di Gesù di rinunciare al riposo, la sua compassione espressa con il linguaggio che la Bibbia usa per riferirsi all'amore di Dio per il suo popolo e la similitudine del pastore e delle pecore, proietta il brano in un'altra dimensione. Gesù è il Messia, è qui per prendersi cura del suo popolo, che ama come un padre ama un figlio: tutto impallidisce, ogni esigenza tramonta di fronte alle esigenze del popolo. Come il gregge è il motivo dell' esistenza di un pastore, così il popolo è il motivo della missione di Gesù. I temi della stanchezza e della fame dei discepoli, pure dal punto di vista terminologico, preparano la narrazione della moltiplicazione dei pani.
(commento di Luigi Vari, biblista)
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XVI Domenica del Tempo ordinario (B)
ANNO B – 19 luglio 2015
GESÙ SI PRENDE CURA