La prima lettura racconta la vocazione di Israele, immaginato a terra; condizione sottolineata dall'appellativo figlio di Adam (terra). Il profeta è descritto per la sua appartenenza alla terra, non sono menzionati altri titoli, non si fa riferimento alla sua condizione sacerdotale. Da questa condizione lo chiama lo Spirito, che lo mette in piedi, gli parla e gli affida la missione. I destinatari della missione sono definiti come ribelli, figli testardi, gente dal cuore indurito. Definirli per i loro tratti negativi serve a togliere ogni illusione al profeta, che dovrà aspettarsi una reazione tutt'altro che positiva alle sue parole. La garanzia del profeta è che quella parola che pronuncia è parola di Dio, che ha una sua forza, è più forte dell'accoglienza o non accoglienza del popolo; ha una sua consistenza. Il profeta è messaggio già per il suo esserci, una memoria di presenza, un'assicurazione che Dio non si lascia esiliare. VITA PASTORALE N. 6/2015
XIV Domenica del Tempo ordinario
Ez 2,2-5
2Cor 12,7-10
Mc 6,1-6
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È RIFIUTATO DAI SUOI
Prima di tutto Dio Solleva, mette in piedi l'uomo fatto di terra, che spesso si trova a terra. Dio prima di parlare rimette in piedi; non parla come un padrone a uno schiavo, non parla a gente atterrita. Dio parla con l'uomo in piedi, con l'uomo responsabile, consapevole della sua dignità, che coltiva una speranza, che, come nel caso di Ezechiele che parla agli esuli, non si rassegna alle cose come stanno. Non parla con inganno, non nasconde la difficoltà di stare in piedi quando molti hanno rinunciato a farlo, perché hanno pensato che è meglio non pensare più a Dio e hanno creduto che meno Dio c'è e meno problemi ci sono. Ma invita a considerare che la sua Parola non è un suono, non è un'opinione, ma è capace di creare, di guidare, di liberare, è Dio stesso. E Dio non se ne va solo perché non fa comodo sempre a tutti; soprattutto quando non fa comodo a chi mette a terra gli altri.
La spina è la protagonista della seconda lettura; ci sono tante ipotesi su questa spina che ha catturato l'interesse di tanti. Paolo parla della sua esperienza di apostolo a una comunità, che oltre a vederlo nella sua grandezza, lo ha visto anche nella sua debolezza. Le opposizioni che lo facevano tanto soffrire, forse si giustificavano con qualche aspetto della sua vita o del suo carattere o della sua salute, che lo rendevano attaccabile. Paolo interpreta il limite come un promemoria che gli impedisce di insuperbirsi; un promemoria di Dio. Paolo vorrebbe esserne liberato e prega con insistenza per questo, più volte nella Bibbia torna il numero tre per dire una preghiera insistente e completa; la risposta, anche se non quella attesa, fa trasparire la preghiera di Paolo come un dialogo continuo con il Signore, che pur non liberandolo dalla spina, non lo abbandona a sé stesso. Ti basta la mia grazia è l'assicurazione di una presenza concreta e non generica; la spiegazione della non liberazione dalla spina: la forza si manifesta nella debolezza, è il punto di vista offerto dal Signore a Paolo, che è condotto a guardare positivamente alla sua condizione, non come ostacolo a Cristo, ma come testimonianza della forza di Cristo. La debolezza che diventa forza è la conclusione inattesa di queste parole.
La paura della propria fragilità, di qualunque natura essa sia, è una costante in tante decisioni di vivere la vita in una zona grigia. Chiunque tenti di emergere dalla mediocrità, trova sempre qualcuno che toglie forza al suo desiderio, ricordandogli le sue spine, i suoi limiti. Allo stesso modo quando qualcuno provoca a qualcosa di più, la reazione che porta a togliere credibilità alle sue parole, è quasi istintiva. Da questo punto di vista non si capisce tutto il lavoro per cercare di capire la natura della spina di cui parla Paolo. È l'essere fatto di terra, come il profeta Ezechiele, a costituire una specie di limite esistenziale che sembra impedire qualcosa di più. Cristo, però, non ha paura della debolezza e della terra, anzi quella condizione, che è di tutti, è un'occasione straordinaria per mostrare la sua forza. A chi tende a scoraggiarsi, il pensiero che nonostante la propria fragilità si appassiona del Vangelo, diventa spinta a testimoniarlo sempre di più; a chi si esercita a descrivere i limiti dell'altro, l'esperienza che tante persone, anche se molto limitate, sono capaci di parole e azioni straordinarie, fa pensare che veramente è la grazia di Cristo che opera, amando la debolezza.
Seguendo il cammino di Gesù, lo si trova a Nazaret, dove fa quello che era abituato a fare in ogni giorno di sabato; si mette, infatti, a insegnare nella sinagoga. Ci sono tre domande che i presenti esprimono, che riguardano la provenienza delle sue parole; la natura della sua sapienza e dei prodigi; le origini stesse di Gesù. Le tre domande hanno tutte una risposta negativa nei concittadini di Gesù; certo non parla a nome di Dio; non è il maestro di sapienza; non è nessuno di straordinario. La chiusura dei suoi concittadini fa pronunciare a Gesù la frase che parla del rifiuto del profeta, che avverte nei suoi confronti come totale: patria, parenti, casa. Il testo insiste sull'incredulità parlando della meraviglia di Gesù e di quanto questa fosse un ostacolo al suo cammino. Gesù non può fare niente senza l'accoglienza della fede. Nonostante questo guarisce qualche malato; Marco prepara così la missione dei discepoli e accenna che, comunque, come la folla nel brano precedente, il cammino si può rallentare e non bloccare.
(commento di Luigi Vari, biblista)
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XIV Domenica del Tempo ordinario (B)
ANNO B – 5 luglio 2015
A NAZARET, CRISTO