Ogni predicatore sceglie immagini e figure significative per trasmettere il suo messaggio, per incidere sull'immaginazione di chi ascolta non soltanto attraverso la forza della logica. A volte, un'immagine dice molto di più di un discorso perché evoca, allude, richiama, lasciando a chi ascolta la libertà di una reazione del tutto personale. Per Gesù predicare non significava mai indottrinare. La sua predicazione doveva raggiungere e chiamare in causa le persone, il loro senso della vita, il loro modo di relazionarsi a Dio e al prossimo. Doveva invitare a decidere della qualità della vita, della sua autenticità e della sua verità prima che della sua riuscita. VITA PASTORALE N. 7/2013
XXII Domenica del Tempo ordinario
Sir 3,17-20.28-29
Eb 12,18-19.22-24a
Lc 14,1.7-14
NON HA PRETESE
Una delle immagini preferite da Gesù è quella del pranzo, di matrimonio o di festa, e intorno ad essa Luca sviluppa una vera e propria catechesi. Attraverso l'esame dei comportamenti di coloro che sono invitati alle nozze, Gesù cerca di far capire che la festa del Regno non è uno dei banchetti religiosi rituali che, in tutte le religioni, hanno lo scopo di sottrarre dalle rigide scansioni del tempo feriale del lavoro e, spesso, della sopraffazione e della desolazione. Il Regno è una condizione stabile della vita ormai definitivamente ricondotta alla sua armonia e alla sua verità.
Un'osservazione importante viene innanzi tutto dalla collocazione che l'evangelista fa dell'insegnamento di Gesù in giorno di sabato e a casa di un uomo religioso, osservante. Il sabato del Regno non è un giorno della settimana dedicato alla festa, è la festa perenne di Dio perché per tutti, finalmente, la sua creazione è "molto buona". Con l'annuncio dell'inizio di questo sabato definitivo, Gesù invita ad andare ben oltre una vita religiosamente organizzata. Per questo nella casa del fariseo, la casa dell'osservanza, dominano invece perplessità e scetticismo. Coloro che siedono alla tavola dell'osservanza guardano a Gesù perché vogliono misurare le sue parole e il suo comportamento. È un leit motiv del suo ministero e proprio qui, in questa tensione tra osservanza e profezia, sta la forza del suo Vangelo che non obbedisce a nessun criterio mondano.
Per questo, però, un insegnamento a prima vista facile perché riprende le buone regole di comportamento da tenere quando si è invitati a un banchetto, diviene in realtà molto provocatorio. Per buona educazione, quando si era invitati a un pranzo, si doveva almeno far vedere che non si aspirava a occupare i primi posti. Già i sapienti delle grandi culture antiche insistevano sul fatto che, nella formazione dei giovani, era necessario cominciare con un lavoro umile e che, senza un'educazione allo sforzo, all'obbedienza a un maestro, senza il rigore e la costanza nel lavoro, risultava un grande errore aspirare a una posizione di rilievo nel gruppo umano. Il risultato di una preparazione superficiale e di un atteggiamento indolente è sempre il disastro, la frustrazione e l'insuccesso. Il libro dei Proverbi insegna che l'educazione richiede un grande sforzo da parte di colui che educa e un impegno a volte anche doloroso da parte di chi deve formarsi. In fondo, l'autentico valore di una persona suppone sempre il riconoscimento dei propri limiti e l'equilibrio di quelli che arrivano a un posto di responsabilità riposa sulla consapevolezza rispettosa della dignità di altre persone.
Appetiti e ambizioni umane, però, vanno in realtà ben oltre l'aspirazione a un primo posto a tavola durante una celebrazione festiva. Inoltre, la tendenza a trasferire in ambito religioso gli atteggiamenti mondani è, purtroppo, spettacolo quotidiano. Cercare i primi posti, escludere i diversi, invitare chi ti può essere di aiuto è quanto si fa normalmente. Ritenere che questa possa essere la logica del Regno e organizzare la pratica religiosa intorno a questi atteggiamenti è, invece, tutt'altra cosa. Per questo il Vangelo di Gesù va ancora oltre gli insegnamenti della sapienza antica. In gioco c'è la possibilità di sedere a tavola al banchetto del Regno, di stare cioè accanto a Dio. Un'aspirazione giusta, ma che, per essere possibile, richiede il riconoscimento di tutto quello che siamo e abbiamo, dei nostri limiti, delle nostre illusioni di essere quello che vorremmo, delle nostre aspirazioni di primeggiare spiritualmente. Aspirare alla vicinanza con Dio richiede un lavoro sapiente che porti al riconoscimento della nostra mancanza di meriti, delle nostre incapacità e dei nostri errori.
Il vangelo di Gesù non ci chiede le virtù eroiche della santità. Ci chiede di svuotarci da noi stessi, di saper restare nel realismo di quanto realmente siamo e valiamo davanti a lui, di evitare la pretesa, anche inconsapevole, di voler sempre sedere alla tavola della presidenza del banchetto escatologico pensando di aver fatto tutto per meritarlo. Per il Vangelo, l'arrivismo è condannato al disastro e l'umiltà vera si radica nel realismo di ciò che siamo e valiamo. Se Papa Francesco non ha fatto altro che insistere su questo nei primi mesi del suo pontificato, forse dipende dal fatto che si è trovato davanti una Chiesa che negli ultimi tempi aveva perso, insieme alla sapienza degli antichi maestri, anche il senso autentico della sua realtà. Il Papa ha scelto di servirsi solo dell'arte della parola che cerca di vincere convincendo: la forza della sua esortazione sta nell'autorità che gli viene non dalla sua persona o dalla sua carica, ma dal Vangelo.
(commento di Marinella Perroni, docente di N.T.)
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XXII Domenica del Tempo ordinario (C)
ANNO C – 1° settembre 2013
LA VERA UMILTÀ