Ci sono parole di Gesù difficili da commentare. Non si riesce a coglierne bene il senso e, per questo, ingenerano un certo imbarazzo. D'altra parte, la tradizione ha conservato "detti", cioè frasi brevi e particolarmente incisive, che Gesù deve aver pronunciato in situazioni diverse e che solo più tardi sono confluite nella trama delle quattro redazioni evangeliche. Ogni evangelista le compone insieme nel modo che ritiene più adatto alla sua narrazione. VITA PASTORALE N. 7/2013
XX Domenica del Tempo ordinario
Ger 38,4-6.8-10
Eb 12,1-4
Lc 12,49-53
DELLA NEUTRALITÀ
Diversamente da Matteo, che riporta solo i detti sulla spada e sulla divisione tra i membri di una stessa famiglia, Luca è a conoscenza anche delle due parole di Gesù sul fuoco e sul battesimo. Il loro contenuto diventa più accessibile se si tiene presente il fatto che l'evangelista inserisce l'insieme di questi quattro detti di Gesù in un contesto letterario dal tono apertamente apocalittico, in cui cioè lo sguardo è rivolto alla "fine" e, soprattutto, esprime la convinzione che la "fine" sarà improvvisa e comporterà trasformazioni radicali. Si tratta di insegnamenti di Gesù che rimandano a qualcosa che, di fatto, non è avvenuto.
Non per questo, però, non avverrà mai. Gli evangelisti capiscono che queste parabole, parole e insegnamenti di Gesù, più che lanciare una previsione, intendono tenere viva una tensione. Irriducibili a logiche pie o al repertorio dei buoni sentimenti, le parole apocalittiche di Gesù impongono di accettare che c'è qualcosa che va "al di là". Al di là della logica e della morale, al di là delle regole della conoscenza e dell'organizzazione sociale, al di là perfino delle relazioni e dei valori. Non per questo al di là della vita.
Il confronto con la vicenda di Geremia radica innanzi tutto la visione apocalittica di Gesù nella grande tradizione profetica: ci sono momenti nella storia individuale o collettiva in cui la voce profetica suona in modo dissonante rispetto alle aspettative, ingenera opposizione e rabbia. La vicenda di Geremia, che ben aveva visto i segni del disfacimento in atto nel regno di Giuda, è emblematica di come popoli interi preferiscano farsi incantare da falsi profeti piuttosto che riconoscere con lucidità le proprie responsabilità di fronte a rischi imminenti. È storia che si ripete alla vigilia di ogni tempo duro di crisi: i potenti di turno presentano come disfattista il richiamo a non cadere nella trappola delle illusioni e sobillano popoli interi a liberarsi del profeta piuttosto che guardare in faccia la realtà. Solo "dopo" si è costretti ad ammettere che ogni disfatta ha sempre come premessa l'annientamento di qualsiasi vigilanza critica.
Anche Gesù è consapevole che l'annuncio del giudizio nel fuoco gli costerà la vita. La morte sarà il suo "battesimo". È stato così già anche per Giovanni il Battista. Non si tratta di rievocare minacce che hanno asservito per secoli la coscienza religiosa di masse intere di uomini e, soprattutto, di donne. Il tono apocalittico sfugge a ogni riduzione moralistica. Impone però di ricordare che la vita e il tempo sono beni preziosi perché sono l'unico spazio in cui tutti e ciascuno siamo alla presenza di Dio, signore della vita e padrone del tempo.
È quanto Gesù ha voluto ribadire con forza proprio nel momento in cui ha capito che l'esito finale del suo annuncio del Regno sarebbe stata la morte: dopo la sua predicazione, dopo la sua instancabile attività taumaturgica viene ormai il tempo della decisione, e la sua condanna non fa che radicalizzare ulteriormente questa prospettiva. Chiama tutti, infatti, a prendere posizione. Personalmente. Per questo perfino la famiglia, cellula costitutiva dell'identità religiosa israelita, sarà attraversata e lacerata dalla chiamata alla decisione per lui o contro di lui.
Di fronte alla "fine", cioè alla venuta definitiva di Dio, la neutralità è impossibile. Gesù non ha mai considerato l'unità della famiglia una realtà decisiva dal punto di vista teologico, dato che ha chiesto a coloro che volevano seguirlo di separarsi dalle relazioni familiari. Nei detti apocalittici c'è però qualcosa di più dirompente ancora: la venuta di Dio non va considerata un "grande evento", ma l'ultimo e definitivo evento che cambia la storia. Per questo la neutralità non è possibile.
In un tempo in cui, a tutti i livelli del vissuto sociale, da quello familiare a quello politico, l'imperativo per la sopravvivenza dei nuclei collettivi è diventato il neologismo "non divisivo", e in un Paese come il nostro, in cui si è sempre preferita qualsiasi forma di consociativismo piuttosto che il confronto democratico tra opposti, è quanto mai difficile, forse, accettare la forza di rompente di un appello a non cedere alla tentazione della neutralità.
L'orizzonte apocalittico non coincide però con quello esistenziale e confusioni tra l'uno e l'altro sono state e saranno sempre motivo di gratuita violenza e inutile sofferenza. In alcuni ambiti ecclesiali, poi, si pretende di tradurre il vaticinio di Gesù sulla lacerazione dei rapporti familiari in rigide normative che impongono ai genitori atteggiamenti di radicale esclusione nei confronti di figli che fanno scelte ritenute immorali. La radicalità delle parole apocalittiche di Gesù non va addomesticata, è vero. Neppure, però, va usata come arma di potere. Anche se difficili da interpretare, i detti apocalittici di Gesù vanno custoditi, come hanno fatto gli evangelisti, nel cuore del Vangelo.
(commento di Marinella Perroni, docente di N.T.)
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XX Domenica del Tempo ordinario (C)
ANNO C – 18 agosto 2013
LA TENTAZIONE