Luca teme per la sua comunità: da una parte, essa accetta ormai che l'ingiustizia sociale prenda progressivamente piede al suo stesso interno e opponga alla ricchezza di alcuni la povertà di molti; d'altra parte, essa è composta da credenti della terza generazione ai quali è diventata ormai estranea quell'ansia escatologica, quell'attesa della fine del tempo, che aveva invece contraddistinto Gesù stesso e che aveva mantenuto i primi cristiani nella tensione verso il compimento della promessa del Regno. Lo scandalo della povertà e la mancanza di tensione e di vigilanza sono per Luca due spine nel fianco. Per questo la sua insistenza sull'insegnamento di Gesù sulla povertà e sulla possibilità di renderlo ancora attuale nella vita comunitaria è martellante. VITA PASTORALE N. 6/2013
XIX Domenica del Tempo ordinario
Sap 18,6-9
Eb 11,1-2.8-19
Lc 12,32-48
E DARLI IN ELEMOSINA
L'esortazione carica di emozione e di affetto che Gesù rivolge al "piccolo gregge" perché non abbia paura è comprensibile solo a conclusione di un discorso che raggiunge toni appassionati. All'inizio della sua catechesi sull'evangelo della povertà Luca aveva collocato l'istruzione sapienziale di Gesù sulla stoltezza di chi aspira ad accumulare ricchezze. La parabola del ricco insensato doveva aprire la strada a uno dei suoi discorsi più incisivi, quello sulla fiducia in Dio, sul coraggio di non affannarsi, sulla capacità di non stare in ansia per ciò di cui Dio per primo sa molto bene che gli esseri umani hanno bisogno. Per Gesù l'abbandono alla provvidenza rappresenta la trasposizione nella concretezza della vita dell'annuncio del Regno. È infatti segno che quell'annuncio è diventato atteggiamento profondo, capace d'ispirare comportamenti concreti.
D'altra parte, Gesù pronuncia queste parole lungo il suo cammino verso Gerusalemme. Sa cioè molto bene che a lui per primo è stato affidato molto e verrà dunque chiesto molto di più. Il suo tono è così carico di emozione nel rassicurare i suoi discepoli perché il pastore sa che non chiede al gregge nulla di più di quanto chiede a sé stesso e che la sorte del pastore e quella del gregge sono intimamente legate. Se annuncia il Regno esprimendo, egli stesso per primo, di volersi abbandonare alla provvidenza di Dio, Gesù lo fa perché ha fiducia che il Regno sia un dono che Dio non soltanto promette, ma realizza. Il suo stile di vita, la sua libertà, il suo coraggio di fronte agli oppositori, la sua decisione di non farsi sopraffare neppure dalla morte lo attestano con forza.
L'esortazione al "piccolo gregge" si apre con l'invito a «Non temere». Sono le parole che, nella tradizione biblica, accompagnano ogni apparizione di Dio nella storia: «Non temere». E ancora una volta sono parole che oppongono la logica dei molti, dei forti e dei vincenti a quella dei pochi, dei deboli e dei poveri. Il gregge è "piccolo". Anche quel gregge che Dio aveva condotto lungo una storia secolare di alleanza si è assottigliato. Sono solo pochi che hanno gli occhi rivolti verso Dio e attendono la sua giustizia. La maggioranza non si aspetta più niente da Dio, ha trovato una forma di religione intramondana, che governa il bene e il male, che guarda a ciò che si deve o non si deve fare, che traduce la fede in osservanze misurabili.
Non si aspetta il Regno quando non se ne sente il bisogno: basta la religione dell'al-di-qua. Il numero dei poveri e degli scomunicati dalla vita fa parte, allora, degli effetti collaterali che sono, in fondo, inevitabili, un prezzo da pagare alla vita in quanto tale. L'annuncio del Regno che viene dato in dono da Dio stesso è per un piccolo gregge di sopravvissuti alla grande tentazione di fare di Dio una religione priva di speranza e di attesa, una religione della conservazione dello status quo.
Anche Luca sa che il piccolo gregge è fortemente insidiato dalla "normalizzazione". Vive la tentazione di coloro che non hanno nulla da aspettare, che hanno perso ogni tensione verso un futuro che renda finalmente giustizia. Per questo, prima del richiamo alla vigilanza inserisce di nuovo un salutare invito a vendere i propri beni. Un richiamo all'elemosina non come prassi religiosa, ma come momento decisivo che trasforma una vita. Per lui, l'avere coincide con la sconfitta dell'evangelo, perché impone alla vita misure e ritmi, scelte e orientamenti, perché impedisce di aprirsi all'incertezza dell'attesa che è speranza di una risoluzione, alla fame e sete della giustizia che viene dall'alto. Vendere i beni e darli in elemosina è invito a ritrovare la libertà di attendere che Dio venga e faccia giustizia. Interrogarsi su qual è il nostro tesoro è possibile solo nella libertà. Perché il cuore sta dove sta il tesoro: questo è certo!
Se il Vangelo c'invita a tenere lo sguardo proteso verso un futuro promesso, la Lettera agli Ebrei ci ricorda, invece, che la fede può aprirsi alla speranza solo quando getta le sue radici in una genealogia. La fede non è un bisogno né una necessità, è una storia che si tramanda. Da sempre, dal tempo di Abele, cioè dal tempo prima del tempo. Si tramanda, di generazione in generazione. Non necessariamente, come voleva il pensiero israelitico, attraverso la discendenza naturale: la fede di ciascuno di noi ha un "albero genealogico" ricco e diversificato, e molti sono quelli che sono entrati nella nostra vita e di cui possiamo dire «Dio non si vergogna di essere chiamato loro Dio». Forse, farne memoria è uno dei tanti modi per vivere l'Anno della fede.
(commento di Marinella Perroni, docente di N.T.)
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XIX Domenica del Tempo ordinario (C)
ANNO C – 11 agosto 2013
VENDERE I PROPRI BENI