E tu di dove sei?



Il diaconato in Italia n° 167
(marzo/aprile 2011)

TESTIMONIANZA


E tu di dove sei?
di Paola Castorina


I luoghi della diaconia sono molteplici e complessi, a partire da quelli più stereotipati e forse meno indagati, come la famiglia e la scuola. I diaconi che a vario titolo si trovano a essere padri, mariti, insegnanti, formatori, e talvolta stranieri a casa propria di fronte ai nuovi flussi migratori, sono invitati a guardare questa vita ordinaria attraverso un'ottica che ne mette a fuoco alcune discrasie. E il servizio chiede di essere compiuto con il cuore pieno di speranza e gli occhi lucidi di consapevolezza.

Terre lontane
Tra i diaconi che servono la Parola, ce ne sono molti che servono la parola come atto generante relazione. Perché ogni relazione è un seme che mette radici dove queste sono state tagliate. Miriam (i nomi sono tutti di invenzione) ha un cappotto freddo, appena entra sorride e ringrazia. Le chiedo da quanto tempo è in Italia e mi fa segno con le mani, ridendo confusa. Provo a capire: dieci giorni?... no... dieci mesi... no - lo so Miriam - sono dieci anni, o forse di più ma tante sono le dita delle mani. Veniva dal Marocco, dei suoi cinque figli, la più piccina ha deciso di insegnarle a scrivere e le dice: «Mamma tu dura», fa con l'indice e ride ancora e abbassa gli occhi. È vero, la bimba ha ragione, e forse sa anche che se la mamma non imparerà un pochino di italiano, non saprà mai come andrà sua figlia a scuola e fra qualche anno non avrà più molte cose da raccontarle.
Amina è qui proprio da pochi mesi, viene dal Senegal e non parla arabo. Non mi sarà d'aiuto con la marocchina. Ha un bel sorriso e usa quel po' di francese che conosce per scrivere a stampatello il suo nome. Fa fatica a capire, ma è di buona volontà. Lei per fortuna non è analfabeta nella propria lingua di origine e questo fa molta differenza. Spesso ho l'impressione che il lavoro per l'integrazione sia simile a quello dell'artificiere che disinnesca delle bombe. Se questo lavoro di "sminamento" sociale non avviene in modo capillare, e da parte di tutti i soggetti in gioco, ci saranno molti conti da rifare.
Nadia è filippina, anzi "pilippina" come lei si ostina a dire, e io mi vergogno un po' di doverle correggere la pronunzia del suo popolo perché in italiano c'è, oltre la "p", anche la "f" e persino la "v". Per arginare questa inspiegabile ricchezza Nadia ha costruito una splendida maschera: le si illumina il viso e dice "sì!", ma ogni corrispondenza di senso rimane lontana. Yasmin pensavo fosse in grado di dire nient'altro che il suo nome, ma appena ha incontrato una sua amica una valanga di suoni sono sgorgati, velocissimi e acuti, come punte acumi nate, dalla sua bocca che credevo murata. E poi Yasmin beve, beve tanto. Ci sono anche degli uomini che frequentano questo corso di italiano ma loro hanno fretta di imparare e dopo i primi rudimenti passano al livello successivo o semplicemente non vengono più: il lavoro o altro insegnerà loro la lingua. Alcuni, che ho conosciuto, vengono pure con il cipiglio di chi sa il fatto suo: pochi anni e l'lslam conquisterà l'Occidente!
Le storie sono tante altre ancora, storie infinite che parlano di mondi lontani, come chiunque di noi potrebbe conoscere chiedendo alla propria "donna" delle pulizie o alla badante del nonno (che vive ormai una seconda giovinezza). Ti sembra di visitare queste terre, popoli assorti nelle loro vite che un giorno decidono di incontrare la tua. Per molti di loro non c'è alcuna voglia di incontro, ma la questione rimane. Incontrare: è questo il punto.
Cosa siamo disposti a rimettere in discussione quando incontriamo culture diverse dalla nostra? Praticamente nulla, di solito. Quando presentai Miriam a un altro studente, feci subito un grosso errore invitandola a dare la mano e a dire il suo nome: le donne musulmane non toccano gli uomini se non sono parenti. Lo sapevo bene, eppure in quel momento non mi venne in mente. Aveva prevalso uno schema su un altro. Miriam mi perdonò subito, al suo solito modo, dicendo insieme "scusi-grazie", e abbassando gli occhi, ma io rimasi con quel tarlo per parecchio tempo: cosa ci impedisce di incontrare l'altro nella sua diversità.
Perché di fatto nessun insegnamento è proficuo se non si chiariscono alcuni fatti basilari: chi sa, e chi non sa; cosa si sa e cosa non si sa. Sì, certo, siamo ormai lontani dal considerare il bambino come un vaso da riempire, e non faremo lo stesso errore con gli adulti, ma quale chiarezza di intendimenti abbiamo nell'offrire una qualunque forma di conoscenza? In altri termini: anche quando le posizioni sembrano perfettamente codificate - io conosco la lingua che tu non conosci e hai desiderio o bisogno di conoscere - c'è uno scarto enorme che non ci permette di cogliere il quadro semplicemente in questa prospettiva. No, non parlo del gap culturale.
Quando un bambino bilingue viene introdotto in una terza lingua di solito sceglie una delle due pregresse come background implicito che gli servirà a veicolare quella nuova. Ce ne accorgeremo per esempio dall'accento con cui parlerà la terza. Molto di quanto già sappiamo permane nel nuovo, come capsula che ci ha introdotto l'eccipiente. E viceversa il noto viene rielaborato attraverso il nuovo contenuto. Conoscere qualcosa di nuovo, quindi, implica sempre un certo utilizzo del già noto, ma anche un suo rivolgimento. Da qui la crescita e l'arricchimento: se le conoscenze pregresse non venissero coinvolte in questo movimento rimarrebbero isolate e sterili e non ci sarebbe apprendimento. Ma se io voglio insegnare, quale background linguistico andrò ad utilizzare? Istintivamente prevarrebbe quello infantile: se non capisci, sei scemo. Vogliamo cercarne un altro: abbandonare il terreno conosciuto per fare dell'insegnamento stesso un'avventura conoscitiva. Potremmo di nuovo parlare di rivolgimento del già noto. Non quello dell'alunno, bambino o adulto che sia, ma il mio. Se l'insegnante non è disposto a questo, torniamo all'antica faccenda della tabula rasa. Dunque quanto siamo disposti a rimettere in discussione dei nostri schemi mentali quando veniamo in contatto con altri e diversi? E quanti invece conosciamo bene?

La nostra terra
Tra i diaconi che servono la Parola, ce ne sono molti che servono la parola come atto primigenio. Perché ogni relazione è un atto di fiducia che mette radici dove non ce ne sono mai state.
Massimo è un bambino come tanti, è italiano, svogliato a scuola, va alle medie, non dà grossi problemi, ma si vede che se non mette la testa a posto, non andrà lontano con gli studi. Perchè, se un bambino è intelligente, va male a scuola? Sappiamo il ritornello, ci vuole impegno, buona volontà. Bisogna dunque concludere che un bravo meccanico deve la sua competenza al fatto che "non aveva voglia di studiare". Mi spingo oltre: preferiamo avere dei bravi meccanici o dei mediocri impiegati, idraulici in gamba o cattivi avvocati? Sicuramente dei bravi operai, ma la risposta rischia di suonare ipocrita. I bravi operai speriamo che siano i figli degli altri (eventualmente immigrati). In questo, la scuola ha fatto pochi passi avanti, da quando era nata per formare la classe dirigenziale della società. Oggi a fronte di un buon successo di alfabetizzazione dei bambini, gli anni successivi preposti all'apprendimento - non pochi - non indirizzano ad un lavoro ma ad avere uno stipendio.
Possibile che la lezione di don Milani non abbia trovato alcuna cattedra da cui essere ascoltata? Mi viene da pensare che se la scuola non è riuscita ad appassionare il mio muratore, forse sta formando i miei figli sulla base di un presupposto sbagliato. Quando - e perché - abbiamo spento in questi bambini la fiamma vivace della scoperta conoscitiva? Sicuramente va fatto un distinguo tra una scuola primaria rinnovata (e purtroppo, da ultimo, azzoppata) e una scuola secondaria ferma su sé stessa, incapace di alcun sommovimento. Ma non basta a spiegare il deficit, perché contemporaneamente altre cose sono cambiate. Per esempio, noi genitori abbiamo formato dietro ai nostri ragazzi, un esercito di armati pronti a qualunque rappresaglia. Basta solo che un insegnante insinui qualunque spiacevole giudizio su nostro figlio.
Si riuscirà mai a trovare un modo di valutare il lavoro dei docenti senza legare loro le mani? Ci fidiamo dei nostri insegnanti? E dei nostri figli? La casistica da un lato e dall'altro della barricata è ricca e sorprendente, mi soffermo solo su un fatto: la barricata. Oltre la soglia della pre-adolescenza (talvolta anche molto prima) inizia una tacita guerra e chi vince non si può dire che sia il migliore. Come reclutiamo i nostri insegnanti? E come prepariamo i nostri figli alle difficoltà o alle frustrazioni che inevitabilmente incontreranno nella vita? Nell'insegnamento scolastico primario si parla molto della capacità "empatica" del maestro (anzi di solito della maestra, visto che è considerata, purtroppo, un'attitudine prevalentemente femminile). Oggi parimenti si parla della difficoltà di molti bambini a relazionarsi con la figura autoritativa. Paghiamo sicuramente la rielaborazione del ruolo paterno, ma se indietro non si può tornare, per fortuna, come costruire il dopo?
Diamo una sbirciata al "futuro": una mia amica italiana, negli Stati Uniti, prova a sconsigliare una mamma che si ostina a dare delle pasticche alla sua bambina di 9 anni, perché così è più tranquilla e rende meglio a scuola. Negli Stati Uniti i valori di efficienza e competitività sono alla base di molte pedagogie, se non addirittura di pediatria, cosicché quando un bambino è irrequieto gli vengono somministrate anfetamine (che hanno effetto calmante) e quando è svogliato vuoi dire che è un perdente. Negli anni '80 la corsa all'apprendimento precoce è arrivata in alcuni casi a livelli parossistici: leggere a due anni, scrivere e far di conto a tre... Arrivati a sei anni andavano in terapia perché dopo aver bruciato le tappe, erano dei bambini depressi: non avevano "imparato" a giocare.
In Italia non siamo mai arrivati a questo, ma con il figlio unico ci siamo vicini: tutte insieme le attese dei genitori si scaricano su un unico bambino (e la diffusa incertezza verso il futuro spinge ad acquisire qualunque "marcia in più" si presenti all'occasione, dai giochi "intelligenti" per neonati, all'inglese all'informatica etc.) che ci proverà davvero a essere quello che i genitori desiderano, di solito fino alla soglia dell'adolescenza, quando i conflitti saranno più intensi e troverà - forse - la forza di opporsi alle loro aspettative, ma non per esprimere i propri desideri, che ha soffocato troppo a lungo per poterli conoscere, ma per il puro gusto di opporsi.
Si consolida di fatto quello squilibrio tra sviluppo affettivo ed intellettuale che è un elemento ormai costante nei bambini di oggi. Che siano dei geni o meno, le conoscenze e le informazioni a cui sono direttamente o indirettamente sottoposti sono tantissime, e molte di più rispetto solo a una decina di anni fa. Gli insegnanti di buona esperienza sanno che oggi, ai bambini di scuola elementare, non può semplicemente venir chiesto di sapere leggere, scrivere e far di conto. Se a questo si aggiunge una adultizzazione del bambino in termini di sviluppo sessuato, il cerchio si chiude... fatti i distinguo del caso, si può ridire che arrivati a 14 anni dopo aver bruciato le tappe, sono dei ragazzi depressi: non hanno "imparato" a giocare. Se nei secoli scorsi il bambino veniva considerato un piccolo adulto, tutto ciò aveva un contraccambio in termini di vicinanza affettiva (anche se molto diversa rispetto agli edulcorati parametri odierni) e di relazione assolutamente validi: il padre che portava il bambino di 7 anni a lavorare con sé, malgrado le condizioni - oggi diremmo - disumane di lavoro, gli dava oltre all'insegnamento progressivo e continuo, anche il senso di responsabilità che lo faceva diventare adulto. Meglio i tempi andati? No di certo, ma non possiamo esimerci dal capire lo scenario che ci troviamo davanti. Spesso noi genitori o formatori, a diverso titolo, esclameremmo volentieri: «Tutta colpa della tv!». Ma non ne sarei così certa, la tv viene dopo: è il parere di non pochi studiosi del fenomeno, che io mi sento di condividere. Cioè, la tv raccoglie e amplifica ciò che è presente nella stessa società.
La tv non è profetica, ma è una cassa di risonanza - pericolosa quanto vogliamo ma, da questo punto di vista, poco creativa - che propone prodotti di cui si conosce già il gusto. Non viene chiesto alla tv di formare (con buona pace del grande maestro Manzi) ma di divertire e suggerire possibili acquisti. Per raggiungere questi obiettivi, non possono essere proposti modelli evolutivi estranei all'ascoltatore. Dunque qual è la causa e quale l'effetto? Ritengo che per gli educatori questa sia una domanda non da poco. Domanda che io stessa, come madre, non smetto di farmi.
Per mettere a fuoco una cultura dobbiamo osservarne i suoi miti, grandi o piccoli che siano, di cosa nutriamo i nostri figli, simboli, immagini, relazioni. È ancora molto comune il modello culturale che se i bambini maschi sono un po' bulletti coi compagni saranno anche dei vincenti nella vita, se hanno la fidanzatina, anche più d'una, è un buon segno e se massacrano l'avversario in campo hanno il calcio nelle vene. E le bambine? Questa è un'altra storia.

I nostri figli?
Si chiama entry point. È il "punto di ingresso" del consumatore alla marca. Quando si vuole offrire un prodotto a bambini sempre più piccoli, tecnicamente si dice che "si abbassa l'entry point", cioè l'età del target. Questo avviene non solo attraverso la fumettizzazione degli spot ma anche la sponsorizzazione di eventi, giochi etc. per i bambini. Gli esperti di marketing ci dicono che la spesa per la pubblicità rivolta ai bambini è aumentata negli ultimi anni a livello esponenziale: un bambino di 10 anni ha al suo attivo la memorizzazione di circa 300 marche diverse, e non solo giochi e merendine.
E le bambine molte di più. Si parla di "analisi di genere": tutti i prodotti, a parte il cibo, che si rivolgono a bimbi oltre i 2 anni, sono direzionati secondo il genere. Il marketing segue semplicemente la psicologia evolutiva: a 2 anni i bambini si riconoscono maschi e femmine, a 3 riconoscono anche gli altri secondo il genere, a 5 si costruiscono i ruoli nei luoghi di interazione primaria, famiglia, scuola, amici. Che i bambini siano diversi nel genere non ci vuoi molto a dirlo, ma in che senso? Ci sono state molte acquisizioni in campo pedagogico da quando alle bambine non si perdonava una macchiolina di tempera sulle mani o il grembiulino stropicciato. E i maestri, per fortuna, lo sanno. Le bambine finalmente possono arrampicarsi sugli alberi al pari dei bambini, ai quali rivolgevano lo sguardo ammirato dal basso verso l'alto; a loro non era concesso nemmeno di provare a salire su una siepe. Sì sembra proprio così, l'ho visto anch'io nell'asilo accanto casa mia, bambine e bambini finalmente con le stesse opportunità.
Ma non appena arriva l'età scolare le cose cambiano: alle gonnelline pieghettate di un tempo si sono sostituite gonne leopardate, pantaloni attillati a vita bassa, pinocchietti neri. È un po' dura salire sull'albero, ma anche correre in giardino. Il vecchio armamentario della seduzione in miniatura, modernizzato e con l'aggiunta di tante scritte provocanti (rigorosamente in inglese, che fa trendy). Ed eccole le bambine: sono l'interlocutore privilegiato di quel settore che produce accessori, vestiti, e un'infinita serie di collezionabili e tascabili, bambolini, cucciolini, e relativi accessori glitterati e profumati. Il consumo ha vinto qualunque battaglia egualitarista fosse venuto in mente di combattere. Alle Barbie si sono affiancate le Bratz e le Winx (made in Italy): labbra gonfie, vestiti succinti, curve sproporzionate. Hanno uno splendido rapporto con la natura e vanno a scuola di magia. Quale messaggio veicolano queste intelligenti e brillanti, modernissime fatine dei cartoni?
Niente paura, le donne hanno fatto strada: i loro risultati scolastici sono migliori dei loro coetanei maschi, dalle primarie fino all'università. Parlare di subordinazione femminile sembra un lamento fuori tempo, il patetico ritorno a vecchie e non guarite isterie. Ho provato a dare uno sguardo "scientifico" alle letture dei libri di scuola elementare dei miei figli. Se le mamme lavorano sono insegnanti, infermiere o segretarie, e l'immaginario fantastico è dispiegato di fate, fatine, streghe, maghe, principesse. I ruoli maschili sono architetti, macchinisti, astronauti, e rispettivamente, maghi, re e cavalieri.
Fra le letture c'era persino un bambino che si lamentava della mamma che gli dava le merendine e non aveva tempo di fare le torte. A proposito, cosa fanno le donne? Sembra che, a fronte di nuovi ingressi in categorie lavorative tipicamente maschili, il 75% degli insegnanti siano donne, e così il 93% degli assistenti sociali, il 77% delle collaboratrici domestiche. C'è poi il fenomeno del crystal ceiling, soffitto di cristallo: le donne, che costituiscono più del 75% del corpo docente, diventano meno del 40% dei dirigenti scolastici. Continua la pedagogia del sapere femminile come ornamento? Forse affiancata dalla quasi ovvia separazione di competenze "innate" cosicché alla donna spettano quelle relative a un'indole "istintivamente" capace di prendersi cura degli altri e soprattutto dei bambini? Guardo nella sfera cristallo: la tv. Cosa rimane di quella fiera amazzone che avrebbe conquistato il mondo del lavoro al punto da potersi concedere di giocare alla pornostar senza danni, conciliando il tutto con la sua innata vocazione alla maternità? Mi sembra che sul punto di cogliere la possibilità di una terza via tra volgarità e puritanesimo si sia persa ogni traccia del cammino compiuto. Spesso gli insegnanti, parlando del loro lavoro, giungono a dare un giudizio globalmente pessimistico. Ma siamo davvero disposti a rimetterci in discussione? Si concorda spesso sull'idea che le bambine siano più ordinate, silenziose, attente, affidabili, insomma si lavoro davvero bene con loro.
Talvolta io ho l'impressione che le bambine non siano più brave dei bambini ma semplicemente più compiacenti: capiscono al volo quello che la maestra si aspetta e semplicemente lo fanno. Ritorniamo alla vecchia questione dell'intuito innato? C'è anche quello come stereotipo: trepide fidanzate e mogli (al tempo stesso spietate e implacabili nei confronti delle proprie simili) prospettano il ritorno a una femminilità antica, persino la rappresentazione romantica del matrimonio come il più ambito dei traguardi. Sappiamo le statistiche sui divorzi.
Mi sembra che oltre l'appariscente ostentazione del volgare femminino ci sia la vuota celebrazione del ruolo opposto. Manca una corrispondente evoluzione delle relazioni: il ruolo della donna all'interno della famiglia è rimasto immutato, si è solo diviso in figure, tutte ugualmente femminili. La complessità è data dalla famiglia quanto alla sua composizione (situazione allargata, divorzi, nuovi matrimoni) ma non dalla maturazione dei ruoli: le donne lavoratrici hanno sempre una tata, una colf, una madre (o una suocera), che le sollevano dal carico di lavoro familiare, molto raramente il proprio partner. Insomma, gli uomini possono dormire sonni tranquilli. Dunque perché arrabbiarsi tanto? Eppure alcuni uomini sono molto arrabbiati. In 9 casi su 10 di omicidi all'interno della coppia, è l'uomo che uccide la moglie, o la compagna o la fidanzata (e in Italia un omicidio su quattro avviene tra le mura domestiche). Alcuni dicono che il timore della "perfida ammaliatrice" dell'immaginario vada di pari passo con la carneficina reale.
Far credere alle donne che il proprio potere passasse per l'esibizione disinvolta del proprio corpo, era un trucco ormai superato, il fantasma di Simone de Beauvoir poteva riposare senza alcun tormento. O forse no. Se vado in giro a fare shopping, i negozi appaiono affollatissimi di caricature per eccesso di donne e uomini: iperfemmine e supermaschi. Sembra che la cultura consumistica, giocando tutto sulla re-genderization, abbia ben assunto il compito di offrire alle donne, sin da giovanissime, la disinvoltura sessuale al posto del potere "poietico" (e i papà ne sono compiaciuti). È colpa dei negozi? No di certo. È colpa dei libri di scuola? Non lo diremmo mai. È colpa della tv? (molti sarebbero disposti a trovare questo perfetto capro espiatorio). Sì, ok, la tv e i videogiochi, ma quale idea profonda del femminile e del maschile si distribuisce secondo modalità apparentemente innocue in centinaia di luoghi e supporti, potremmo dire, alieni da ogni contaminazione? Luoghi di formazione e famiglia compresi. E gli insegnanti hanno gli strumenti di osservazione adeguati? Cosa possono fare di fronte a questo?
Trovo conferme all'idea che - a vari livelli - si sia smesso di parlare di persone e si sia ricominciato a parlare di maschi e femmine. Trovare una terza via (che non sia il travestito) pare quasi impossibile eppure fino a pochi anni fa sembrava - per la prima volta - quasi a portata di mano. Perdoniamo facilmente alle nostre bambine, continuamente impegnate in giochi di relazione, di essere pettegole, velenose, gelose e invidiose, ai nostri bambini, sempre a caccia di nuove avventure, di essere violenti, maneschi, rumorosi, inaffidabili e persino bulli; ma non perdoniamo facilmente alle femminucce un abbigliamento trasandato né ai maschietti di tenersi per mano. E non smettiamo forse neppure di dire: «Smetti di piangere ché sembri una femminuccia».

Servire oggi
Tra i diaconi che servono la Parola, ce ne sono molti che sono disposti a rimettersi in discussione. Perché ogni relazione è un atto di fiducia che ti rinnova e chiede un radicamento sempre diverso, un po' oltre dove eri arrivato.
Se il formatore non è permeabile a questa osmosi, avremo un gioco di specchi molto pericoloso in cui non è certo che la storia passata ci abbia insegnato qualcosa. Forse non siamo un popolo mentalmente aperto alle novità e neanche all'immigrazione, considerato anche che siamo diventati terra di importazione di mano d'opera solo da pochi decenni.
E i più recenti avvenimenti non ci aiuteranno certo a metabolizzare, sia mentalmente che fisicamente, i nuovi flussi migratori. Noi italiani viaggiamo carichi di tanti cliché che non ci rendiamo più conto di cosa appartenga davvero alla nostra identità. A poco saranno serviti i debiti da noi contratti sulla pelle dei nostri nonni e bisnonni "accolti" nelle terre d'immigrazione.
A poco saranno servite le battaglie vinte dai nostri maestri quando portavano a scuola i bambini di strada, le bambine destinate ad allevare fratellini, gli uomini ai corsi serali. Oggi abbiamo di nuovo "bambini di strada" da strappare alla play-station, modernissime bambine destinate a laurearsi sognando un futuro da velina, nuovi uomini e donne ai corsi di lingua italiana. Dipende molto da cosa siamo disposti a rimettere in discussione, in termini di ruoli, identità, conoscenze, certezze.




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