VI Domenica del Tempo ordinario (C)


ANNO C - 14 febbraio 2010
VI Domenica del Tempo ordinario

Ger 17,5-8
1Cor 15,12.16-20
Lc 6,17.20-26
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LA BEATITUDINE
CHE CI FA SOBBALZARE

L'odierna pagina evangelica ci propone le beatitudini e i corrispettivi "guai" secondo la versione più stringata e forte dell'evangelista Luca. Il commento risulta immediatamente più difficile non solo per i "guai", assenti dalla versione matteana, ma anche per la prima beatitudine, al v. 20. L'affermazione «Beati voi poveri» ci fa sobbalzare nella sua rudezza. L'equivalente del primo vangelo, con l'aggiunta "in spirito" (Mt 5,3), è più comprensibile e mediata. La prima beatitudine lucana ci taglia fuori tutti. Pare escluderci dal Vangelo senza appello, senza possibilità. Tuttavia, per comprendere che cosa significhi "povero" è salutare percorrere tutto il terzo vangelo. Il termine compare per la prima volta in 4,18 quando Gesù presenta se stesso nella sinagoga di Nazaret. Egli, infatti, compie la Parola secondo cui l'Unto dallo Spirito è stato consacrato per portare il lieto annunzio ai poveri. Anche un'altra ricorrenza in 7,22 rafforza la medesima idea: «Andate e riferite a Giovanni quello che avete visto e ascoltato: i ciechi vedono, gli zoppi camminano, i lebbrosi vengono mondati, i sordi odono, i morti risorgono, ai poveri viene annunziata la buona novella». Dunque, è subito chiaro come il povero non sia beato in virtù della sua condizione di penuria.

Sappiamo quanto la miseria abbrutisca l'essere umano, costringendolo a una continua lotta per la sopravvivenza. Il povero è beato perché il regno di Dio gli appartiene, lo include e lo abbraccia. Da tutto il resto il povero è escluso, perché prima di coincidere con chi vive in condizioni precarie, il povero lucano è un emarginato. Nel testo di Lc 7,22 sopra citato vediamo quale sia la "compagnia" del povero: ciechi, zoppi, lebbrosi e sordi. Il povero, così come il sofferente e l'ammalato sono esclusi da inviti e banchetti perché non hanno nulla da dare: «Invece, quando offri un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi: e sarai beato, perché essi non hanno la possibilità di ricambiarti» (Lc 14,13-14). Molte persone sono per noi interessanti in virtù di quanto possono darci. Ci sono utili e, come tali, sono incluse nelle nostre frequentazioni. Il povero è colui al quale non possiamo guardare come a una potenziale e futura risorsa, ma come a chi vede in noi una risorsa cui attingere continuamente, senza speranza di restituzione. In questo senso, la prima beatitudine suona come l'annuncio di una gratuità eversiva.
Il Regno è di coloro che la società tende e tenderà sempre a emarginare. Si veda quest'altro celebre testo lucano: «Allora il padrone di casa, pieno di sdegno, disse al servo: "Esci presto per le piazze e per le vie della città e conduci qui poveri, storpi, ciechi e zoppi"» (Lc 14,21). Il Cristo è venuto per chi non può dargli nulla, né può corrispondere in alcun modo. Si tratta di una chiara scelta di campo, non certo di una falsa e sdolcinata mistica della povertà. Dio è schierato. Non è imparziale. L'idea di regalità divina vorrebbe invece, se la declinassimo umanamente, che anche il Re dei cieli scegliesse coloro che possono offrirgli per lo meno il loro riconoscimento. L'ordinaria visione del potere, che si alimenta di un gioco "a specchio", è rovesciata. Oggi chi ha il potere lo condivide con chi può rafforzare l'idea di grandezza del donatore. Senza riconoscimento che cosa è il potere di questo mondo? È solo il consenso degli uomini che attribuisce peso a un altro uomo. La regalità divina, invece, non nasce così. Allora, il povero che oggi ha fame domani sarà saziato da Dio, senza appello. Il povero che oggi piange, domani riderà perché il Regno è suo. Come intendere in questa prospettiva la quarta beatitudine (v. 22)? Cosa c'entra la testimonianza resa al Cristo con la povertà, la fame o il pianto?

Annunciare questo Dio rende poveri perché conduce fuori dai circoli del potere. Come potrebbe reagire chi ha il culto della propria autosufficienza alla prima beatitudine? Cosa se ne fa un potente di un Dio che non sta dalla sua parte? Allora guai quando tutti diranno bene di noi (v. 26). Questa è la falsa profezia, è la Parola addomesticata perché soddisfi il palato di chi conta. Nella Scrittura il falso profeta è precisamente colui che asseconda puntualmente le aspettative generali nell'interesse di chi ascolta. Per questo il falso profeta non ha nemici se non il vero profeta. Non è così per quest'ultimo che annuncia le scelte paradossali del Padre e vive senza tornaconto personale. È prevedibile, allora, che il vero profeta divenga a sua volta povero, affamato e afflitto. Egli è portatore di una verità che lo renderà impopolare almeno nell'immediato, fino a quando la Parola viene a compiersi creando la storia di cui è assoluta protagonista.
La verità evangelica è impopolare, minoritaria. Esistiamo come seme nel mondo ma altrettanto esistiamo come piccolo gregge. È finito il tempo dei fasti tipici della societas christiana quando raccoglievamo consensi e inchini a profusione e l'Italia sembrava un Paese cattolico fin nelle proprie radici. Siamo stati lontani dalla prima beatitudine, ma è la Provvidenza a ricondurci sulla strada del Vangelo invitandoci ad assumere un'altra collocazione forse meno strategica ma più luminosa. È la povertà di cui Gesù accenna anche riguardo al missionario chiamato ad annunciare il Regno. Se egli non si fa povero, come potrà guadagnare i cuori a Dio piuttosto che alla propria persona grazie a mezzi di persuasione più o meno occulta? Esiste una impopolarità e fragilità che ci avvicinano all'Uomo delle beatitudini, Dio fatto uomo, impoveritosi per raggiungere "ogni carne", rivelando la logica paradossale del Padre.


VITA PASTORALE N. 1/2010 (commento di Claudio Arletti,
presbitero della arcidiocesi di Modena-Nonantola)


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