IV Domenica del Tempo ordinario
Ger 1,4-5.17-19
1Cor 12,31-13,13
Lc 4,21-30
LA DIVINA PAROLA
È SPADA CHE SEPARA
Chi non conoscesse già il finale del racconto iniziato domenica scorsa, difficilmente dalle premesse udite sarebbe arrivato a immaginare un esito così drammatico. La lettura e il commento di Isaia si erano conclusi con un'attestazione incondizionata di stima e meraviglia: «Tutti gli davano testimonianza ed erano meravigliati delle parole di grazia che uscivano dalla sua bocca». Per quanto ridimensioniamo il verbo greco utilizzato da Luca e tradotto con "dare testimonianza", la scollatura tra la prima reazione dei nazaretani e quella descritta al v. 28 rimane significativa. L'unica frase riportata esplicitamente dall'evangelista - «Non è costui il figlio di Giuseppe?» - apre la porta a una inevitabile serie di conseguenze anticipate dal duro paragone fatto subito dopo da Gesù. L'assemblea nella sinagoga etichetta il giovane profeta come uno dei suoi. Gesù diviene motivo di vanto, ma anche possibilità di vantaggio.
Per questo Gesù replica con il proverbio che invita il medico a curare se stesso e anticipa l'inevitabile richiesta dei nazaretani: «Quanto abbiamo udito che accadde a Cafarnao fallo anche qui». Non è l'assemblea che, nella fede, muove verso colui che compie le Scritture. È il profeta che deve dichiararsi come membro di un gruppo e operare a vantaggio di quello stesso gruppo. Se Gesù è di Nazaret, allora il piccolo paese ha dei diritti su di lui, come se esistesse una sorta di priorità nell'accordare i benefici di Dio. Segue allora in modo consequenziale il duro paragone con cui il giovane profeta sviluppa fino alla fine le premesse poste dai suoi concittadini. Se Gesù è uno di loro, perché Elia ed Eliseo furono inviati a Naaman il Siro e a una vedova in Sarepta? Tutto nella sinagoga sembra perfetto: è il giorno di sabato, tempo sacro in cui Israele si raduna per ascoltare la Parola. Anche il luogo è deputato al culto, è luogo sacro. Eppure non avviene nulla. L'uomo non incontra Dio. Molto di più questo avvenne quando i due profeti incontrarono la vedova e il lebbroso. Non esistono allora privilegi. Per questo nessun profeta è bene accetto nella sua patria (v. 24).
Le migliori premesse non bastano se un gruppo, quale che sia, tende a inglobare e metabolizzare la forza destabilizzante della Parola nei propri luoghi, tempi e schemi di pensiero. Lo Spirito del Signore è sopra Gesù non per confermare privilegi esclusivisti, ma per portare ai poveri il lieto annunzio e ai prigionieri la liberazione. Non esistono gli amici del figlio di Giuseppe. Non esistono nazaretani da un lato e siri o donne di Sidone dall'altro. Chi si riconosce povero e prigioniero incontrerà il Messia e il suo lieto annunzio. Chi ragiona secondo logiche razziali o separatiste, impiegando i profeti a proprio uso e consumo, non li incontrerà mai. Gesù può fare tanto per noi. Ma non certo perché lui è dei nostri o noi siamo dei suoi, quasi che questo significhi poter lecitamente attendere chissà quale scontato beneficio. L'uomo di ogni tempo, in altre parole, vive la dimensione religiosa secondo regole precise, che tutte le religioni presentano, regole a cui noi non sfuggiamo.
Gesù ha violato due di queste regole fondamentali. Anzitutto Dio - così almeno si attende l'uomo religioso "naturale" - deve sempre stupire. Deve comparire sulla scena producendo effetti speciali. Non può presentarsi all'uomo in veste dimessa. È invece quanto accade a Gesù, profeta in patria, uomo conosciuto e dunque prevedibile, almeno in teoria. L'incarnazione stessa appare come scandalo. Secondo, l'uomo tende a stipulare contratti con gli dèi del cielo, in cambio della salute o di altri benefici; il fedele garantisce il culto, Dio, deve garantire una controparte. È un dare e avere, un commercio sacro che fornisce all'uomo che volge lo sguardo al cielo una sorta di polizza assicurativa.
Anche i nazaretani pretendevano di usufruire dei servizi religiosi che questo profeta "fatto in casa" sembrava garantire. Quando la pretesa viene smontata alla radice, la prima favorevole accoglienza si tramuta in odio omicida. Il profeta in patria, non assecondando i desideri da cui è raggiunto, contesta non solo la propria appartenenza, ma contesta la bontà della terra che l'ha generato. Gesù schiaffeggia i propri concittadini, citando il caso di Elia e di Eliseo. Un pagano lebbroso e una vedova idolatra, non ebrea, furono destinatari dei benefici di Dio. Che cosa rimane allora a Israele?
Fin dall'esordio, la parola del Messia, secondo la predizione fatta alla Vergine da Simeone si pone come spada che separa. Tutta l'opera lucana dovrà essere compresa secondo questo schema, utilizzato anche dagli Atti, quando Paolo, dopo aver tentato la predicazione ai giudei, si rivolge ai pagani. Non ci accada di attribuire ai compaesani di Gesù un vizio da cui noi saremmo immuni. Lo stesso accadeva da parte loro con i pagani. Oggi è l'Europa cristiana e l'Italia cattolica ad ascoltare una Parola che continuamente chiama a riscoprire le proprie radici religiose non solo come vanto, ma come compito e missione. Se le nostre radici cristiane sono così marcate ed evidenti, che ne è dei frutti che più non compaiono? Diversamente non saremo noi a conservare e trasmettere la grazia della fede alle prossime generazioni. Sarà invece necessario udire di nuovo l'annuncio da chi ha conservato la freschezza dell'esperienza cristiana. Abbiamo necessità di ricevere dal Messia il dono della vista, di rivivere l'anno di grazia del Signore, come tempo di sincera conversione.
VITA PASTORALE N. 1/2010 (commento di Claudio Arletti,
presbitero della arcidiocesi di Modena-Nonantola)