Ministerialità matrimoniale e ministero diaconale




Atti del XXII Convegno Nazionale
3-6 Agosto 2009



Ministerialità matrimoniale e ministero diaconale
Andrea Grillo


Il timore di una rivoluzione
Una clericalizzazione inevitabile?


Come impostare la prospettiva?
La teologia si è resa permeabile
Per un ripensamento necessario


Un recente mutamento
Nella ricerca della propria individualità
La ricchezza è complessità
Schemi angusti
Non solo categorie giuridiche
C'è bisogno di raffinare alcune categorie teologiche
Logiche a confronto


Alla luce di tale sviluppo dottrinale
Orientamenti teologici
Cambiamenti a catena
Per una testimonianza non clericale
Preghiera ridotta ad ufficio


Vita matrimoniale
Ciò che ogni clericalismo non può vedere
Pronto soccorso permanente
Luoghi di condivisione
Privatizzando le relazioni
I tempi della diaconia


Percorsi di sintesi
Per una visione appassionata ed equilibrata
Clericalismo in agguato
Per trovare modalità diverse
Una ricchezza capace di innovazione



L'opportunità di questa riflessione può aiutare i diaconi a pensare in proprio la questione del rapporto tra il sacramento dell'ordine, nel grado del diaconato, e il sacramento del matrimonio. Ho pensato a lungo come impostare il mio discorso, perché mi sono reso conto che è molto facile trovare diverse cose interessanti nella letteratura teologica a questo riguardo, ma ho anche costatato che si tratta quasi sempre di considerazioni per così dire "difensive". In buona sostanza, è assai facile che si difenda il diaconato dal matrimonio e il matrimonio dal diaconato, secondo un'antica scuola e un vecchio stile, mai del tutto esaurito, tipico della tradizione teologica classica. Ciò comporta necessariamente l'esigenza di pensare le due realtà (il diaconato e il matrimonio) come se fossero realtà in sé già compiute e come se una realtà minacciasse l'altra e viceversa.

Il timore di una rivoluzione
In effetti mi sono reso conto, guardando ai motivi più autentici e più veri che hanno ispirato la reintroduzione del diaconato permanente dal Concilio Vaticano Il in poi, che al di là del problema della penuria di preti e della conseguente esigenza di rinfoltire le schiere, c'era in molti discorsi episcopali del tempo l'intuizione forte che la matrimoniale avrebbe cambiato il modo di pensare e di vivere l'ordine sacro nella Chiesa. Questo - almeno allora - era molto chiaro. Era quasi una traccia meno evidente di altre, meno ripetuta, ma credo che questa stessa prospettiva oggi possa costituire, per dir così, la carta da giocare in modo corretto, in modo ufficialmente possibile, ma anche in modo pienamente legittimo e persino doveroso.

Per questo con l'impostazione del mio discorso voglio offrire un criterio di lettura di fondo, così come appare nel sottotitolo della mia conversazione: «brevi note su come orientare lo sguardo nel rapporto tra due identità in fieri». Si tratta di orientare lo sguardo su due identità che sono appunto l'essere ministro della chiesa, nella forma del diaconato, e l'essere sposati in Cristo: entrambe queste identità hanno vissuto una grande trasformazione negli ultimi cento anni, e sembra proprio che sia ben lontana dall'esaurirsi. Perciò dobbiamo ammettere che non stiamo lavorando con due identità assolutamente chiare e acquisite, che aspetterebbero soltanto di essere in qualche modo congiunte e coordinate a posteriori: come se noi sapessimo già perfettamente che cosa significa essere diacono e poi dovessimo fare i conti con il matrimonio, oppure come se sapessimo che cosa è l'essere sposati nella Chiesa e successivamente considerassimo i rapporti di questa identità chiara con il diaconato. Non è così: una realtà illumina l'altra e ha bisogno dell'altra, anzi, grazie alla novità acquisita di recente in ognuna di queste realtà possiamo meglio comprendere anche l'altra; questa prospettiva è molto più impegnativa, ma in fondo per chi vive oggi questa duplice realtà significa scoprirsi e riconoscersi responsabile di una testimonianza ecclesiale aperta, che va verso un futuro diverso da quello che oggi vediamo e anche da quello che soltanto ieri non avremmo certamente potuto vivere, ma forse neanche immaginare.
Ecco allora il mio breve percorso: dopo alcune premesse generali, vorrei delineare con poche pennellate quanto è cambiata la teologia del matrimonio e quindi parallelamente quanto è cambiata la teologia del diaconato, per poi cercare di approfondire un aspetto della vita matrimoniale che, come vedrete, è la possibilità che i diaconi uxorati (per usare un termine più classico) possano fare un'esperienza non clericale dell'ordine sacro (e sottolineo possano, perché non è affatto detto che un soggetto sposato non faccia in realtà una esperienza del tutto clericale della Chiesa). Credo che il diacono sposato possa - più del diacono non sposato e più del presbitero necessariamente celibe - fare un'esperienza non clericale dell'ordine sacro: tutto questo risulta comunque una possibilità molto strana e molto difficile da capire o da concepire nella vita ecclesiale latina degli ultimi 500 anni.

Una clericalizzazione inevitabile?
E, come si vedrà, questa possibilità affonda le sue radici proprio nella dimensione più semplice della vita matrimoniale, in ciò che il matrimonio comporta di più elementare (ma anche di più profondo) nella vita degli sposi. Non voglio parlarvi qui degli alti principi del matrimonio cristiano, che peraltro non intendo affatto smentire, ma voglio parlarvi delle cose semplici del matrimonio, che cambiano l'esperienza del diacono sposato rispetto al diacono non sposato, al presbitero o al vescovo; e siccome nella chiesa cattolica latina i preti e i vescovi da molti secoli non sono sposati, il diacono sposato ha scoperto da pochi decenni la possibilità di vivere "diversamente" la realtà del ministero ecclesiale ufficiale. Questa è una ricchezza per la chiesa, non una diminutio capitis; essa deve essere fatta valere e deve essere studiata nei modi più chiari, più esigenti, più sapienti; non come una pretesa di spazio o come una rivendicazione sindacale, ma come un altro modo di vivere l'ordine sacro nella chiesa. A tutto ciò seguirà per finire una breve serie di conclusioni, che vorrebbero essere anche piccole provocazioni per il dibattito a venire.


Come impostare la prospettiva?

Siccome lo sfondo del discorso di tutto questo Convegno sono gli "stati di vita", già qui abbiamo una grande tradizione che ha riflettuto su questo tema particolare; e lo stato di vita dello sposato è, appunto, uno stato. Accanto ad esso vi è poi l'aver acquisito una qualifica nella chiesa che si chiama essere divenuto diacono. E questo "status", per lungo tempo, è rimasto ad esclusivo appannaggio di uomini celibi, che, in breve tempo diventavano presbiteri. Si può notare, proprio per come propongo il mio discorso, quanto sia importante capire che gli stati di vita non sono statici, lo stato di vita matrimoniale o è dinamico o non è.

La teologia si è resa permeabile
In uno stato di vita si cambia, non si resta; c'è una stabilità dello stato, certo, ma la stabilità dello stato di vita è a prezzo del cambiamento. Già il fatto di dare risalto a questa affermazione significa entrare nel pieno nella teologia dell'ultimo secolo sul matrimonio e sul diaconato: si tratta di una teologia piena di cambiamenti, ma non per smentire lo stato di vita, bensì per capirlo davvero. Introdurre nel contesto ecclesiale ufficiale una teologia del diaconato come sacramento modifica la comprensione dello sviluppo del sacramento del matrimonio. Di una cosa dobbiamo essere ben consapevoli: che da quando nella chiesa cattolica è (ri-)sorta la possibilità di essere diaconi sposati, il sacramento del matrimonio ha cambiato teologia.
Questo è un fatto nuovo dell'esperienza del matrimonio, che ne modifica profondamente l'impatto ecclesiale e personale. Infatti una teologia che colloca il matrimonio al centro dell'esperienza ecclesiale, come fa la teologia di fine '800 e dei primi del '900, modifica la teologia dell'ordine, di tutto l'ordine: nel modo di concepire i vescovi, nel modo di comprendere i preti e anche nel modo di pensare i diaconi in rapporto a una famiglia che non è più semplicemente - per così dire - la fruitrice di servizi ecclesiali, la destinataria di parole e di azioni, ma è soggetto ecclesiale di per sé, proprio in quanto famiglia, indipendentemente dal diaconato.

Per un ripensamento necessario
Questo è un orizzonte di grande novità, rispetto al quale sia la teologia del matrimonio sia la teologia dell'ordine devono lentamente pensare (ed essere pensate) in modo più adeguato. Per questo il punto di arrivo delle mie premesse, come anche di tutto quello che vi dico, si colloca all'interno di una riflessione sulla ministerialità nella chiesa, capace di trovare spazi anche minimi, senza troppe pretese di clericalizzazione. In altri termini, posso dire che esiste una reciprocità possibile tra diaconato e matrimonio e che senza alcun dubbio l'introduzione di una teologia del diaconato come sacramento ha modificato la comprensione del concreto sviluppo del sacramento del matrimonio, mentre viceversa una teologia che colloca il matrimonio al centro della esperienza ecclesiale modifica tutta la teologia dell'ordine, ivi compresa la teologia del diaconato. La posta in gioco, in tutto questo, è una riflessione sulla ministerialità nella Chiesa che sia capace di trovare spazi, anche minimi, di "declericalizzazione". Qui, secondo me, si gioca una partita davvero importante, che non riguarda anzitutto i diaconi, ma la Chiesa tutta. Dobbiamo chiederci, con una certa radicale necessità, se oggi la chiesa sia capace di darsi forme di ministerialità non clericale. Proviamo a vederlo sullo sfondo del duplice cambiamento delle teologie del ministero e del matrimonio.


Un recente mutamento

La condizione del diacono che vive da sposato sembrerebbe quella di un diacono che vive uno stato di vita in qualche modo chiaro, su cui non ci sono troppe questioni. In realtà la nuova soggettività della famiglia, che ha assunto nuovi ruoli e nuovi compiti nella comunità ecclesiale, rende meno chiaro quello "stato", visto che la teologia della famiglia si è molto personalizzata e si è molto avvicinata a essere intesa come una piccola ecclesia. I soggetti della famiglia - anzitutto marito e moglie - non sono più soggetti solo in rapporto ai figli, alla generazione: è vero che c'è una tradizione teologica lunghissima secondo cui il matrimonio nella chiesa esiste anzitutto perché gli uomini muoiono, perché finiscono e c'è bisogno di avere figli - e questa resta una motivazione insuperabile, anche se insufficiente.

Nella ricerca della propria individualità
La teologia ha perciò riscoperto che le motivazioni del matrimonio sono più complesse e articolate di queste e la personalizzazione dei due soggetti comporta (come appariva chiaramente dalle ultime battute dei discorsi che facevano le mogli dei diaconi all'interno di questo Convegno) una grande personalizzazione del matrimonio. Il che significa appunto che la sposa ha tutto il dovere e il diritto di rispettare la propria individualità in rapporto a quella del marito, anche quando egli fosse diacono. Questo è un problema recentissimo, degli ultimi cento anni. Prima non si sarebbe discusso in tali termini né per il diaconato (ridotto a passaggio breve per giungere al presbiterato) ma nemmeno in relazione al matrimonio, la cui lettura rimaneva sostanzialmente marginale rispetto al tema del ministero.
Questa svolta nella lettura del matrimonio e del diaconato cambia non solo i singoli sacramenti, ma l'autocomprensione della chiesa stessa; la personalizzazione del matrimonio cambia il soggetto ecclesiale tout court e questo è un fatto molto imbarazzante, perché la famiglia non è più unitariamente destinataria di messaggi, ma è al proprio interno soggetto articolato (il padre, la madre, i figli) di annuncio, di testimonianza, di carità.

La ricchezza è complessità
Tale orizzonte racchiude e limita un quadro molto più complesso, ma molto più ricco: come tutte le cose ricche è molto più complicato. Nella teologia che si è sviluppata a partire da questa novità degli anni '30 del '900, e che poi è esplosa dal Concilio Vaticano II in poi, abbiamo assistito quasi subito al manifestarsi di due eccessi: un eccesso è costituito dal fatto di ripetere retoricamente che questa è una novità grandissima, senza che nei fatti cambi alcunché. Si dicono tutte le cose come se fossero nuove, ma si continua a fare come se le cose non fossero affatto nuove: si continuano a trattare i giovani che devono sposarsi come se fossero degli scolaretti, si trattano le persone con paternalismo come se fossero soltanto i destinatari di un servizio e non i soggetti di un sacramento.
Questo è sicuramente un eccesso; ma c'è anche l'eccesso opposto, ossia quello di considerare i coniugi come ministri della chiesa - al rango di vescovi e di preti: si tratta di un'esagerazione clericale che si ammanta delle vesti false delle cosiddette rivendicazioni laicali, che avranno pur sempre il loro senso, ma che non deve mai essere esagerato. Gli sposi non sono ministri della chiesa in quanto tali: sono piuttosto soggetti del battesimo che maturano una vocazione specifica, la quale non è un ministero nella chiesa in senso proprio, anche se l'esercizio del matrimonio comporta una ministerialità ecclesiale anche molto significativa. Questi sono dunque i due eccessi da evitare: trattare i coniugi come se fossero semplici "clienti" dei preti oppure considerarli direttamente alla stregua dei presbiteri. Questo accade poiché non si riesce più a pensare e a riconoscere una categoria intermedia tra "laici" e "clero". Questo è il problema, ed è evidente che si tratta di un problema di pensiero, di esperienza pensata adeguatamente, di un modo diverso di concepire la chiesa, di restituirne una figura più fedele e più articolata.

Schemi angusti
Se in testa abbiamo soltanto il doppio schema - laici e/o chierici - ogni soggetto è costretto a stare e a riconoscersi o in una categoria o nell'altra. Questo è un modo di pensare di provenienza medioevale, ma che il Medio Evo viveva con grandissima libertà, come un gran signore, e che noi viviamo invece con estrema angustia, veramente da schiavi. Nel Medio Evo un laico come Dante poteva scrivere la Divina Commedia, mentre un chierico come Boccaccio sapeva scrivere il Decameron. Questa è libertà! Ve lo immaginate voi oggi un laico capace di scrivere la Divina Commedia e un prete capace non di scrivere, ma anche solo di concepire il Decameron? In entrambi la incompetenza e il moralismo bloccherebbero sul nascere un tale progetto. Chi è oggi nella Chiesa tanto curioso delle periferie urbane postmoderne come Boccaccio lo era della nascente civiltà comunale? Chi c'è nella società civile di tanto assetato di verità quanto era Dante all'inizio del suo viaggio? Questa è autentica libertà, dentro categorie molto più elastiche e duttili di quelle che abbiamo prima ereditato e poi irrigidito.

Non solo categorie giuridiche
Per tentare di pensare in modo meno inadeguato i soggetti delle "nozze", e quindi per meglio intercettare le loro gioie e le loro speranza, la liturgia del matrimonio ci costringe oggi a pensare fuori dell'alternativa laico/prete. Possiamo oggi notare molto bene tutte queste variazioni di accento consultando il rito del matrimonio nella sua versione italiana più recente (2004) dove, appunto, il consenso e la benedizione hanno riacquisito un equilibrio che nella nostra tradizione degli ultimi secoli era sempre risultato assai problematico. Infatti noi dipendiamo da una tradizione che a partire dal XIX secolo ha irrigidito le categorie giuridiche di considerazione del matrimonio, identificando il ruolo ministeriale esclusivamente nei coniugi titolari del consenso.
La lettura solo giuridica del sacramento e la concezione del ministero come "diritto di esclusiva sulle parole della formula" ha condotto a una lettura del tutto sbilanciata della tradizione, smarrendo la possibilità di attribuire un ruolo di qualche rilievo alla parola di "benedizione", di cui titolari non sono certo i coniugi. In realtà nel sacramento del matrimonio la ministerialità è complessa e per questo è viva. Noi oggi dovremmo dire che se si considerano ministri del sacramento o solo gli sposi o solo il prete, si approda sempre ad una grave incomprensione del matrimonio. Tuttavia, pur di fronte a questa consapevolezza, facciamo molta fatica a recuperare il terreno perduto, a causa del fatto che abbiamo categorie troppo rigide, che giochiamo l'una contro l'altra, mentre dovremmo capire che la ministerialità del consenso e quella della benedizione hanno bisogno di intrecciarsi e di integrarsi, senza mai potersi escludere a vicenda. C'è una ministerialità della comunità, quella del prete che benedice, e una ministerialità della famiglia, che è quella degli sposi, che si lasciano benedire. Il loro consenso, che è l'inizio della loro vita comune, non sta però all'inizio: non sta sopra, bensì sotto la benedizione di Dio in Cristo, mediata dalla comunità presieduta dal ministro.

C'è bisogno di raffinare alcune categorie teologiche
Questo, almeno ancora per noi oggi e per la nostra forma mentis, è molto difficile da pensare teologicamente. In tale contesto il diacono sposato non solo è ministro del proprio matrimonio, ma è anche ministro del matrimonio altrui, ogni qual volta presieda una celebrazione delle nozze. Si può costata re qui una "bella complicatezza", dovuta all'intersecarsi di categorie che normalmente operano isolate: nel diacono sposato la funzione di vivere una ministerialità è quella che si esercita nell'ambito familiare, mentre viverne un'altra - di carattere ecclesiale - comporta essere all'altezza di questa teologia fine. Qui c'è bisogno di raffinare categorie troppo grossolane, che non parlano più della realtà e che anzi ostacolano il nostro rapporto con il reale, ci rendono astratti, lontani, noiosi o, peggio, presuntuosi.
Ne possiamo desumere che matrimonio e ordine hanno una sporgenza reciproca. Il matrimonio non può essere compreso nella logica dell'ordine e l'ordine non si può capire nella logica del matrimonio: il matrimonio ha una forza naturale che nessun livello dell'ordine (né l'episcopato, né il presbiterato, né il diaconato) potrà mai avere (come bene ha detto L.-M. Chauvet) e per contro l'ordine ha un rilievo istituzionale e "autorevole" cui nessun matrimonio potrà mai aspirare (e questo è non solo giusto, ma anche salutare per tutti, coniugi in testa).

Logiche a confronto
C'è nel matrimonio un fine in sé che è più forte di qualsiasi ordine sacro. Quando San Tommaso d'Aquino presentava l'elenco dei sette sacramenti diceva una cosa straordinaria, cui non sappiamo più rendere giustizia. Spesso noi diciamo che San Tommaso è famoso perché è uno di quei teologi che ha contribuito a diffondere l'idea che il matrimonio sia un rimedio alla concupiscenza e lo colloca in fondo a tutti gli altri sacramenti, per ultimo, come il meno importante.
In realtà san Tommaso è altrettanto convinto che il matrimonio sia il sacramento più importante di tutti, almeno "ratione significationis". Quando elenca i sette sacramenti dice: come nella vita naturale si nasce, così nella vita spirituale c'è il battesimo, come si cresce, c'è la cresima, come si mangia, c'è l'eucaristia. E se noi fossimo impassibili, ci basterebbero questi tre sacramenti. Ma poiché ci ammaliamo o spiritualmente o materialmente, abbiamo bisogno sul piano spirituale della Penitenza e dell'unzione dei malati e poi siccome non bastiamo a noi stessi abbiamo bisogni di esercitare il potere e di generare e quindi sul piano spirituale abbiamo bisogno dell'ordine, ma poi dice «e la generazione è il sacramento del matrimonio»! Non dice che sul piano spirituale c'è il sacramento del matrimonio. L'unico dei sacramenti dove non c'è duplicazione di livelli, ossia distinzione forte tra naturale e spirituale, è il matrimonio: nel matrimonio il piano naturale e quello spirituale si identificano. Questo è l' "optimum", che quando si corrompe diventa il suo "pessimum". Questa è un forza che nessun servizio ecclesiale potrà mai avere. In questo il diacono sposato partecipa di una forza più grande del celibe, perché partecipa dell'esperienza di alleanza matrimoniale. D'altra parte il ministero ordinato ha i suoi gradi massimi di episcopato, di presbiterato e poi c'è il diaconato al cui interno è possibile unire l'esperienza matrimoniale con l'esperienza della diaconia in forma specifica. Questo credo sia un ottimo criterio per creare una sintesi di esperienza che ha bisogno di confrontarsi con la migliore teologia del matrimonio possibile.


Alla luce di tale sviluppo dottrinale

Tutto ciò che abbiamo appena detto circa la teologia del matrimonio, se ci spostiamo all'altro "corno" della nostra questione, che cosa ci fa pensare sul piano della teologia del diaconato? Ci induce anzitutto a fare una prima riflessione importante: nella storia della chiesa il passaggio tra cambiamenti di carattere disciplinare e cambiamenti di carattere dottrinale è sempre stato un passaggio ricco di conseguenze. Ancora oggi è possibile, come ridicevo all'inizio, che il problema del diacono uxorato sia risolto sul piano sostanzialmente disciplinare. La disciplina circa il diaconato, da qualche decennio - a seconda dell'attivazione che le singole chiese nazionali e diocesi hanno ritenuto di adottare - ha reso possibile disciplinarmente il fatto singolare (per noi cattolici occidentali, non per i cattolici orientali o per i protestanti occidentali e orientali) di unire il diaconato al matrimonio.
Questo mutamento disciplinare, però, comporta dottrinalmente un cambiamento di identità, che va pensato fino in fondo ed è ciò che oggi sta accadendo per la prima e seconda generazione di diaconi. Per questo a me sembra che l'iniziativa non solo di radunare e formare i diaconi ma di affrontare teologicamente e sistematicamente i nodi delle questioni sia un'iniziativa meritoria perché su questo piano, se non lo fanno i diaconi, non lo può fare nessuno.

Orientamenti teologici
Io posso farlo da teologo coniugato, un altro può farlo da vescovo o da prete, ma questo percorso di ripensamento teorico va fatto soggettivamente dal diacono uxorato, che pensi fino in fondo la realtà teologica della propria identità, senza lasciarsi chiudere in categorie solo disciplinari, che di per sé non hanno la forza di ri-pensare l'istituto del diaconato nella sua globalità. E non perché le norme disciplinari non abbiano tutto il valore che meritano, ma perché sono "solo" discipline: le discipline sono necessarie, ma gli uomini devono pensare le loro identità sempre anche al di là e al di qua delle discipline. Che ci siano da alcuni decenni, di nuovo, dei diaconi sposati nella chiesa cattolica, questo è un cambiamento di clima, di respiro, di prospettive per tutta la chiesa: non solo per i diaconi stessi, ma anche per il vescovo, per il laico, per il padre di famiglia o per il presbitero. La presenza del diacono sposato contribuisce a cambiare e a precisare tutte queste identità, che lo vogliamo o no. Allora proprio qui, leggendo molto brevemente la storia dell'evoluzione di questa istituzione e scoprendo - come accade per quasi tutte le riforme del Concilio Vaticano II - che le intenzioni iniziali non corrispondono ai risultati, a volte ci sono intenzioni molto marginali che generano grandi capolavori o grandi intenzioni che non risultano affatto feconde. Se si legge che cosa dicevano i vescovi alla fine anni '50 e nei primi anni '60 delle questioni liturgiche, si fa una certa fatica a capire che ne sia potuta scaturire la riforma liturgica. Lo stesso vale per le opinioni che venivano espresse sulla chiesa o sulla Parola di Dio.

Cambiamenti a catena
Il problema del diaconato in larga parte era avvertito come un problema di estensione della forza apostolica ecclesiale. Qualcuno però, nonostante questo, capiva lucidamente che questo era un passaggio di rinnovamento non solo disciplinare, ma anche dottrinale, che riguardava in modo complessivo la forma ecclesiae. Per questo le resistenze a ogni novità venivano proprio su questo livello, sul fatto che fosse un precedente pericoloso: se si cominciava ad aprire il diaconato al matrimonio, non si sarebbe potuto evitare di estendere la stessa possibilità ad ogni grado del ministero ordinato... Anche in quel caso, una lettura ostinatamente "pedagogica" della disciplina induceva ad una prudenza esagerata, del tutto paralizzante, perché suggerita non dal perseguimento del bene, ma dal timore del male.

Per una testimonianza non clericale
H. Legrand, in uno dei suoi interventi sul diaconato che ho già citato, parla della opportunità che il diaconato permanente apra uno spazio per una declericalizzazione del ministero ecclesiale. Il diacono sposato può introdurre garbatamente e in modo sereno nella chiesa cattolica una possibilità di ministero ordinato non clericale. Non perché la clericalizzazione sia in assoluto da sconfiggere o da superare, visto che certe forme di clericalizzazione sono inevitabili, ma affinché ci sia una testimonianza non clericale, che venga considerata come ministero ufficiale della chiesa. Questa è una possibilità che il diaconato permanente degli sposati obiettivamente potrebbe essere in grado di dischiudere.
A me pare che il punto chiave di quello che qui chiamiamo declericalizzazione - e che può sempre essere una parola da spendere solo retoricamente e senza vera efficacia - potrei tradurlo così: dobbiamo evitare ogni forma di immunizzazione clericale dalla realtà. Cerchiamo di capire che cosa significa. È noto che "clericale" è un aggettivo non solamente negativo, poiché dice un certo modo di vivere, di essere mantenuti, di avere rapporti e relazione, di abitare e di dormire. Questo modo di comprendere il ministero - e di autocomprendersi del ministero - nel mondo moderno post-tridentino e in modo crescente dal '700 in poi, ha creato una forma di immunizzazione dalla realtà, chiude il soggetto in un luogo nel quale sembra che tutto vada bene e che tutto ruoti intorno a lui. Si rifletta su questo fatto: contro la clericalizzazione del clero un uomo come P. Gueranger nella Francia degli anni '30 nell'800 dava inizio ad un nuovo monastero benedettino dopo che Napoleone li aveva soppressi tutti. Egli era un prete diocesano che diceva: se continuiamo a vivere come ordinariamente viviamo da preti, finiremo per non capire più niente di Gesù Cristo e della chiesa. Dobbiamo vivere invece partendo dalla liturgia e dalla preghiera. Il suo modo di rompere con la clericalizzazione del suo tempo e di superare l'immunizzazione dell'esperienza che da ciò discendeva poteva essere adatto al mondo dopo Napoleone, nel quale si poteva facilmente dimenticare il fatto che, se non si ricomincia a guardare la realtà dalla preghiera comune, dall'Ufficio e dall'eucaristia, non si potrà essere veramente preti.

Preghiera ridotta ad ufficio
Questo è un messaggio che è rimasto come eredità all'800 e al '900. Ancor oggi una delle forme peggiori di clericalismo è la preghiera autosufficiente, la preghiera ridotta a ufficio. È clericalismo che immunizza dalla realtà, che colloca lontano, che isola e che inaridisce. Oggi i preti devono sapere che pregare è certo anche un ufficio, ma è anzitutto un'esperienza di comunità: se non capiscono questo (come lo aveva già capito Gueranger nel 1830) finiscono per collocarsi fuori dalla realtà. Disciplinarmente sono buoni preti, non commettono abusi, ma non hanno più rapporto col reale, ne hanno perso la grammatica e la sintassi.
Credo che il ministro sposato (diacono) abbia buoni motivi per pensare, se vive il proprio matrimonio e vive il proprio ministero diaconale, di avere degli ausili per mostrare una resistenza maggiore alla caduta clericale rispetto a tutti i ministeri ecclesiali. I ministeri ecclesiali tendono ad autogenerarsi senza rapporto con la realtà. È una tendenza umana del tutto comprensibile, a cui il ministero episcopale e presbiterale reagisce con i suoi modi e mondi celibatari, mentre quello diaconale uxorato ha, secondo me, dei criteri di resistenza più forti che, mi sentirei di dire, sono legati allo stato di vita che il soggetto vive, alla specificità di una vita matrimoniale, che è indubbiamente diversa dalla vita celibataria, come tutti possono facilmente capire e riconoscere.


Vita matrimoniale

Dobbiamo ora approfondire meglio questa nostra ultima considerazione: che cosa significa in concreto questa differenza della vita matrimoniale per l'esercizio del ministero ecclesiale? Una premessa è necessaria: qui non vogliamo pensare al matrimonio come ad una serie di verità dogmatiche o di norme disciplinari, né come ad una serie di ascesi o di evidenze morali - come, ahimè, siamo troppo abituati a pensarlo - bensì come una serie di preziose pratiche simbolico-rituali fondamentali.

Ciò che ogni clericalismo non può vedere
Essere sposati vuoi dire, certo, rispettare certe verità, essere disponibili a certe discipline, riconoscere certe priorità morali, ma tutto questo in fondo è astratto, lontano, non immediato: concretamente, a che cosa corrisponde? A mio avviso l'esperienza matrimoniale si può identificare anzitutto a tre livelli, che possono essere compresi come stili di azione e modi di agire particolari, oppure come luoghi di servizio e di rapporto, o infine come tempi di gratuità e di riconoscimento. Circa le modalità di azione e gli stili dell'operare, la diaconia familiare quotidiana è fatta - secondo una trilogia che è del tutto ecclesiale e persino liturgica - di forme di iniziazione, di guarigione e di servizio, dove l'iniziazione è, appunto, non solo educare i figli ma anche lasciarsi educare dai figli, educare e lasciarsi educare dalla moglie, educare e lasciarsi educare dal marito, cioè essere disposti a cambiare nel rapporto, secondo una logica per cui tu educhi tuo figlio e, nel frattempo, tuo figlio educa te. Se non sei disposto a questo "scambio", non educhi nessuno, se sei rigido nell'educazione non riesci a educare davvero. La vera educazione è un cambiamento, certamente determinato da un'autorità rispetto ad una libertà in fieri, ma se il figlio diventa libero, questo fatto cambia sempre anche la libertà del padre.

Pronto soccorso permanente
Se pensiamo, poi, alla guarigione, ciò non significa soltanto avere in bagno, come accade in ogni buona famiglia, l'armadietto delle medicine, ma essere disponibili a curare le ferite di tutti i tipi, prendere l'altro come il destinatario di una parola e il soggetto di una parola reciproca che si prende cura di te e di cui tu ti prendi cura, Nella guarigione diventiamo responsabili delle condizioni di vita, di lavoro e di riposo dell'altro, facendole diventare oggetto della nostra cura. C'è poi il servizio che è fatto delle mille sostituzioni familiari in cui uno fa il ruolo dell'altro. La logica familiare, bene o male, vive di questa possibilità che uno sostituisca l'altro nel ruolo interno alla vita della comunità.

Luoghi di condivisione
Nell'intreccio di iniziazione, guarigione e servizio vive ogni famiglia: questa prospettiva di lettura, come è evidente, ci si rivela grazie alla chiesa; ma la chiesa può e deve continuamente reimpararla dalle famiglie, perché nelle famiglie iniziazione, guarigione e servizio sono legate a immediatezze urgenti, pressanti, che si impongono e che non si possono rimandare. La famiglia non può fare "ideologia" con queste categorie. Pensiamo ora ai luoghi in cui ordinariamente si esercitano questi azioni: qui qualcuno forse avrà già sentito parlare di questa strana triade, composta da tavola, talamo e toilette (sì, avete letto bene): sono tre luoghi classici per ogni famiglia (in quale casa può mancare la cucina, la camera da letto o il bagno?) nei quali il rapporto con l'altro è un rapporto di radicale comunione: comunione di pasto (a tavola), comunione sessuale ma anche di sonno (a letto) e comunione di evacuazione e di pulizia (in bagno).
In ogni famiglia vi è questo rapporto elementare di comunione radicale, che risulta evidentissimo quando nella famiglia entra un piccolo bimbo: ogni bambino ha bisogno di comunione di talamo, di tavola e di toilette, in un modo assolutamente radicale nello spazio e nel tempo: bisogna sempre stargli accanto. Ogni mamma lo sa per natura, ma anche ogni papà lo apprende molto presto; lentamente ogni bambino si avvicina ad una certa autonomia nel mangiare, nel dormire, nell'esseri ripulito, fino a non aver più bisogno di chi lo imbocca, di chi lo fa dormire e di chi lo "cambia" o lo accompagna in bagno. Le nostre vite adulte sono cominciate tutti da questa comunione e, se andiamo molto avanti con gli anni e con l'esperienza, torniamo ad aver bisogno di qualcuno che ci nutra, di qualcuno che ci pulisca, di qualcuno che ci faccia dormire. Agli estremi siamo tutti così: in mezzo ci dimentichiamo di quello che siamo, e tanto maggiore è la dimenticanza se non viviamo una logica familiare viva e urgente. Il mito dell'autosufficienza è appunto un mito, che taglia via a tutti, indiscriminatamente, i primi tre anni di vita e gli ultimi mesi o anni di vita, come anche i mesi di degenza ospedaliera, ad es. per chi si rompe entrambe le gambe sciando. La vita familiare fa memoria, finché funziona, di questa radicale forma di comunione intorno alla tavola, sotto le colti e alla cosiddetta toilette, Mantiene viva la memoria che gli uomini e le donne hanno "bisogni" e dipenndono da essi. Hanno fame, hanno sonno, debbono ripulirsi perché si sporcano, e in origine e alla fine hanno bisogno di altri per essere puliti. Questa è una dimensione tipicamente familiare, della famiglia domestica ma anche della famiglia monastica ed ecclesiale, perché anche la famiglia monastica/ecclesiale - se vuole restare "famiglia" - deve aver ben chiare queste tre dimensioni essenziali della vita comune.

Privatizzando le relazioni
Degli anziani la famiglia si prende cura in modo strutturato: pensate quanta fatica fa la comunità ecclesiale normalmente a prendersi cura dei preti anziani. Le parrocchie, le diocesi, riescono davvero a prendersene cura? Questo è il tipico segno di un clericalismo delle relazioni, che privatizza e che immunizza dalla complessità dell'esperienza di servizio. Anche nella chiesa il servizio è radicato nelle strutture relazionali, che sono invariabilmente comuni a tutti gli uomini.

I tempi della diaconia
Qui dovremmo osservare che il modello di formazione post-tridentino - con la sua struttura e le sue evidenze, in quanto modello rispettoso di queste esigenze, che si è alimentato proprio di queste consapevolezze - oggi fa acqua da tutte le parti. Ma consideriamo da ultimo i tempi: anche qui è interessante che l'esperienza familiare sia almeno di solito un'esperienza di pazienza nel sincronizzare e nell'accettare la diacronia, nel mettere insieme tempi diversi e accettare tempi differenziati. Pensiamo alla grande fatica con cui oggi le famiglie vivono il rapporto lavoro/vacanza/festa e come il clericalismo classico tende a far fatica a concepire la vacanza, che traduce sempre di nuovo in "lavoro": della vacanza, invece, abbiamo tutti bisogno. C'è una forma di clericalismo che è anche tipico delle famiglie, non soltanto dei preti, e che consiste nel dire «io di vacanza non ho bisogno», oppure «io sono sempre in servizio».
Prima o poi il soggetto che cade in questa trappola esplode, perché non è capace di vedere con lucido realismo il limite insuperabile della sua disponibilità. Una forma insidiosa del clericalismo è quella di chi ha la pretesa che ogni tempo possa essere vissuto come festivo: umanamente non è mai così. Adesso è diventato tutto tempo del lavoro, mentre oggi la grande competenza temporale dei vescovi e dei preti, come anche dei laici e dei diaconi sposati è di essere come dei trait d'union, comunicatori di opportunità e di problemi, nel saper distinguere i tre tempi della vita (lavoro, vacanza e festa), senza consegnarsi all'illusione di un mondo fatto solo di vacanza, ma anche senza cadere nell'eccesso opposto di pensare che si vive soltanto per lavorare e che l'unica vera dignità è quella del lavoro. Questa è oggi una questione delicatissima, che si presenta con urgenza in ogni famiglia: le famiglie che funzionano sono capaci di fare sintesi tra i tempi, di tenere insieme la responsabilità del lavoro, la gratuità della festa e la spensieratezza della vacanza. Qui l'esperienza matrimoniale è un'esperienza che nella sua buona routine dà argomenti alla vita episcopale e presbiterale dove il celibe, non raramente, può essere molto più fragile perché può vivere un tempo solo singolare, mentre la presenza di altri come moglie e figli, che si impongono, determina una vigilanza grande nel tenere conto di un tempo più complesso del proprio, che è poi il tempo comune.
Il tempo è complesso di per sé e discernere tra tempo libero, tempo del lavoro e tempo della festa è oggi la grande competenza che si chiede al ministero ecclesiale. Il ministero del diacono, da questo punto di vista, può avere, proprio in quanto sposato, una marcia in più non solo sul piano della esperienza ma anche su quello della teoria. I diaconi, con le loro famiglie, fanno sicuramente già questa esperienza, ma nelle realtà in cui esercitano il loro ministero di diaconi, questo elemento, con pazienza, con molta umiltà, con modestia, ma anche con lucidità, possono e debbono farlo valere, come una questione che merita una specifica attenzione, ecclesiale e culturale.


Percorsi di sintesi

Per una visione appassionata ed equilibrata
Mi avvio a pochi percorsi di sintesi, perché la visione globale conclusiva risulti ad un tempo appassionata ed equilibrata. In questo "vedere", come già preannunciavo con l'esergo tacitiano «In omnibus proeliis primi aculi vincuntur», gli occhi possono essere facilmente "vinti" e, se così fosse, avremmo già perduto l'occasione per un atto di intelligenza più profonda e più feconda della nostra condizione ecclesiale. Il primo punto su cui desidero tornare - e che ho già sottolineato alcune volte - è l'esigenza ormai secolare di una parziale declericalizzazione del ministero ecclesiale; dico intenzionalmente "parziale" perché non c'è qui - e non credo debba esservi mai - la pretesa di proporre un modello totalmente declericalizzato di ministero, ma solo una parziale, ma provvidenziale declericalizzazione, che può dare alla chiesa una vista più acuta, un linguaggio più sciolto, interlocutori più disponibili, appassionata forme di testimonianza più duttili.
Il clericalismo, per tante anche nobili ragioni, è incline alla pura difesa dello status quo, e guai se non vi fosse qualcuno che continua in questo esercizio difensivo ad oltranza. Abbiamo bisogno anche noi di chi "vigili" in questo modo: guai se restassimo senza "anticorpi ecclesiali". Ma qui si tratta, invece, di riconoscere che la vigilanza impone anzitutto ben altro. Vigilanza è apertura al bene che viene, che ancora non si vede. La vigilanza evangelica attende non il ladro, ma lo Sposo. Di qui discende la necessità di osare, di parlare altri linguaggi, di sperimentare possibilità di vita e di annuncio che non sono cose nuove, ma antiche forme di sapienza cristiana, vecchie tanto quanto la chiesa e di cui ci eravamo dimenticati. Siamo noi moderni a rimanere irrigiditi in schemi troppo poveri, troppo impauriti, troppo ingenerosi, che ci fanno perdere il rapporto col reale. Pensiamo che la realtà ci scavalchi, ma ciò accade solo se pretendiamo di farla entrare in categorie vecchie, inadeguate e ultimamente ingiuste, che solo in apparenza ci proteggono; noi siamo scavalcati dalla realtà non perché non riusciamo a stare al passo con essa, ma perché ci illudiamo di poterla ridurre, nella sua inesauribile novità, ai moduli concettuali con cui la si pensava, se va bene, cento anni fa.

Clericalismo in agguato
Di qui discende una possibilità maggiore, che indico come possibilità senza darla affatto per scontata, ossia che i ministri celibi della chiesa (vescovi e presbiteri) possano rifugiarsi sempre più in forme di immunizzazione clericale. La loro forma di vita li avvantaggia in tutto ciò: essi vivono una forma di vita che, almeno da questo punto di vista, è per loro una tentazione in più. Questo si sa da sempre, ma oggi deve essere chiaro e di fronte ad esso non si può assolutamente sbandierare il fatto di essere sposati come una garanzia immediata, perché una possibilità minore da scongiurare è che gli sposati, in una tale contingenza, finiscano per essere ancora più clericali dei non sposati, proprio perché, a volte, la formazione meno lunga e meno accurata, la preparazione più abborracciata, portano il ministro "uxorato" a cadere "a capofitto" in categorie problematiche o inadeguate, di cui un vescovo o un prete sanno di doversi fidare solo fino a un certo punto. Il laico o anche il diacono sposato può assumere quelle nozioni in modo troppo drastico e cieco, e può arrivare a far gravi danni, perché introducono spesso forme tremende di clericalizzazione della cultura, del discorso, del modo di fare le omelie o di rivolgersi , al "popolo".

Per trovare modalità diverse
Quello che penso come una (o forse l'unica) reale possibilità, la vera risorsa, ossia che i diaconi sposati restino fedeli allo stile della diaconia familiare nei tre livelli in cui ve l'ho segnalata, nel loro carattere certo solo esemplare, ma anche abbastanza significativo di tutto il carico che il ministero comporta. Credo che questo potrebbe portare più in generale a un radicale rinnovamento del ministero ecclesiale, realizzato con l'umiltà dei passi fatti a partire da un'esperienza diversa, senza pretendere sia superiore a quella classica, ma con tutta la coscienza della sua diversità, per poter trovare parole diverse per dire la stessa cosa, per trovare modi diversi per incontrare le persone, per trovare stili diversi nel programmare l'attività pastorale che, ovviamente, il diacono non fa mai da solo, ma in interlocuzione con vescovi e preti: il fatto stesso che in lui l'esperienza familiare sia un'esperienza meditata gli permette di prendere sul serio il vangelo per la vita, ma anche la vita per il vangelo, così offrendogli categorie altre con cui fare esperienza ed esprimersi.
Questo credo che potrebbe essere il punto cardine su cui l'interazione tra matrimonio e diaconato potrebbe essere davvero un'interazione di grande speranza, pur senza mai negare la legittimità e perfino la insuperabilità di forme celibatarie di ministero, di cui continuiamo ad avere bisogno. Oggi non sarei affatto preoccupato - come erano magari i teologi e i pastori quarant'anni fa - del fatto che attraverso il diaconato permanente di uxorati pian piano si perda il principio celibatario del ministero ecclesiale. Dobbiamo ammettere, però, che non è questo il problema: oggi la questione è quella di integrare il discorso dei ministri celibi col discorso di ministri sposati. Questo, lo si noti con cura, è un aspetto non disciplinare ma dottrinale, pastorale, di modelli di ascolto della Parola, di modelli di celebrazione liturgica, di modelli di rapporto con la corporeità nella celebrazione, di modelli di rapporto col mondo, di modi di usare la voce, di stili e forme di concatenazione di pensieri, di esempio e di uso della parola seria o ironica.

Una ricchezza capace di innovazione
Gli stili astratti - che spesso collimano perfettamente con gli stili clericali - sanno già tutto prima di aver cominciato a parlare. Gli stili matrimoniali devono scoprire in qualche modo le cose nel dirle, nel costruire il discorso. Nel modo di prendere la parola a livello ecclesiale, questo è un bagaglio di risorse straordinario; questo non è vietato, evidentemente, a un ministro celibe, ma il ministro celibe fa molta più fatica ad entrare in un linguaggio che presuppone una forma di vita diversa da quella che lui vive: in qualche modo, egli si fida di un repertorio acquisito per altra via, non per via di esperienza relazionale diretta. Questo surplus di esperienza che il matrimonio vissuto pienamente e profondamente può dare, sarebbe in grado di costituire per il diacono una grande capacità di innovazione dello stile ministeriale nella chiesa.

Come ho detto all'inizio, l'orientamento dello sguardo che ho cercato di suggerirvi e di indicarvi è quasi solo un pretesto per rileggere la tradizione recente, pur rappresentando anche un modo garbato e sincero per affidare proprio ai diaconi sposati il compito primario di fare questo lavoro, di cui io ho potuto solo suggerire alcuni percorsi. Uno sguardo lucido sulla realtà matrimoniale, che non cada in facili astrazioni, e uno sguardo lucido sulle possibilità concrete del ministero diaconale, se coniugati insieme, possono aprire spazi di pensiero, di lavoro, di testimonianza e di vivacità ecclesiale davvero immensi, nei quali rischiamo di perderci solo quando vogliamo tenercene ostinatamente lontani, mentre se accettiamo di attraversarli con le migliori bussole a nostra disposizione, allora possiamo davvero contribuire a creare un nuovo anello di quella catena ininterrotta che si chiama tradizione cristiana.

(A. Grillo è docente di Sacramentaria al Pontificio Ateneo S. Anselmo)



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