Natale del Signore (messa del giorno)
Is 52,7-10
Eb 1,1-6
Gv 1,1-18
DIO HA VERMANETE PARLATO
NEL FIGLIO
Come ogni anno, la solennità del Prologo giovanneo ci strappa a facili sentimentalismi natalizi a buon mercato e ci consente di sporgerci sull'insondabile abisso del mistero. Il Natale cristiano non teme il sentimento, ma domanda di percorrerlo sino in fondo perché sveli il suo vero nome. Non consideriamo mai abbastanza infatti come, dietro la facciata del sentimentalismo, non sia andata perduta totalmente la nostalgia per ciò che di originario e grande esiste nel Natale. La cornice di facili emozioni spesso nasconde, come un rifugio, sentimenti troppo grandi e troppo timidi per offrirsi allo sguardo altrui.
Il testo di Isaia ci guida per questa strada. Muove da una sensazione visiva e uditiva insieme: la bellezza dei piedi del messaggero che annuncia la pace. I pochi versetti saltano continuamente da quanto si vede a quanto si ode, a quanto si può finalmente cantare: «Tutti i confini della terra vedranno la salvezza del nostro Dio» (v. 10). Anche le rovine di Gerusalemme possono «prorompere insieme in canti di gioia» (v. 9). È un sentimento profondo che nasce là dove dovrebbero albergare ben altre emozioni. Tutto si radica in quanto si vede, si sente e poi si potrà toccare con mano.
È il lungo cammino offertoci dal Prologo che muove dall'eternità di Dio e dal suo grembo fino a giungere al volto di un uomo che porta un nome, Gesù. Lui ci ha raccontato tutto il mistero del Padre interpellando la nostra concreta umanità e la sua capacità di sentire, toccare e vedere. Quando affermiamo che nel Natale Dio si colloca al di qua dei nostri limiti e delle nostre povertà; quando ripetiamo che anche le rovine di Gerusalemme sono visitate e che ogni realtà caduca ritrova la propria speranza, non saremmo coerenti fino in fondo se non chiamassimo in causa tutti i nostri sensi. La gioia del Natale è gioia vera, perché è gioia sensibile. Il senso e la ragione dell'universo, il logos giovanneo si offre al tatto, all'odorato, alla vista, all'udito, al gusto. Così ogni madre comunica con il proprio figlio in fasce e così ogni figlio sente e percepisce la propria madre: attraverso i sensi. Troppo spesso li abbiamo opposti crudamente alla percezione di Dio e alla sua conoscenza. Se Dio è puro spirito, se Dio è invisibile e intangibile, come potrebbero soccorrerci i sensi se non portandoci ulteriormente fuori strada?
Invece la poesia del presepe si offre a noi con una materialità che ci sconcerta. Le prime porte tra noi e il mondo, i cinque sensi, ci avvicinano infinitamente al Mistero perché ci permettono di goderne la bellezza e di assaporarne il gusto. Il presepe che adorna le nostre case non potrebbe mai esser nato se non dall'immaginazione sensibile di chi ebbe vera coscienza di quanto l'Incarnazione fosse semplicemente un fatto "umano": udibile, visibile, tangibile e dunque rappresentabile. Se davvero il Verbo ha piantato la sua tenda fra noi, essa ha lasciato tracce e segni che toccano la nostra carne. Non c'è allora nulla di strano quando il nostro sentimento più profondo, quello che temiamo di mostrare ad altri, viene scosso dall'immagine in cui la Vergine Maria allatta al seno il proprio divin Figlio.
È lo struggimento dei sensi, finalmente pieni di Dio e non di altro, a conquistarci all'invisibile. Con l'evento del Natale, la pelle di un neonato, i suoi odori, il sapore che si percepisce al bacio non sono più sensazioni semplicemente profane. Così la Madre di Dio ha conosciuto l'insondabile: attraverso i canali per mezzo dei quali ogni madre accresce l'amore per il proprio figlio, sentendone la carne. Dentro al presepe, incontro al Bambino, davanti alla grotta, l'immaginazione si perde e inizia il suo incredibile viaggio dentro all'Assoluto diventato così relativo e così vicino.
Se la quotidiana e profana esperienza sensibile è canale necessario ora per avvicinare il cielo, resta vero anche il contrario: non v'è esperienza sensibile che non possa riportarci alla notte santa in cui l'Infinito ha fatto irruzione dentro la storia coinvolgendo la nostra umanità. Dio ha veramente parlato nel suo Figlio, come afferma l'incipit della lettera agli Ebrei, in un modo assolutamente e totalmente umano. Se allora Dio ha varcato la soglia del nostro limite senza lasciarsi intimorire dalle "rovine di Gerusalemme" della nostra umanità, ciò è avvenuto perché noi potessimo essere elevati al di là delle nostre miserie. Se le macerie di una città possono intonare un canto, è perché i nostri sensi hanno ricevuto il compito sublime di condurci fino a Dio.
Soprattutto comprendiamo come l'intelligenza non sia più sufficiente come via alla fede perché il Verbo non è un'idea. Non per nulla l'eucaristia, che è cibo per il nostro gusto, perpetua assieme alla Scrittura l'Incarnazione del Verbo. Tutta la nostra persona è avvolta e chiamata a entrare in relazione con Cristo. La povertà della nostra fede spesso si rivela proprio nella totale assenza di gusto. Non percepiamo nulla, non sappiamo comunicare alcun ardore né vivere alcun trasporto. Questo accade non perché siamo liberi di vivere una fede pura e nuda che si lascia possedere da Dio al di là di quello che avverte. Ma piuttosto perché rifuggiamo dalla concretezza di un presepe, come se fosse un orpello per bambini, carino ma, in fondo, sdolcinato. Forse non abbiamo mai avuto l'umiltà e la sapienza di comprendere come senza un presepio interiore che sconvolge e rinvigorisce i sensi fisici e spirituali, permettendo il contatto con Cristo, non può mai essere veramente Natale.
VITA PASTORALE N. 10/2009 (commento di Claudio Arletti, parroco di Maranello)
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