XXXII Domenica del Tempo ordinario
1Re 17,10-16
Eb 9,24-28
Mc 12,38-44
PUÒ DONARE TUTTO
Il capitolo 12 del vangelo di Marco presenta una lunga serie di controversie, speculare a quella del capitolo 2, tramite le quali Gesù affronta di nuovo l'opposizione delle autorità giudaiche. La questione in gioco è l'autorità con la quale il Cristo ha scacciato i mercanti dal Tempio (11,28). Sfidare il Maestro sulle questioni più diverse è il modo in cui tale presunta autorità è messa alla prova. Nei versetti che precedono immediatamente l'odierna pagina evangelica (12,35-37) le parti si invertono: sarà Gesù stesso a porre una questione alla folla, contestando implicitamente la dottrina e l'autorità degli scribi, suoi avversari: come possono essi affermare che il Cristo è figlio di Davide se Davide stesso nel salmo 110 lo chiama "Mio Signore"?
Ma Gesù non si ferma qui. L'interpretazione delle Scritture relativamente al Messia non è il male più grave da cui i detentori del potere sono afflitti. Il dramma sta in ciò che essi desiderano. I vv. 38-39 costituiscono appunto il lungo elenco dei beni da essi bramati. Amano un certo tipo di abbigliamento e la possibilità che ne deriva di essere riconosciuti e riveriti nelle piazze. Soprattutto essi bramano di primeggiare sia nel culto sinagogale, sia nella profanità di un banchetto. Ma la loro fame non si arresta qui. Usano la conoscenza del diritto per rovinare i poveri per eccellenza, ossia le vedove, manifestando al contempo grande devozione attraverso lunghe preghiere.
L'elemento sconcertante sta nella voracità con cui le guide religiose del popolo si accaparrano ricchezze, consensi e fama di profonda fede. Anche il dare diviene occasione per prendere. Quando infatti Gesù si siede a osservare le offerte gettate nel tesoro del Tempio, molti ricchi depongono grandi offerte. Il meccanismo di appariscenza non è diverso: dobbiamo pensare a grosse quantità di monete buttate rumorosamente in un comune deposito. Era impossibile non accorgersi della ricca donazione compiuta da uomini facoltosi. Gesù siede e guarda (v. 41). Ma il suo occhio è profondamente diverso. Guarda criticamente e sa vedere al punto tale, da riconoscere il valore di quanto sfugge a tutti gli altri. È il caso dell' ''obolo della vedova", nome tradizionalmente riconosciuto a questo breve e toccante episodio. Il gesto diviene occasione per una vera e propria chiamata rivolta ai discepoli (v. 43). Il verbo ha una sua solennità. Basta notare l'uso che fa della stessa precisa forma verbale l'evangelista ad esempio al principio del cap. 8 per manifestare la sua compassione a favore delle folle stanche e affamate per le quali spezzerà il pane moltiplicandolo. Possiamo richiamare sempre nel cap. 8 anche il v. 34: Gesù ha appena rimproverato Pietro che si opponeva al suo cammino verso Gerusalemme. Ora chiama discepoli e folla per enunciare la legge del discepolato: rinnegare se stessi e seguirlo portando la propria Croce. Si tratta di momenti contraddistinti da fondamentali istruzioni.
Il caso della vedova non è diverso. Non è solo questione di elogiare un gesto di grande generosità ma di comprendere il senso del sacrificio autentico, quale sta per compiere il Figlio di Dio. Non è un caso che l'episodio chiuda di fatto il ministero pubblico di Gesù a Gerusalemme. Segue immediatamente il grande discorso escatologico del cap. 13 poi si apre il racconto della Passione. Ritroveremo al suo inizio ancora una donna, anonima come la vedova, ma capace di un gesto tale da identificarsi con l'annuncio della Buona Novella in tutto il mondo: colei che versa un prezioso unguento sul capo di Cristo (14,3-9). Anche in questo caso, l'offerta è radicale. Due donne introducono il lettore al momento culminante del racconto: la Pasqua del Figlio di Dio anticipata e significata dall'ultima cena. Nessun discepolo sarà così vicino al Maestro nel momento della sua morte come lo è ora questa donna che getta nel tesoro pochi spiccioli.
Gesù fa a suo riguardo due affermazioni fondamentali. Essa anzitutto ha dato «più di tutti gli altri» (v. 43). Non è la quantità del dono ma la sua qualità a definirlo. Nel versetto seguente il Maestro spiega la propria affermazione. Il poco della vedova è tutto quanto aveva per vivere. C'è tutta se stessa nel dono. Ogni regalo, in fondo, vorrebbe raggiungere il medesimo scopo. Siccome non posso donare tutto me stesso, esprimo questo desiderio attraverso il dono. Il dono o mi rappresenta e dunque racconta l'importanza di una relazione umana o non è nulla. Il dono deve essere "personale": esprimere ciò che sono e ciò che l'altro è per me. La donna -letteralmente in greco - offre "tutta quanta la vita". Se Dio è tutto per me, come potrò offrirgli solo qualcosa? È il senso del sacrificio di Cristo, non sacrificio di animali o uccelli, come ricorda la lettera agli Ebrei. Egli entra nel santuario celeste con il proprio sangue. Non è in gioco ciò che possiedo, ma ciò che sono. Gesù, però, si spinge oltre: il v. 44, letteralmente non dice: «Lei, invece, nella sua miseria [...]», ma «Lei, invece, dalla sua miseria». È il principio del dono a essere determinante. Tutto si origina dalla povertà come luogo in cui apprendo ad affidarmi. La vedova ha davvero messo tutto nelle mani di Dio: non solo quanto ha dato. Ma quanto rimane: i suoi giorni e il suo sostentamento. Ora la sua povertà è totale. Ora il suo destino è nelle mani del Padre. Per questo la vedova ora è più che mai simile a Cristo.
VITA PASTORALE N. 9/2009 (commento di Claudio Arletti,
presbitero della arcidiocesi di Modena-Nonantola)
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