Prefazione (L'arte di amare, Chiara Lubich)

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da L'arte di amare
di Chiara Lubich (2005)

Prefazione
di Sergio Zavoli

Il libro - esile di pagine ma denso e compatto come andrebbe invidiato a chi scrive o stampa - viene opportunamente alla luce in tempi assai difficili.
Credo non vi sia stato, in questo recente scorcio d'anni, un momento che abbia prodotto un così profondo e sconcertante sentimento di precarietà. A portar fascine, e a gettare zolfo, sui falò accesi da questa diffusa inquietudine sono i pensatori apocalittici, riversi sulle nostre sorti per cogliere le avvisaglie di un incendio di proporzioni epocale, assimilabile a quello generato dalla follia antisemita del nazismo, ma stavolta con l'islam e la cristianità per protagonisti. Sarebbe in atto - così si pretende - uno scontro aperto, di natura non solo religiosa, ma anche civile ed etica, che coinvolge l'identità complessiva di due civiltà. Di conserva, assistiamo al prodigarsi dì osservatori più idonei alla qualità della disputa; e anche qui, da almeno mezzo secolo, non si era mai assistito a tante esternazioni di storici, teologi, politologi, filosofi del diritto, della storia e della scienza, sociologi, epistemologi, massmediologi, e operatori culturali in genere, i quali si dividono nell'interpretazione di uno scenario che richiama valori tra i più profondi della condizione umana, non mescolando con la civiltà islamica fondamentalismo e terrorismo - fenomeni politici, cioè contingenti – da contrastare con la politica. Il che, se giustifica l'allarme, non legittima i bagliori di guerra accesi da chi fa, invece, un uso enfatico e subdolo di parole come identità, nel senso di primazie etiche e culturali, altezze spirituali e civili.

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Forse va considerato che nei confronto con la pratica devozionale dell'islam, cioè la traduzione monolitica e letterale del Corano, il cristianesimo offre una più universale, ma anche più lacerata e contraddittoria immagine di se stesso; favorita da una secolarizzazione che è il più grave degli scandali agli occhi della parte inconciliabile dei seguaci di Mohammed. Il nostro sotteso laicismo, frutto di una metodica riserva su tutto ciò che non si sottopone a una verifica di razionalità, è una storica disputa tra fides e ratio che descrive il cristianesimo occidentale come il luogo non solo delle assimilazioni e delle compatibilità, cioè dell'incontro, ma anche dell'agostiniana fides infirma, cioè insicura, messa di continuo alla prova e fonte di possibili compromessi; complice, per così dire, la dimensione razionale presente anche in tanta teologia, da Anselmo e Tommaso in poi. Ciò induce al reciso giudizio dell'islam più dogmatico e integralista. Quanto alle contraddizioni, non è un mistero che in Italia, dove si difende con particolare intensità un'Europa dalle origini cristiane, da un uomo di governo sia venuta la proposta di prendere a cannonate le "carrette del mare" cariche di derelitti, e un'autorità ancora più alta abbia ventilato il pericolo delle contaminazioni - da cui, peraltro, nacquero gli europei - come conseguenza di troppa tolleranza.
La domanda che da più parti viene posta è se il cristianesimo - storicamente tenuto a doversi confrontare per primo con tutte le modernità succedutesi da Cristo in avanti, "condizionato'' dall'aver scelto l'Occidente per la sua grande "seminagione", costretto a misurarsi con la scienza più avanzata e a convivere con un'etica sempre più espressione culturale e sempre meno valoriale - rappresenti ancora una pretesa "civiltà superiore", in grado di moderare le contraddizioni del mondo, Mentre si dà per certo che l'islam, tutto quanto, è un insieme di obbedienze e di intolleranze imbevute di ritualità e fanatismo, ignorando i tesori di armonia e di saggezza che la sua religione continua a riservare anche alle dimensioni civili e culturali vai via insorgenti.
Non c'è chi non possa vedere, volendolo, l'abissale gratuità di un pregiudizio rimesso in vita, a partire dal tragico 11 settembre, dalla barbarica strategia di una frangia fanatizzata; e, al tempo stesso, la crociata intellettuale, politica e religiosa che da varie cattedre si abbatte contro l'islam, rispolverando i vecchi, lugubri arnesi della "superiorità".

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Riflettevo su queste cose scorrendo L'arte di amare, di Chiara Lubich. Penso al bene che ne verrebbe - non in senso virtuoso, edificante, ma proprio per suoi significati concreti - se la lettura di queste pagine, disadorne e amorevoli, avesse la forza di contrastare le grandi, plateali; sulfuree esternazioni concesse, su pagine ben più influenti, a chi si esalta nel proclamare purezze, distanze, primati e, appunto, inconciliabilità.
Il libro è la sintesi stessa, ideale e spirituale, di questa contraddizione. Non c'è spirito di pace, del resto, che non oltrepassi l'inconciliabilità del mistero e della storia, che non esprima e autentichi nelle facoltà, invero arcane, della profezia. Chiara Lubich rappresenta da mezzo secolo ciò che concilia la realtà della fede con la realtà della materia, facendo della "promessa" l'inizio di ogni sapere e sentire. Spero che nessuno si chieda, ad esempio, se Madre Teresa di Calcutta sia stata più corpo o anima, più persona o segno. Sono distinzioni da lasciare agli esteti dell'edificazione e persino dell'angelismo; oppure ai guardiani del determinismo e della relatività sperimentale. Chiara Lubich, come altri mistici della Chiesa, è insieme annuncio e ascolto, parola e traduzione, segno e senso. Ecco perché e una possibile congiunzione tra profezia e cammino, volta a mettere insieme ciò che inclina a separarsi; e lo fa in nome di ogni uomo, di ogni cultura, di ogni religione. Dove è stata voluta e ascoltata, cioè in ogni parte del mondo, ha provocato un'idea di Dia riconducibile alla sua essenza unica e univoca, non mutuatile, né separabile, né ripetibile; facendo rivivere, in sostanza, lo "spirito di Assisi', secondo cui non c'è un inginocchiatoio dal quale una preghiera possa pretendere di salire più in alto di tutte le altre. E proprio qui la testimonianza di Chiara spegne i fuochi delle solitudini ardenti - invaghite dei propri privilegi, a cominciare da un Dio personale - in cui si prega e si spera ciascuno per sé, non tenuti a condividere d bene e il male che attraversano tutti e ogni cosa. Radicata in un secolo colpevole di tanti orrori, ma al quale va riconosciuta la più sociale e morale delle scoperte antropologiche, quella del primato del noi sull'io - il primato non solo etico, ma anche reale, dell'esser nati per la condivisione -, Chiara ci mostra che gli uomini non solo vivono, ma esistono, insieme, L'uomo, insomma, è essenzialmente la sua relazione, dal momento che nascendo ha già dentro la contestualità dell'altro, cioè di colui da cui più promana la sua stessa identità, essendo tutti nati - seppure «a sembianza d'un solo», come dice Manzoni - da altri per gli altri. D'altronde, per diffidare dei destini solitari, in cui si è solo se per se stessi, basterà ricordare, con Montaigne, «come i cimiteri siano pieni di persone che si ritenevano uniche, fondamentali e inconfondibili!».

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Chiara Lubich non a caso ci obbliga a riflettere sul da farsi per rimettere insieme l'etica dell'unità, cioè riunire i frammenti dell'indivisibile, l'uomo, ricomponendo le strutture del condivisibile, la comunità. L'altro, insomma: non quello degli psicologi, dell'esistenzialismo o dell'ideologia, né dell'antropologo o dello psichiatra, ma proprio quello non tutelato nella sua alterità, non riconosciuto, non visto, e perciò non amato; quello presente in nome del bisogno, anzitutto morale, di riconoscersi e amarsi nella madre comune, la vita, da cui comincia il nostro viaggio umano, l'altro, senza pensare il quale la tua persona è diminuita, l'altro come memoria e come premessa di quella «tela apparentemente senza significato che è la storia», per dirla con Goethe, in cui ciascuno vale tutta l'umanità e deve risponderne per intero. Ma con quali mezzi? È una contraddizione, secondo Chiara, che si scioglie sulla Croce, dove c'è un uomo che non misura più le distanze, non cerca più il colpevole, non si fa più giustizia, ma assume su di sé la tua vita, cori tutte le sue ferite; dove, con le sue braccia larghe, e inchiodate, in realtà stringe al petto le divisioni del mondo. Non dunque un'altera, incontestabile, dogmatica professione religiosa: al contrario, è partendo da qui che si compie il salto rischioso della fede, come lo chiama Kierkegaard, dove si lanciano i dadi di Pascal, dove si svolge la partita a scacchi del Settimo sigillo di Bergman. Ciò che lacera gli nomini e la loro relazione è l'idea che le nostra vita dimori in un arcipelago di innumerabili isole in ciascuna delle quali c'è uno di noi che vede l'umanità nella propria ombra, fidandosi di quella soltanto. Pronto a cogliere in quella del vicino qualcosa sospetto, di ostile, da dover controllare e magari colpire. Le guerre di religione, e di civiltà, nascono dal vedere e amare quelle ombre.

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