XXVI Domenica del Tempo ordinario


ANNO B - 27 settembre 2009
XXVI Domenica del Tempo ordinario

Num 11,25-29
Gc 5,1-6
Mc 9,38-43.45.47-48
IL "LONTANO" CHE CI
PROVOCA E INTERPELLA

Se occorrevano altre conferme all'incomprensione, unico vero tratto che accomuna Gesù ai suoi nei capp. 8-10 di Marco, basti notare la transizione fra il brano di domenica scorsa e il passo propostoci per l'odierna. Gesù aveva ripreso i Dodici, impegnati a stilare classifiche, invitandoli all'accoglienza dei fanciulli, atteggiamento di chiaro disarmo e disponibilità. La replica dell'apostolo Giovanni, con cui inizia la pericope di questa domenica, è sconcertante. Egli ha bloccato chi, nel nome di Gesù, scacciava un demonio. Siamo agli antipodi rispetto alla più elementare accoglienza dell' "altro". Non pensiamo però che il caso sia distante dalla vita delle nostre Chiese locali.
Esiste, infatti, una parola, usata abbastanza di frequente nel gergo ecclesiale: la parola "lontano". Chiamiamo "lontani" coloro che non si riconoscono nella comunità parrocchiale o nelle associazioni e movimenti cattolici. Chiamiamo "lontani" coloro che, in qualche modo, avvertiamo essere su una linea differente dalla nostra, quanto alla fede e alla sua prassi. Il vangelo di oggi mette profondamente in questione questa categoria e noi che l'abbiamo creata. I non appartenenti, infatti, da chi sono "lontani"? O da dove sono "lontani"? La lontananza da un certo modello di comunità ecclesiale è sempre identificabile con la lontananza da Cristo?

La pagina di Marco che abbiamo letto sembra distinguere nettamente il modo in cui Giovanni e il Maestro percepiscono questa categoria. E se i lontani li creassimo noi? Se fossimo noi a creare dei confini rigidi, in base ai quali c'è chi è dentro e chi è fuori? Il testo sembra ironizzare sull'atteggiamento di Giovanni: egli, con le sue parole, è convinto di produrre un'affermazione di incondizionata fedeltà a Gesù e al gruppo che Lui ha costituito. Pare davvero che egli stia per meritare un elogio da parte del Maestro e la sua forte approvazione. Anche perché il testo greco lascia in sospeso l'esito della proibizione messa in opera dai discepoli. «Un tale faceva esorcismi - recita il testo originale - e noi glielo impedivamo» (v. 38), utilizzando un imperfetto che allude a un'azione prolungata, reiterata, ma forse incompiuta. Sembra quasi che questo outsider abbia realizzato il suo esorcismo. Non è stato possibile fermarlo. Il nome di Gesù ha manifestato, ancora una volta, la sua forza di liberazione. Il lettore di Marco ricorda che in Mc 9,18 l'esorcismo tentato dai discepoli vicini a Gesù sul giovane epilettico è fallito miseramente. Forse sono quegli stessi discepoli che provano invano a cacciare demoni a essere prigionieri di uno specialissimo demone, quello dell'invidia?
L'obiezione mossa dall'apostolo all'esorcista non autorizzato si muove su due registri: il verbo "seguire" e il pronome "noi" (v. 38). Il verbo utilizzato è quello tecnico della sequela. Se il discepolo non si mette in atteggiamento di sequela, non è tale. Il problema è il complemento che fa da oggetto al verbo. Mai Gesù, anche quando già un piccolo gruppo si è costituito, chiama a sé nuovi discepoli usando il "noi". La sequela cristiana non consiste nell'aggregarsi a un gruppo, ma nel mettersi sulla strada di Cristo, lungo la quale incontro altri fratelli che la percorrono con me e per il mio stesso motivo. Il motivo di coesione del "noi" è il "me" che troviamo in ogni racconto di chiamata: «Seguimi». La nuova comunità radunata dal Cristo non è un ente autonomo o il frutto di una concertazione democratica: solo Cristo e la sua presenza giustifica il cammino dei Dodici. Dunque, il "noi" non può essere protagonista assoluto. Gesù capovolge la prospettiva, allarga i confini, sbriciola la categoria blindata del discepolo appartenente a una sorta di setta. Se Lui è il riferimento assoluto, allora chi scaccia demoni nel suo nome non può essere contro di Lui né, dunque, contro il gruppo che Lui ha costituito.

L'opera che crea sconcerto nei discepoli è un esorcismo. La cacciata di Satana è uno dei segni che Gesù indica come rivelatori della presenza del Regno (cf Mc 6,13). È proprio il regno di Dio a rappresentare una realtà non facilmente circoscrivibile: essa si alimenta di due componenti fondamentali, presenti nell'opera dell'oscuro esorcista del v. 38: il nome di Cristo e il servizio all'uomo. È importante notare come i confini del Regno ospitino chi si prende cura dell'uomo e dei suoi mali. L'amore di Dio opera per riscattare gli ultimi, per cambiarne in meglio le condizioni di vita. La via della Chiesa non è la comunità ecclesiale intesa come tramite e fine di tutto. Il "lontano" allora ci interpella e ci provoca. La sua opera al servizio dell'uomo interroga la nostra pigrizia e il nostro culto, a volte così sterile e incapace di produrre solidarietà. Diversamente, la sequela di Cristo può anche produrre scandalo. È questo il senso della seconda parte dell'odierno vangelo: il detto sullo scandalo, infatti, è curiosamente collegato alle parole intolleranti di Giovanni. L'intolleranza dei credenti ha un qualcosa di scandaloso, che ostacola il cammino dei piccoli. Le tre parti del corpo menzionate da Gesù sono organi di relazione: l'occhio, la mano e il piede. Con i nostri occhi guardiamo e giudichiamo il fratello. Le nostre mani possono accoglierlo e aprirsi nel dono, o escluderlo e chiudersi nel rifiuto più duro. Il nostro piede può condurci al fratello che non è "dei nostri", o semplicemente lasciarci in una sequela che di evangelico ha ben poco, se non sa raggiungere coloro che entrano nei confini dell'amore di Dio.

VITA PASTORALE N. 8/2009
(commento di Claudio Arletti,
presbitero della arcidiocesi di Modena-Nonantola)


torna su
torna all'indice
home