XIX Domenica del Tempo ordinario
1Re 19,4-8
Ef 4,30-5,2
Gv 6,41-51
A NOI, OGGI E SEMPRE
GESÙ OFFRE QUEL CIBO
Possiamo scorgere nelle tre letture di questa domenica un unico filo conduttore costituito dalla "mormorazione" o resistenza dell'uomo a Dio. Muovendo dalla prima lettura, dobbiamo necessariamente integrare i pochissimi versetti inclusi dal testo liturgico, talmente scarni da impedire di comprendere quale sia il contesto della fuga di Elia. Si tratta del momento più basso toccato dal profeta durante la sua missione. Dopo il trionfo conseguito sul monte Carmelo, nella sfida con i quattrocento profeti di Baal, pare che ormai tutto Israele penda dalle labbra di colui che serve l'unico vero Dio, YHWH (1Re 18,20-40). Invece la regina Gezabele, moglie del debole Acab, mai doma, invia un'ambasciata minacciosa ad Elia e gli prospetta la medesima fine che egli ha voluto per i quattrocento profeti scannati dalla sua stessa mano presso il torrente Kison (1Re 19,1-2). Il coraggioso profeta, solitario difensore della fede jahvistica, accusa il colpo e intraprende una fuga quasi irragionevole.
Se Gezabele avesse davvero voluto eliminarlo, invece di avvisarlo offrendogli una giornata di tempo per allontanarsi, lo avrebbe direttamente fatto uccidere dai suoi emissari. Elia perde il controllo. Non solo scappa verso il deserto ma addirittura si priva dell'unico sostegno costituito dal suo servo e procede completamente solo verso il nulla (1Re 19,3). Giunge così a un tale fondo di depressione da invocare la morte. È toccante la motivazione espressa dal profeta nella sua ultima preghiera: «Ora basta, o Signore. Prendi la mia vita, perché io non sono migliore dei miei padri» (1Re 19,4). Ciò che Mosè non aveva potuto fare, ossia garantire a Israele un durevole e fedele patto con Dio, pareva ormai realizzato da Elia sul Carmelo. Non possiamo soffermarci ora sugli innumerevoli paralleli che interessano le due grandi figure dell'AT. Certamente Elia poteva essere un nuovo Mosè e anche più di Mosè. Invece, dopo il suo più clamoroso trionfo, tutto sembra dover ricominciare daccapo e il conflitto con la casa regnante non è ancora risolto definitivamente.
La breve frase con cui Elia invoca la morte offre la misura di quanto fosse presente in lui un ragionamento auto-affermativo oltre alla indiscussa fede in YHWH. La posta in gioco era il confronto con una lunga processione di grandi uomini di Dio. Elia, però, non è migliore di loro. Anch'egli conobbe nella sua vita un istante in cui morire sembrò meglio che vivere. Ciò che appare come un'autocritica è anche vera mormorazione. Come Dio ha potuto permettere che regnanti empi minaccino ancora il suo inviato? Se Elia è deluso da se stesso non è anche perché YHWH ha deluso Lui non proteggendolo a dovere? Il modo in cui Dio si prende cura del suo profeta è straordinario. Questi ritorna a una condizione quasi fetale: dorme e mangia. YHWH lo nutre attraverso un cibo semplicissimo - il pane - ma efficace segno di amore e di cura. Il pane non è solo frumento. Non è solo natura. E natura e cultura. È un frutto dei campi lavorato dalle mani dell'uomo. Il sudore che è costato può essere veicolo di cura e d'amore da parte di chi l'ha preparato. Così, in un certo modo, YHWH stesso cuoce il pane per il suo inviato. Per questo Elia camminerà con la forza di quel cibo per quaranta giorni e quaranta notti fino all'Oreb senza avvertire alcuna fatica. Nel segno del pane cotto preparato per Lui Elia ha di nuovo incontrato Dio e la sua vicinanza.
La fatica della vita comune è invece all'origine della mormorazione cui accenna Paolo nella seconda lettura.
Le sue parole lasciano intendere scontri molto aspri, tali da indurre l'uso di parole offensive e pesanti. Anche qui dietro alla mormorazione contro l'altro non possiamo non scorgere un malcontento contro il Signore e la sua Chiesa, mai del tutto all'altezza delle nostre aspettative. Ma la mormorazione ultima e centrale dell'odierna liturgia è quella che si scatena contro il Figlio di Dio. Proprio la sua pretesa di essere pane disceso dal cielo conduce i Giudei a confrontarsi sulle sue origini. Il passo giovanneo ricalca qui quanto narrato dai Sinottici: la provenienza di Gesù era ben nota. Era, diremmo, quasi banale. Così il Cristo viene liquidato piuttosto frettolosamente: come può discendere dal cielo chi proviene da genitori ben conosciuti? In fondo, la storia si ripete.
Come Israele mormorò nel deserto per la fame ma anche per la manna, cibo leggero e nauseante, così ora davanti al nuovo e definitivo dono di Dio la protesta si ripete. Come la manna acquisì una certa banalità e ordinarietà, così Cristo sconta il suo essere realmente uomo. Nella mormorazione ritroviamo sempre lo stesso motivo di fondo. L'uomo, deluso da quel Dio che non s'aspetta, lo sconfessa senza neppure rivolgersi direttamente a Lui nella preghiera. Questo è il lato amaro della mormorazione in ogni sua dimensione. Non è il confronto aperto che Giobbe intavola con YHWH perché renda giustizia del suo operato. È il rifiuto di un confronto franco a favore di parole clandestine, spese di nascosto. Così Gesù stigmatizza la chiacchiera dei Giudei: «Non mormorate fra voi». Egli spezza il cerchio di ostilità creatosi e pone la questione fondamentale: nessuno può venire a Lui se il Padre non lo consente (v. 44).
VITA PASTORALE N. 7/2009 (commento di Claudio Arletti,
presbitero della arcidiocesi di Modena-Nonantola)
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