XIV Domenica del Tempo ordinario

ANNO B - 5 luglio 2009
XIV Domenica del Tempo ordinario

Ez 2,2-5
2Cor 12,7-10
Mc 6,1-6
DI SABATO VENNE
NELLA SINAGOGA DI NAZARET

L'esordio dell'odierno brano evangelico non sembra lontano dalla situazione già descritta al cap. 1: Gesù entra in una sinagoga in giorno di sabato e il suo insegnamento stupisce i presenti. Addirittura compare un termine nuovo: "sapienza" (6,2). Marco non userà più nel prosieguo del racconto questo altisonante vocabolo. Gesù non è solo capace di operare segni potenti, ma è anche portatore di un sapere sorprendente. Tuttavia, apprenderemo che lo stupore è come una cifra, come un numero. Il segno che lo precede può renderlo grandezza negativa e non positiva. Così sarà dello stupore dei nazaretani. Se, infatti, l'attività intrapresa dal Figlio di Dio non è nuova - predicare -, come non è nuovo il giorno in cui la pratica - il giorno di sabato -, cambia il luogo in cui prosegue il ministero di Gesù. Egli torna nella sua patria.

Marco non si prende neppure il disturbo di nominare espressamente Nazaret. Non è importante di quale località si tratti, ma di quale rapporto tale paese intrattenga con Gesù. È il paese dove il "figlio di Maria" è cresciuto. Questo basterà per comprendere a fondo la reazione della gente a prima vista incomprensibile. La prima domanda suscitata dall'insegnamento del Cristo - da dove provengano sapienza e segni prodigiosi (v. 2) - è ancora una domanda aperta. Potrebbe condurre alla fede, al riconoscimento dell'identità celeste del loro compatriota. C'è qualcosa in Gesù di inspiegabile che invita a deporre opinioni preconcette e luoghi comuni. Ma è purtroppo la seconda a chiarire anche il tono della prima e a suggerire la risposta per entrambe. Esse non sono altro che domande retoriche, indice non di ricerca ma di un fastidioso non capire del tutto, risolto molto frettolosamente con la liquidazione della "pratica-Cristo". I segni e la sapienza di cui Gesù è portatore stonano con la conoscenza che i nazaretani hanno di lui. Sanno tutto delle sue origini. Conoscono i suoi familiari e la sua professione. Non è certo un inedito il maestro che si presenta ricco di sapienza e opere potenti.
Come è possibile dunque combinare lo straordinario di cui sono spettatori con l'ordinarietà cui erano assuefatti? Il problema qui non è riconoscere "segni" e "sapienza". Essi sono evidenti. Il problema è spiegarne l'origine. Già al cap. 3 le autorità giudaiche avevano risolto la questione, affermando che era nel nome di Beelzebùl che Gesù scacciava i demoni. Se qui non si giunge a tanto, rimane comunque lo "scandalo" (6,3). Non solo la fede non progredisce, ma arretra e giunge a una conclusione negativa. Chi non riconosce l'Inviato definitivo del Padre e archivia in poche battute la sua presenza disperde, poiché non raccoglie con lui. In prospettiva escatologica, l'incredulità dei nazaretani non è così distante dalle accuse mosse a Gesù nel cap. 3. Senza timore di spiazzarci, dopo che il cap. 5 ha riferito domenica scorsa di due miracoli avvenuti grazie alla fede mostrata dai destinatari del segno, ora Marco narra uno stop imprevisto. Lo stesso Cristo che ha destato meraviglia ed entusiasmo qui viene congedato con due semplici domande retoriche. Davanti al già conosciuto, di fronte al già visto, come potrebbe l'uomo riconoscere la mano di Dio? Le radici umane di Gesù sono "presso di noi" - affermano i suoi concittadini - non certo in cielo o presso Dio.
In risposta, il Nazareno cita una frase dal sapore proverbiale che spiega non solo come Dio agisca nella storia ma anche come l'uomo si attenda di riconoscere la sua azione. Il divino è sempre collegato al sensazionale, al mirabolante. Se non ha questi tratti non è divino, ma semplicemente umano. In realtà, lungo tutta la Bibbia, la condiscendenza del Dio di Israele sovverte questa regola. I suoi inviati, i profeti, pur essendo autenticamente mossi dallo Spirito, risultano a volte anche banali, impopolari e dunque perdenti. Riconoscendosi come profeta, Gesù vive un ulteriore aspetto della verità dell'incarnazione: è talmente uno di noi, ha assunto a tal punto la natura umana da perdere la possibilità presso alcuni di essere riconosciuto come Dio. I suoi concittadini chiudono la sua pratica con una rapidità sconcertante proprio per questa ragione. YHWH non è mai solo un Dio "da lontano". È anche un Dio" da vicino", talmente solidale e prossimo da essere misconosciuto.

La banalità dell'incarnazione non è solo caratteristica di Gesù e del suo ministero. È la banalità delle tante mediazioni di cui Dio si serve, a partire dalla semplicità dei segni sacramentali, come l'acqua, l'olio, il pane e il vino, fino a giungere ai poveri mezzi umani attraverso cui continua a parlare. Se non c'è novità sensazionale l'uomo non è disposto a riconoscere l'impronta di Dio nella propria vita. Ma come potrebbe perdurare la novità se il Padre, attraverso l'incarnazione del Verbo ci ama in modo fedele e indissolubile? La solidarietà di Gesù con l'uomo diviene paradossalmente uno degli ostacoli alla sua missione. C'è infatti un solo modo per fermare la potenza di quel Dio che sempre chiede la cooperazione della nostra fede per agire: l'incredulità. Marco stigmatizza così l'atteggiamento dei compatrioti di Gesù e così spiega i pochi malati guariti con l'imposizione delle mani (6,5).

VITA PASTORALE N. 6/2009 (commento di Claudio Arletti,
presbitero della arcidiocesi di Modena-Nonantola)



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