Ascensione del Signore (B)


ANNO B - 24 maggio 2009
Ascensione del Signore

At 1,1-11
Ef 4,1-13
Mc 16,15-20

FU ELEVATO IN ALTO
SOTTO I LORO OCCHI

L'inizio del libro di Atti segnala una chiara frattura. Nel suo primo libro Luca ha narrato a Teofilo quanto Gesù fece e insegnò «fino al giorno in cui...» (v. 2). Quel "fino a" indica un termine al percorso storico di Gesù prima e dopo la sua morte nella terra di Palestina, assieme agli apostoli che si era scelto. Poi ascese al cielo come Signore del cielo e della terra, Cristo cosmico, presenza eterna e pervasiva. Tuttavia non possiamo nascondere come la mutata presenza di Gesù nella Chiesa e nel mondo coincida anche con un'assenza molto più percepibile. Il testo di Atti ribadisce a più riprese quella sorta di smarrimento che afferrò i suoi più intimi amici con l'Ascensione al cielo del loro Signore.
Dopo la sua risurrezione Cristo si mostrò infatti vivo, si intrattenne con i suoi, mangiò con loro, parlò per quaranta giorni del regno di Dio. Pur nella sua nuova dimensione corporea, egli fu ancora amico, maestro e compagno del gruppo che scelse fin dalle origini. Gesù era voce e presenza. Poi tutto questo cessò. Si riapriva il tempo della promessa e dell'attesa che è sempre anche tempo di assenza e speranza (v. 4). Bisognava infatti attendere «non molti giorni» (v. 5) di essere rivestiti di potenza dall'alto, grazie alla forza dello Spirito (v. 8). Tutto cambiava.

Non possiamo sottovalutare questo stacco se consideriamo quale esperienza fu condividere il ministero pubblico di Gesù, sperimentare la sua continua vicinanza e presenza, pur nell'incertezza e nella contraddizione, nell'incomprensione e nella persecuzione. Cosa non avrebbero dato gli undici per conservare accanto a loro la presenza del Maestro? L'ascensione, in questo senso, è la festa che sancisce la dimensione adulta della fede. È il momento del distacco, del congedo da parte di Cristo immagine del Padre ma anche presenza materna di Dio.
In questa ricorrenza appare più che mai chiaro quanto il cristianesimo si distingua dalle religioni dell'estremo Oriente dove tra il divino e l'umano può operarsi una sorta di fusione e di simbiosi. Sono le religioni dove il soprannaturale è un grembo che contiene l'uomo dentro di sé invitandolo a perdersi al suo interno. Con l'Ascensione gli undici iniziano a percepire il Cristo come assenza e silenzio. Certo, Egli siede alla destra del Padre, ma a quale prezzo "psicologico"? Il prezzo è la perdita di una squisita immediatezza: ogni incontro, ogni evento piccolo e grande non sarebbe più stato letto "a caldo" dalla Parola fatta carne, dal suo sguardo, dai suoi gesti.
Presi dallo smarrimento, non per nulla gli apostoli domandano se almeno, prima della sua dipartita, il Cristo restaurerà un'altra forma di presenza tangibile: il regno a Israele. Ciò significava il ritorno alla condizione precedente all'esilio di Babilonia. Era il sogno di una autonomia politica e governativa, di un monarca che avrebbe finalmente dato spazio alla signoria di YHWH. Ma Gesù delude questa pretesa. È un sogno da uomini, non è la promessa del Padre.
Possiamo immaginare, anche perché Luca lo racconta, cosa poteva significare estendere la signoria di Cristo nella sola Palestina con la presenza del governo di Roma, lo stesso che aveva crocefisso Gesù ad un legno. È, di nuovo, la preoccupazione di un gruppo che perde il proprio leader, la propria guida. È lo stesso timore che spinse gli apostoli ad asserragliarsi nel cenacolo dopo la morte di Gesù.
È, in fondo, il nostro timore, davanti ad un mondo dove siamo sempre più minoranza, poco considerata e poco incisiva. Corriamo anche noi il rischio di condividere l'ansia degli apostoli: se almeno avessimo un chiaro sostegno da parte delle istituzioni; se avessimo le poltrone che contano... Agli undici intimoriti dalla presenza romana nella loro terra, Gesù replica prospettando una testimonianza che non ha confini, se non quelli del mondo stesso.

Anche il quadro finale rinforza la sensazione di un gruppo smarrito. Gesù ascende al cielo e una nube lo sottrae, per sempre, allo sguardo dei suoi intimi compagni di strada. Serve addirittura un chiaro rimprovero dall'alto, per mezzo di celesti messaggeri perché gli Undici distolgano lo sguardo dal cielo (vv. 10-11). La domanda posta al piccolo gruppo con il naso per aria non ha bisogno di risposta. Stanno a guardare il cielo perché è l'ultimo orizzonte su cui hanno visto la presenza del loro Signore ancora afferrabile dai sensi. All'angelo spetta ricordare che da quello stesso cielo, nello stesso modo, un giorno il Cristo tornerà.
Come rivela il vangelo di Marco, si apre il tempo di una operosa attesa. La presenza del Signore Gesù è affidata al cammino, alle opere e ai segni dei suoi inviati. Saranno loro a rendere vivo il Cristo attraverso la vittoria sul male, la capacità di parlare lingue nuove. È il ministero della Chiesa, ministero di riconciliazione tra Dio e l'uomo e tra uomo e uomo. Questo è il senso del doppio segno: la forza esorcistica e la continua Pentecoste delle lingue. A questo si aggiunge una sorta di immunità dell'evangelizzatore, da veleni e serpenti che diviene pure capacità di guarigione del malato.

VITA PASTORALE N. 4/2009 (commento di Claudio Arletti,
presbitero della arcidiocesi di Modena-Nonantola)


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